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lunedì 13 gennaio 2014

Karzai, l’eminenza grigia delle alleanze dei boss


Chi osserva le vicende afghane constata che Hamid Karzai, da gran cerimoniere della politica interna, sta cercando di guadagnar tempo sulle elezioni presidenziali. Non minandone la scadenza, mossa non riuscita neppure alla grande offensiva talebana del 2009 che, col terrore diffuso fra l’elettorato e gli attacchi ai seggi, sminuì sensibilmente la partecipazione al voto. In elezioni comunque inficiate da brogli, voluti dallo stesso Karzai e dai suoi mentori statunitensi. Ora il presidente uscente, che non può più essere rieletto ma si propone come uno dei Signori delle trattative del futuro afghano, ha messo in atto due piani. Il primo, credibile più per gli interessi di famiglia che per quelli della riedizione d’un governo  filoccidentale fotocopia, vede in scena l’ennesimo fratello. Dopo la morte del trafficante d’oppio Ahmed Wali è la volta di Qayum. Chi conosce quest’ultimo non lo ritiene capace sia di doti diplomatiche per l’alta carica, e forse neppure dell’opera mercantile avviata dal caro estinto. Il piano che più concretamente Karzai major sta muovendo è quello degli accordi con forze pro-statunitensi della mai morta Alleanza del Nord e di partiti amici (Jamiat-e Islami) da sancire ben prima della scadenza elettorale (5 aprile).

Karzai e le nuove alleanze - L’Alleanza del Nord che fu di Rabbani e Massul, caduti rispettivamente nel settembre 2011 e alla vigilia dell’attacco alle Twin Towers, è un evergreen della politica afghana. Annovera anche i figli di papà, Ahmad Massud e Salahuddin Rabbani, che come accade agli epigoni famosi difficilmente possono reggere il confronto con tanto ingombranti genitori. Chi muove le fila del partito Jamiat-e Islami, e da quel passato proviene, sono altri signori della guerra e della politica come il mai domo tajiko Ismail Khan e il vicepresidente uscente Muhammad Fahim. Quest’ultimo a differenza di Abdullah Abdullah, finito anch’egli all’inizio del terzo Millennio nel potente trust politico dell’Alleanza, non si contrappose alle manovre di Karzai, uomo di Washington e in contemporanea battitore libero nell’amministrazione interna. Nel 2008 Karzai, dopo aver ricevuto il sostegno del neo insediato Obama che rafforzava la presenza militare contro l’offensiva talebana dell’anno precedente, creò un suo fronte interno per la rielezione. Si fidava degli statunitensi ma non del tutto. Così avvicinò i duri comandanti tajiki Fahim (cui offrì la vicepresidenza) e Khan, incontrastato boss di Herat, con cui le truppe Isaf, anche italiane, stabilivano contatti e accordi che mai ammetteranno per non avere un altro avversario in una zona infestata dalla controffensiva della rete di Haqqani.

Vecchi rancori, nuovi abbracci - Sappiamo che Abdullah perse al primo turno alle presidenziali 2009, ma riuscì a far accettare agli osservatori occidentali l’assoluta inattendibilità che dava il 51% dei voti a Karzai. Poi, a sorpresa, non si presentò al secondo turno di consultazioni oppresse dai brogli e così commentate da alcuni deputati: “Karzai è stato nominato presidente senza un’elezione vera e propria. La sua posizione non è né legale né legittima”. Era, però, utile al disegno di Obama, peraltro in gravissima difficoltà col suo vertice militare incarnato dalle scelte del generale Petraeus. Si è proseguito per cinque anni, ma già dal 2010 la Cia, e lo stesso Karzai, avviavano trattative coi neo talebani più pragmatici, non tutti prossimi al mullah Omar. Ora bisogna vedere quanto dei disegni del manovratore Karzai convergeranno con gli intenti dei citati Fahim e Khan, appoggiando magari la candidatura del primo che potrebbe assumere i contorni di “continuità presidenziale”, e quanto seguito potranno avere sull’elettorato pashtun (oltre il 40% degli afghani) cui guardano anche altri controllori di etnìe, territori e voti: Sayyaf ed Hekmatyar. Quest’ultimi ambiscono entrambi alla presidenza e sono, per ora, contrapposti anche in virtù di trascorse diatribe e personali velleità egemoniche.

La sfida economica - Ciononostante le alleanze fra vecchi padrini dove rientrano a pieno l’uzbeko Dostum, sempre vicino ai capi del partito Jamiat che gode della martellante propaganda di Noor Tv, e l’hazara Mohaqqeq costituiscono il puzzle manovrato per via diretta e indiretta nell’Afghanistan che si prepara al futuro. Gli Stati Uniti sul piano militare non vogliono rinunciare alla profondità strategica di quest’avamposto orientale. Sono occupati (e tutti i militari Isaf con loro) a riconvertire le basi per lo scontro di terra, di cui temono un’involuzione irachena, al sostegno dell’uso di droni verso chicchessia, avversari e amici contradditori come pakistani e indiani. Resta soprattutto in piedi la sfida economica fra i grandi del mondo (Usa, Cina, India) per trarre vantaggio dalle risorse del sottosuolo, in cui rientra la stessa Russia che, pur ben attrezzata rispetto alle concorrenti dirette vuole monitorare, e controllare, l’ampia e allungata area che dal Mar Nero attraverso il mar Caspio e il ribollente Caucaso arriva sino a quell’Afghanistan. Una regione che prima della Cecenia, costituì l’umiliante fantasma per quella che fu l’Armata Rossa, certamente d’epoca brezneviana e gorbacioviana.

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