Un discorrere veloce, immediato, amichevole. Il
presidente Obama riceve l’assist dall’anchorman della Cbs Steve Kroft per un’intervista
sulle sue scelte che lo riposizionano al centro della vetrina internazionale e
gli riequilibrano l’elezione di medio termine. Faccenda tutta yankee
quest’ultima, ma non secondaria per la Casa Bianca. Risollevare l’immagine può
servire all’autostima d’un presidente che, dopo sei anni di potere, parecchi
analisti hanno definitivamente bocciato. Velleità ed evanescenza i suoi limiti
maggiori, sommati a uno scarsamente compreso operativismo, rimasto sospeso a
metà e, in politica estera, rivelatosi spesso sbagliato. Eppure nel rimpallare
gli argomenti serviti, mai insidiosamente, dall’intervistatore, Obama appare
reattivo e sfodera tematiche patrie cui nessuno cittadino-spettatore riesce a
sfuggire. Scandisce temi, già toccati alla recente Assemblea Generale Onu, che
paiono inattaccabili. Gli States non hanno lanciato una guerra, guidano una
grande coalizione, con tanti partner arabi militarmente attivi. Un’alleanza che deve tutelare il pianeta da
assalti terroristici, garantire gli affari economici iracheni e, in un prossimo
futuro, anche siriani.
Il piano di antiterrorismo, peraltro, non può
essere considerato un’azione di guerra. Contro l’Isis si prosegue la battaglia
già iniziata e, secondo il presidente, parzialmente vinta contro Al Qaeda.
Invece non c’è alcuno scontro con l’Islam che è religione e cultura pacifica
per un miliardo di musulmani, mentre le frange fondamentaliste, i jihadisti
distorcono il credo e lo stravolgono contro l’intera collettività. Sono proprio
gli islamici a doversi liberare da un simile cancro sostenendo che certe follìe
omicide non li rappresentano. Quando torna indietro nel tempo alle scelte del
predecessore Bush jr, dice solo una parte di verità riguardo al settarismo di
Al Maliki e ai giochi di potere dello sciismo iracheno a danno della locale
comunità sunnita. Tutto ciò è accaduto, ma l’Iraq non era stato lasciato nelle
“condizioni positive” dichiarate da
Obama. Lui riconosce come il problema di quello stato non sia tecnico bensì
politico, e che in queste condizioni un aiuto verrebbe da una tolleranza
sociale, politica e religiosa che i vari Islam a confronto e a contrasto non
riescono a stabilire. Tale equilibrio, però, non compete a nessuno degli attori
presenti.
Ovviamente il presidente tralascia il ruolo suo
e dei predecessori, la funzione destabilizzante intrapresa dagli Usa nel
piccolo e grande Medio Oriente dall’inizio del Millennio; insomma le
responsabilità additate nel suo intervento al Palazzo di Vetro dall’omologo
iraniano Rohani. La lettura di quella parte del mondo e del globo intero
risulta differente e opposta. “L’America
è la guida. L’America è indispensabile. Il nostro esercito è il migliore della
storia mondiale” sono le taumaturgiche frasi a effetto con cui Obama prova
a bucare il video. Profferite con un tono pacato ma deciso provocano un
sussulto anche nel cuore del repubblicano a lui più ostile, svelando da sole
l’intento propagandistico della parata televisiva. Rincara la dose quando dice
che l’Islam s’incarta “nel contrasto fra
sciismo e sunnismo, dimenticando i reali bisogni della sua gente: fame,
analfabetismo, disoccupazione”, mentre l’Islam politico rilancia
ideologismi e faziosità che sollevano trambusti gli Stati Uniti vengono
ricercati da tutti – alleati e non – quale nazione salvifica. “Chiamano noi, non Pechino, non Mosca per
crisi politiche, per tifoni nelle Filippine o per il terremoto haitiano”.
Eppure al momento dell’apoteosi il presidente
regala un singulto autocritico: nei mesi della crisi siriana la Cia e le menti
del Pentagono non hanno compreso più d’una sfida. Quelle di Al Nousra, le nuove
galassie tardo qaediste come il gruppo Khorasan e l’indiretto aiuto al
ribellismo jihadista che combatteva, e combatte, Asad e ora nell’Isis ha
raggiunto notevoli livelli di aggregazione. Obama sostiene di “riconoscere le contraddizioni” e al
momento avalla i raid aerei, che comunque non risolvono il controllo del
territorio. Se si riparte da dove si è lasciato, o si vorrebbe lasciare, un
altro Afghanistan è alle porte e già qualche generale rilancia il bisogno di
utilizzare i marines. In attesa di verifiche si sta in guerra, potendo non
definirla tale, che rappresenta un’interessante opzione per superare lo scoglio
di novembre e chiudere il mandato. Se a favore del suo partito o dei
repubblicani si vedrà, ma con minime differenze fra i candidati e la base.
Negli Usa la mobilitazione bellica mette d’accordo tutti. Fra due anni vincerà
il candidato migliore, oppure il peggiore. Tanto sotto lo stellone americano quasi
nessuno se ne accorge.