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domenica 11 gennaio 2015

L’Islam riflette sull’estremismo di casa

Accanto alla marcia repubblicana di Parigi che va in mondovisione, l’area dell’Islam sunnita s’interroga su se stessa. Personalità religiose, intellettuali e politologi musulmani discutono sui pericoli e danni del fondamentalismo. Avevano iniziato a farlo già un anno fa in Kuwait a un summit dei Paesi arabi che si ripeterà a marzo. Il discorso è proseguito nella prestigiosa Bibliotheca Alexandrina dell’omonima città egiziana. Un confronto programmato che i tragici eventi parigini riportano all’ordine del giorno come un nodo improcrastinabile con cui l’islamismo mondiale (religioso, politico, culturale, sociale) deve misurarsi. Sia per non perdere la partita contro l’esplicito disegno del “Califfato” qaedista o al-baghdadiano, sia per non trovarsi oggetto di attacchi sempre più taglienti dei pensatori occidentali sostenitori della chiusura nel proprio mondo fino a giustificare le scelte più xenofobe che da Le Pen giungono sino al Bachmann di Pegida. “Affrontare l’estremismo religioso è uno dei maggiori problemi che il nostro ambiente ha davanti. L’estremismo è stato radicato a lungo nelle nostre società” ha esordito il segretario della Lega Araba Nabil Al-Araby avviando l’assise.

Ed è bene che l’altro Islam rifletta di come gli scenari siano mutati da quanto appariva solo un paio d’anni or sono. Visto che la frantumazione di Siria e Iraq fa oggi parlare di Daesh, quel territorio dove la stabilizzazione euro-statunitense è intervenuta per destabilizzare, direttamente con l’Iraqi freedom o indirettamente con disinteresse e compiacenza verso il jihadismo armato. “Contrastare terrorismo ed estremismo richiede una strategia che deve includere un rinnovamento religioso e un ritorno a valori etici delle società in cui viviamo”. Nel mirino la nazione saudita, potenza regionale (almeno nelle sue intenzioni), oggettiva forza economica dalle solide alleanze militari con gli Usa, primus inter pares nella lobby delle petromonarchie. Afferma Khaled Al-Malek editore del settimanale saudita Al-Jazirah: “Il nostro Paese ha un doppio approccio verso il terrorismo. C’è una componente intellettuale che diffonde fra i giovani la consapevolezza d’una verità islamica incentrata sulla fede, così da evitarne fughe verso organizzazioni estremiste, e chi tiene la porta aperta ai responsabili di errori desiderosi di tornare in Arabia Saudita. Da qui scaturiscono campagne poliziesche che minacciano la sicurezza nazionale”.

L’analista Amr Al-Choubaky, che lavora per il Centro Studi di Politica e Strategia Al-Ahram, dice che “è falso sostenere che in Egitto il terrorismo stia ampliando il proprio seguito perché l’esercito è prossimo alle autorità statali. I gruppi armati hanno come obiettivo indifferentemente il personale civile e militare. Essi divorano, uccidono attaccano innocenti. Quando questi nuclei crescono vuol dire che esiste un ambiente sociale, culturale, economico che conduce a un tale sviluppo. Dobbiamo non solo mostrare come quell’ideologia s’oppone alla vera  fede religiosa, ma anche rivolgere argomenti politici che contrastino il magnetismo fanatico sui giovani”. Non un imam bensì una voce fuori dal coro musulmano, Gregorio III, patriarca della Chiesa cattolica greca presente al forum, ricorda il tema del conflitto arabo-israeliano quale alimentatore costante di azioni rivolte alla violenza, anche perché comporta l’allontanamento forzato da un Medio Oriente lacerato e insanguinato di fedeli cristiani.

Negli interventi c’è la consapevolezza che la stessa interpretazione del concetto di jihad, l’erronea concezione sul ruolo della donna siano temi importantissimi da chiarire nei gangli più profondi di comunità che in molti casi vivono contraddizioni con l’istruzione, non solo religiosa ma  primaria. E dove questa giunge, la manipolazione che si può fare dello stesso testo coranico, a opera di predicatori e madrase, rappresenta un’ulteriore criticità a favore dei sostenitori d’una guerra di civiltà a senso unico.

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