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martedì 30 settembre 2014

Obama: “L’America è la guida”


Un discorrere veloce, immediato, amichevole. Il presidente Obama riceve l’assist dall’anchorman della Cbs Steve Kroft per un’intervista sulle sue scelte che lo riposizionano al centro della vetrina internazionale e gli riequilibrano l’elezione di medio termine. Faccenda tutta yankee quest’ultima, ma non secondaria per la Casa Bianca. Risollevare l’immagine può servire all’autostima d’un presidente che, dopo sei anni di potere, parecchi analisti hanno definitivamente bocciato. Velleità ed evanescenza i suoi limiti maggiori, sommati a uno scarsamente compreso operativismo, rimasto sospeso a metà e, in politica estera, rivelatosi spesso sbagliato. Eppure nel rimpallare gli argomenti serviti, mai insidiosamente, dall’intervistatore, Obama appare reattivo e sfodera tematiche patrie cui nessuno cittadino-spettatore riesce a sfuggire. Scandisce temi, già toccati alla recente Assemblea Generale Onu, che paiono inattaccabili. Gli States non hanno lanciato una guerra, guidano una grande coalizione, con tanti partner arabi militarmente attivi.  Un’alleanza che deve tutelare il pianeta da assalti terroristici, garantire gli affari economici iracheni e, in un prossimo futuro, anche siriani.

Il piano di antiterrorismo, peraltro, non può essere considerato un’azione di guerra. Contro l’Isis si prosegue la battaglia già iniziata e, secondo il presidente, parzialmente vinta contro Al Qaeda. Invece non c’è alcuno scontro con l’Islam che è religione e cultura pacifica per un miliardo di musulmani, mentre le frange fondamentaliste, i jihadisti distorcono il credo e lo stravolgono contro l’intera collettività. Sono proprio gli islamici a doversi liberare da un simile cancro sostenendo che certe follìe omicide non li rappresentano. Quando torna indietro nel tempo alle scelte del predecessore Bush jr, dice solo una parte di verità riguardo al settarismo di Al Maliki e ai giochi di potere dello sciismo iracheno a danno della locale comunità sunnita. Tutto ciò è accaduto, ma l’Iraq non era stato lasciato nelle “condizioni positive” dichiarate da Obama. Lui riconosce come il problema di quello stato non sia tecnico bensì politico, e che in queste condizioni un aiuto verrebbe da una tolleranza sociale, politica e religiosa che i vari Islam a confronto e a contrasto non riescono a stabilire. Tale equilibrio, però, non compete a nessuno degli attori presenti.

Ovviamente il presidente tralascia il ruolo suo e dei predecessori, la funzione destabilizzante intrapresa dagli Usa nel piccolo e grande Medio Oriente dall’inizio del Millennio; insomma le responsabilità additate nel suo intervento al Palazzo di Vetro dall’omologo iraniano Rohani. La lettura di quella parte del mondo e del globo intero risulta differente e opposta. “L’America è la guida. L’America è indispensabile. Il nostro esercito è il migliore della storia mondiale” sono le taumaturgiche frasi a effetto con cui Obama prova a bucare il video. Profferite con un tono pacato ma deciso provocano un sussulto anche nel cuore del repubblicano a lui più ostile, svelando da sole l’intento propagandistico della parata televisiva. Rincara la dose quando dice che l’Islam s’incarta “nel contrasto fra sciismo e sunnismo, dimenticando i reali bisogni della sua gente: fame, analfabetismo, disoccupazione”, mentre l’Islam politico rilancia ideologismi e faziosità che sollevano trambusti gli Stati Uniti vengono ricercati da tutti – alleati e non – quale nazione salvifica. “Chiamano noi, non Pechino, non Mosca per crisi politiche, per tifoni nelle Filippine o per il terremoto haitiano”.

Eppure al momento dell’apoteosi il presidente regala un singulto autocritico: nei mesi della crisi siriana la Cia e le menti del Pentagono non hanno compreso più d’una sfida. Quelle di Al Nousra, le nuove galassie tardo qaediste come il gruppo Khorasan e l’indiretto aiuto al ribellismo jihadista che combatteva, e combatte, Asad e ora nell’Isis ha raggiunto notevoli livelli di aggregazione. Obama sostiene di “riconoscere le contraddizioni” e al momento avalla i raid aerei, che comunque non risolvono il controllo del territorio. Se si riparte da dove si è lasciato, o si vorrebbe lasciare, un altro Afghanistan è alle porte e già qualche generale rilancia il bisogno di utilizzare i marines. In attesa di verifiche si sta in guerra, potendo non definirla tale, che rappresenta un’interessante opzione per superare lo scoglio di novembre e chiudere il mandato. Se a favore del suo partito o dei repubblicani si vedrà, ma con minime differenze fra i candidati e la base. Negli Usa la mobilitazione bellica mette d’accordo tutti. Fra due anni vincerà il candidato migliore, oppure il peggiore. Tanto sotto lo stellone americano quasi nessuno se ne accorge.

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