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lunedì 27 gennaio 2014

L’incerto cammino egiziano fra paura e paranoia


La paura della galera e di quel che vi accade dentro vince i cittadini d’Egitto, prima e più delle anto-bomba simboliche o pilotate. Le esplosioni mortali nell’anniversario d’una Rivoluzione scippata, calpestata, trasformata in regime militar-poliziesco assegnano al nuovo raìs il primato di presidente in anticipo sull’annuncio dell’uomo dell’interim Adly Mansour. Questi ieri ha dichiarato ufficialmente che entro tre mesi il Paese avrà un nuovo Capo di Stato, inutile aggiungere che si chiamerà Al Sisi, il salvapatria. Le code alle urne saranno una formalità burocratica dal buon valore mediatico. Se, come nel referendum costituzionale voterà molto meno della metà degli elettori, poco male: la facciata democratica sarà salva. Si segue questa via per il popolo, per il suo riscatto, per non cadere nella mani di islamisti e rivoluzionari. Accanto a chi vi aderisce per scelta ideale e chi perché segue l’onda degli eventi imposta con la forza finisce anche una massa - grigia o colorata poco importa - che si autolimita per il terrore. D’essere accusato di terrorismo o di sostegno anche solo ideale a esso.

Il terrore d’essere marginalizzati, non tanto per via dov’è impossibile riunirsi o esporre manifesti, ma ovunque ci si trovi fosse pure la moschea, il mercato, l’awha. E direttamente perseguitati, come accade a giornalisti noti o giovani freelance finiti nelle mani dei mukhabarat. Anche fotografare in strada, non chi combatte a suon di pietre, diventa quasi impossibile. I testimoni e i potenziali documenti - filmati, scritti o racchiusi in uno scatto - risultano ingombranti e insopportabili a chi ripropone una nazione dal pensiero unico e dalle facce pronte solo a osannare e obbedire. E a chinare la testa. L’esatto punto di partenza di quello che è stato il vento di Primavera, un passo indietro lungo trentasei mesi tornato alla notte di piazza Tahrir che fece tremare e disarcionò Mubarak, l’intoccabile. La sfinge amata dal clan e dai compari di affari e torture, dal protettore statunitense e dai governanti d’Israele, dalla Lega Araba e dalla dinastia saudita. Quell’irrefrenabile voglia d’un pezzo d’Egitto di scrollarsi di dosso l’angoscia e riprendersi dignitosamente la vita pare azzerata.

Prevale la naturale autodifesa del silenzio che preserva dalla delazione, tornata ampiamente di moda. Fra quello che realmente accade: cellulari e linee internet sotto controllo, seppure certe apparenze vengano salvate (la Fratellanza è fuorilegge, ma il loro sito è tuttora online come alcuni website oppositori), pestaggi in strada di persone riconosciute o sospettate d’aver partecipato a cortei o sit-in antimilitari, e l’escalation che qualcuno teme in fatto di sequestri illegali e conseguenti sparizioni a opera degli apparati di sicurezza corre il filo sottile che separa il timore dalla paranoia. Nell’uno e nell’altro caso slegati da contorni plumbei che pure originano comportamenti catacombali e di diffusa metamorfosi anche fra soggetti non esposti da militanza o ruoli professionali e sociali. Il tassista, la guida turistica, il mercante di agrumi, il ricercatore universitario si negano al colloquio sul presente e futuro prossimo. Sperano di continuare a sopravvivere, se Dio vorrà, senza far trapelare emozioni. A meno che non siano feloul, la massa egiziana ora in festa che osanna il nuovo generale e pensa di riabilitare il vecchio raìs, mai morto. 

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