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mercoledì 12 novembre 2014

Soheila, il passero di Kabul

Quella di Soheila è storia dolce e drammaticamente vera. La narra il documentario “To kill a sparrow” del Center Investigative Reporting che ha avvicinato la ragazza dopo la sua liberazione da due prigionìe: dal carcere di Kabul dov’era rinchiusa e dal marito da cui scappava. In realtà la fuga maggiore Soheila la compie - come tante donne afghane - dai tentacoli della tradizione e d’una faziosa e distorta interpretazione della religione islamica voluta dalle figure maschili di famiglia e della società. Nell’ascoltare le loro giustificazioni ci si sente schiacciati da un pensiero granitico che comprime gli stessi aguzzini delle donne. Oppressori a loro volta oppressi da consuetudini, tribalismo, ignoranza, conformismo,  opportunismo maschili e maschilisti. Soheila finisce nel vortice infernale della persecuzione giudiziaria dopo aver lasciato il consorte cui era stata promessa da quando aveva cinque anni. Promessa paterna, diffusissima in Oriente. Quindi inseguendo l’incontro con l’uomo di cui s’innamora. Gli dice: “Portami via di qui oppure vendimi; portami via o m’uccido”.
Quell’uomo è Niaz, un suo cugino, che dovrebbe rispettare famiglia e tradizioni, ma non ha altri orecchi che per il richiamo del cuore. Conduce Soheila nella capitale dove qualcuno gli suggerisce di sposarla. “Perché non lo fai, sei scapolo?”, lei però non è libera, l’unione è illegale così i due scelgono di vivere nascosti. Il padre della ragazza, vecchio quasi quanto il marito abbandonato, si rivolge alla polizia denunciando la figlia. La sorte o una soffiata conducono gli agenti nella zona dove Soheila vive e una volta scoperta finisce in prigione. Niaz non si dà pace, va dalla polizia anche lui. Racconta: “Mi sembrava impossibile stare fuori mentre lei era reclusa, volevo regolarizzare il nostro amore. Lei avrebbe divorziato”. Amore, divorzio: illusioni nell’orizzonte del fondamentalismo tribale. Ancora Niaz: “Protestavo perché tutto mi sembrava illecito, così hanno arrestato anche me. Avrebbero dovuto imprigionare suo padre che l’ha venduta come fosse una mercanzia. Non c’è legge né Corano che ammettono questo comportamento”. Non la pensa così il padre avvinto alla tradizione più conservatrice.

La nostra religione non fa fare a una figlia ciò che vuole, secondo la legge islamica una ragazza deve sposarsi con colui che il padre ha scelto. La donna gli appartiene e non ha diritto di rifiutarsi”. Perciò Soheila sta in un carcere femminile, Niaz in uno maschile. Dopo sedici mesi di detenzione lei viene liberata per un’amnistia che il presidente Karzai concede a chi non ha commesso crimini gravi. Il suo innamorato, però, rimane recluso. La donna torna nella casa d’origine parlando di divorzio e si ritrova inquisita: padre, fratello, cognato, zio tutti i parenti maschi l’accusano, l’insultano, la picchiano. E’ il disonore della famiglia, per causa sua sorgeranno faide. Il padre le fa una proposta: “Ti riammetto in casa solo se ucciderai tuo figlio”. Soheila non risponde, fa capire che ci penserà. La notte stessa fugge ancora. Trova protezione in una casa-rifugio, medita di lasciare l’Afghanistan, sebbene Niaz sia prigioniero… I parenti non si danno per vinti. “Noi vogliamo convincerla a tornare e seguire i nostri consigli, se non lo farà la uccidiamo. Non saremo dispiaciuti, sarà come sparare a un passero”.  

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