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venerdì 12 dicembre 2014

Uomini: John e Samir

Uno è Samir Naji, yemenita. Accusato d’aver servito Osama Bin Laden e per questo rinchiuso per anni nel super lager di Guantanamo Bay. E lì “trattato” sostiene l’altro, lo statunitense John Brennan direttore della Cia. Vite indirettamente incrociate nell’angolo nero dell’isola cubana dove certe pratiche sono diventate scuola di rinnovata coercizione. Naji racconta i “trattamenti”: decine di particolari che sanno di sevizie psico-fisiche. Ricorda il silenzio e il gelo della cella, l’assillo d’essere solo, nonostante le decine di prigionieri messi in fila in attesa degli interrogatori. Che durano mesi, con le paure crescenti, per quello che può accadere un giorno via l’altro, perché è in mano a implacabili inquisitori, in balìa del loro programma e delle variazioni del caso. Privato d’ogni contatto, all’oscuro della vita di amici e familiari, tutti inesorabilmente lontani. Ogni apertura di cella introduce angosce rinnovate, simili a quanto già vissuto e potenzialmente peggiore. Naji rammenta che nei primi mesi di domande seriali pativa la mancanza di sonno, continuamente interrotto e disturbato, la testa fluttuava fra decine di quesiti e foto affisse al muro, circostanze e volti da dover riconoscere. Anche se non era colpevole di nulla, non era creduto.
Confusione mentale e grida. Di fronte all’impossibilità di riconoscere quel che gli veniva richiesto, giungeva “l’uomo dell’angolo” con una siringa sempre pronto a iniettare un liquido stordente nell’avambraccio. Il rifiuto del pasto in segno di protesta provocava due soluzioni: la nutrizione forzata via endovena o rettale e la forzosa umiliazione d’essere trattato come un maiale, col cibo gettato in terra e l’obbligo di assumerlo in quel modo. In un crescendo d’umiliazione gli impedivano l’uso del gabinetto, minacciando lo stupro in caso di bisogni corporali finiti nei pantaloni. E ancora: i trascinamenti con una catena sin dentro pozzanghere fangose, la nudità forzata e la rasatura a dispetto del credo religioso, la costrizione di eseguire danze e versi di animali. Sempre sotto minaccia e rischiando il congelamento. Sino al quasi collasso e al ricovero forzato in infermeria. Il sistema Abu Ghraib ripetuto e diffuso in decine di carceri speciali e di luoghi di detenzione illegale sparsi per il mondo. Quattro anni di questa vita per mister Naji, cui andò bene: i carcerieri riconobbero la sua estraneità a ogni addebito e venne rilasciato.
Mister Brennan sottolinea come tutto sia stato funzionale al progetto di sicurezza attuato dalla Central Intelligence Agency per combattere il terrorismo internazionale. Ragioni di Stato. E che ragioni, e che Stato. Ammette che talune azioni degli ufficiali che presiedevano interrogatori e detenzione dei sospettati non fossero autorizzate, insomma introducessero una vena creativa dettata dall’emergenza. Ma niente a che vedere con metodi illegali. Al limite iniziali impreparazione e inadeguatezza a sostenere queste “tattiche di lavoro”. Tutto ciò è stato esaminato da commissioni e ispettori anche interni all’agenzia investigativa, così da consentire al Senato di raccogliere dati e rendere trasparente ogni comportamento. Sulla forma e la sostanza delle azioni i pareri divergono non solo fra inquisitore e vittima, ma nell’istituzione americana che ridiscute certezze d’un tempo. Contrapponendo l’accusa della senatrice californiana Feinstein, che molto ha voluto il rapporto sulla Cia, alle teorie scagionatrici di questo direttore che ha attraversato, pur con ruoli diversi, tre amministrazioni politiche (Clinton, W. Bush, Obama) cambiando parere sui metodi, ma non rinnegandoli. Ora, nel più perfetto stile statunitense, sostiene tutto e il suo contrario. Ammette l’uso, forse eccessivo di alcune costrizioni, che mai e poi mai deve definirsi abuso. 

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