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venerdì 8 agosto 2014

Erdoğan, marcia turca per il sultano


Chi non ama Recep Tayyip Erdoğan ricorda come neppure per lo sprint delle presidenziali a elezione diretta di domenica (se nessun candidato supererà la soglia del 50% dei consensi il secondo round ci sarà il 24 agosto) il sultano abbia rinunciato alla vetrina che l’incarico di premier gli riserva. Figurarsi se uno che vuol diventare superpresidente d’una Turchia presidenziale poteva limitare l’overdose espositiva in un’accesa partita di potere. Ha dunque dato fondo al suo stile strabordante, prendendosi ogni spazio radiotelevisivo possibile, con la compiacenza dei media filo governativi poco accessibili alle altre voci. Gli avversari si chiamano: Ekmeleddin İhsanoğlu, figura indipendente del mondo culturale islamico, sostenuto dal kemalismo repubblicano e ultranazionalista, più 14 forze politiche non presenti in Parlamento. Selahattin Demirtaş, co-leader del Partito Democratico del Popolo, un outsider cui già al primo turno viene pronosticato un seguito più alto del solo elettorato kurdo e che potrà avere un ruolo qualora fosse necessario il ballottaggio. Sia da aperto sfidante del favoritissimo leader dell’Akp, sia quale suo possibile puntello se l’ex sindaco dell’amata-odiata Istanbul dovesse avere un testa a testa con l’esponente del compromesso fra laicismo e tradizione musulmana.

In quest’elezione cui guarda una grossa fetta di Medioriente, quello malato e stremato dai nuovi scenari di guerra, e quello che voleva bypassarli con la formula dell’Islam moderato si confrontano diverse questioni. Alcune hanno il volto dei tre concorrenti e sono chiarissime: l’Erdoğan uomo-Stato che prova a mutuare dal passato patriarcale di Atatürk una gestione diversificata di comando, portatrice di tradizione e confessione, modernismo e affarismo, più una parvenza d’apertura a esigenze diverse che di recente è entrata terribilmente in contrasto con le nuove generazioni urbane, poco disposte a dire sissignore all’uomo solo al comando e mitizzarlo. Lo scontro sul Gezi Park è stato significativo ma insufficiente a decretare una crisi di regime. Il black out che il premier pensava di aggirare col doppiogioco d’una repressione paternalistica s’è dimostrato poco gestibile nel dissenso di piazza, però ha retto nella verifica dell’urna delle amministrative di fine marzo, più per assenza di alternative che per un convinto rilancio. Insomma il blocco sociale interclassista, forza primaria erdoğaniana, regge, sebbene l’infatuazione popolare non sia più vivida come un decennio fa. E il capo dell’esecutivo è  accreditato d’un 55% che aggira i veleni del gülenismo portatore di voti a İhsanoğlu.

L’anziano intellettuale, legato un tempo all’Akp ed ex segretario della Cooperazione Islamica, non riesce a scaldare il cuore di un’Anatolia timorosa che qualsiasi cambiamento al vertice potrebbe trasformarsi in regresso, di condizioni socio-esistenziali prima che di qualsiasi altra cosa. Scarso appeal hanno mostrato le sue lamentele sull’assenza di finanziamenti statali per lui e il politico kurdo, mentre il premier godeva di cospicue risorse istituzionali. Qualche dubbio più ampio l’introduce il timore di possibili manomissioni di schede, che avevano creato contrasti fra maggioranza e opposizione nel corso dell’ultima consultazione anche in diversi seggi della capitale. Così la coppia sfidante sembra avere poche chances, per quanto il problema dell’autoritarismo, un putinismo in salsa turca condito d’odio verso la libera informazione e la conseguente repressione di giornalisti, blogger e social media, trovi un seguito ma di minoranza, alla faccia degli appelli dell’Osce. Come minoritari sono parsi i richiami ai diritti di libertà d’espressione e di critica calpestati a suon di galera e tortura, poi all’emarginazione culturale ed etnica dei ceppi razziali diversi dai turchi sollevati nei propri comizi da un Demirtaş comunque ottimista sul superamento di divisioni e sofferenze passate. Gli osservatori prestano attenzione anche al voto dei tre milioni di turchi sparsi nel mondo - 1.4 milioni nella sola Germania - affermando che inciderà sulle percentuali. Con essi gli elettori raggiungono quota 57 milioni anziché 54. 

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