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martedì 29 ottobre 2013

Egitto, l’ansia dei senza futuro


L’Egitto che si dà ruoli normativi con l’ennesimo defatigante iter di riscrittura della Carta Costituzionale e l’Egitto che solleva la protesta con le “quattro dita” del Fronte della legalità, devono entrambi fare i conti con vari traumi. Quello della rivoluzione incompiuta, tradita, scippata o rilanciata è il più leggero. Al dolore delle vittime, ai troppi bisogni primari insoddisfatti s’aggiunge un panorama esaminato non solo dalla libera informazione che resta, ma da talune indagini mediche interne e internazionali. L’ultimo è uno studio delle Nazioni Unite. Si monitorano i riflessi psichici di vari strati della popolazione davanti alla profonda instabilità socio-politica degli ultimi tre anni. Gli egiziani risultano depressi non solo economicamente ma umoralmente, occupando la 138° posizione su 156 popolazioni mondiali esaminate nell’indagine. Egualmente i periodici cicli di violenza stanno radicando indelebili effetti sulla salute mentale delle persone. Diversi psichiatri raccontano di un profondo stato d’inquietudine diffuso anche nell’età più spensierata che è quella infantile. I bambini risultano ansiosi per la loro sicurezza, e la paura generalizzata provocata dalla morte in piazza, dall’inagibilità di centri urbani e metropolitani occupati militarmente attanaglia anche tante vite adulte.
Paradossalmente questi timori giungono pure da coloro che sostengono i piani di Al-Sisi, perché “uscire di casa, girare per le strade risulta pericoloso, visto che non si sa cosa potrà accadere” hanno dichiarato cittadini cairoti ai microfoni di Al Jazeera che ha dedicato un servizio al fenomeno. Del resto l’uso parapolitico e paramilitare di teppisti per favorire ulteriori giri di vite repressiva è una tattica attuata dalle Forze Armate già con Mubarak e poi durante la Giunta Tantawi. In più l’aggravarsi delle difficoltà economiche di tutta la popolazione diffonde la pratica dei furti grandi e piccoli negli strati più marginali. Parecchie donne evitano l’uscita di casa anche in pieno giorno per paura d’essere rapinate durante gli acquisti e cader vittime di molestie e attacchi sessuali compiuti da gang di adolescenti. Un fenomeno radicato ed endemico, già registrato due anni or sono durante le stesse manifestazioni in piazza Tahrir e denunciato da attiviste “rapite”, denudate, molestate e violentate con la tristemente nota tecnica dei “cerchi concentrici”. I traumi irrisolti si ripresentano in forme patologiche più gravi perché aggrediscono le certezze e l’autostima. Rispetto ai mesi della Primavera 2011 che segnarono la caduta di Mubarak, l’assenza di alternative sta azzerando la volontà reattiva della gente comune. I sogni presto tramontati, gli pseudo-cambiamenti che non mutano nulla producono scoramento.
Era accaduto con la presidenza Mursi, sta succedendo con la gestione della “salvezza” voluta dell’omonimo Fronte che si è messo nelle mani degli “eroici” militari. Così nonostante lo scampato pericolo da un presunto governo della Shari’a le testimonianze di vivere una realtà oscura e priva di prospettive, un presente addirittura peggiore di quello dell’era Mubarak proviene anche da una cospicua parte di coloro che nel giugno scorso sfilavano coi ‘Tamarod’ e che hanno applaudito l’allontanamento forzato del presidente della Fratellanza e il suo arresto. Gli psicologi al lavoro parlano di cittadini ossessionati dalla caduta di aspettative che s’appoggiano sul fronte secolarista oppure su quello islamico perché non vedono né si danno alternative. Però fra i primi che cercano nel presente un passato che sembra impossibile da riprodurre (almeno nei coriacei contorni dei presidenti-raìs) e i secondi che continuano a piangere martiri e cercare conferme nella propria storia politica lunga 85 anni, chi appare soddisfatto e intoccabile è l’apparato statale. Generali, soldati, poliziotti e agenti d’ogni genere, magistrati e burocrati d’apparato, gli uomini d’ordine che non hanno perso spazio e terreno, perpetuano radicate lobbies, controllano le vite degli altri e ne decidono un futuro autodeterminato, patologico o represso.  

martedì 15 ottobre 2013

Egitto, un presente economico uguale al passato


Se stenta il Cairo figurarsi l’Egitto profondo. Le voci quotidiane dalle strade della capitale continuano a dolersi d’una depressione economica che, al di là delle scelte di Mursi o di Al Sisi, tiene Pil e salari ancoràti in basso. Crescono solo disoccupazione e inflazione con un ulteriore attacco ai beni di consumo primari i cui aumenti avevano scatenato le rivolte dello scorso inverno a Port Said e nel governatorato del Delta. Le ultime settimane rivelano come la pur carente direzione dell’establishment islamico sia coivolta parzialmente con le difficoltà economiche diffuse. La piaga della fame viene riscontrata da quei media egiziani che non chiudono gli occhi e li dirigono non lontano da quartieri centrali come Ben-Al Kanayes, verso la stazione Ramses. La gente intervistata ricorda che il nome della zona si rifà alle fave, proteico legume e piatto centrale della cucina cairota, il cui costo di una lira è fra i pochi a non aver subìto ritocchi forse proprio perché innescherebbero rivolte in una cospicua fetta dei 25 milioni che affollano la capitale.
Le lamentale sono diffuse sebbene attualmente due temi della propaganda militare calamitano l’attenzione generale: l’insicurezza dovuta al terrorismo e la rinnovata esaltazione del ruolo dell’esercito. Se da una parte il Fronte della legittimità, pur sotto una feroce repressione, prosegue la contestazione pubblica della lobby delle divise, dall’altra la figura del generale Al Sisi è considerata eroica. Nella summenzionata area sottoproletaria oppure in quella di Darb Al-Ahmar che sorge al fianco dell’antico e noto mercato di Al-Khalili l’esposizione sui banchetti poveri o nelle botteghe di gioielli per turisti dell’immagine di Al Sisi (come un tempo erano quelle di Mubarak-Sadat-Nasser) sta diventando un “must”. Oltre la moda, l’opportunismo verso il vincente unisce ambulanti poveri e un ceto medio commerciale che resistono alla durezza dei tempi e paiono appagati dall’icona dell’uomo della provvidenza, visto come l’ennesimo salvatore d’una patria minacciata dalla Fratellanza.
E’ il refrain proposto dalle Forze Armate e ripetuto come un mantra da quei politici (ElBaradei, Sabbahi) passati dopo il ‘golpe bianco’ in secondo piano nelle cronache e nel sentire di tanta gente comune. Molta della quale rivela la propria nostalgia dichiarandosi elettrice un tempo di Mubarak, poi di Shafiq alle presidenziali a loro vedere “usurpate” da Mursi. Comunque c’è chi consiglia ad Al Sisi di starsene lontano dalla tentazione dell’urna: il generale dovrebbe al massimo occuparsi del dicastero della difesa e garantire la nazione dall’alto, mentre chi ne reclama un’aperta candidatura evidenzia l’inadeguatezza di tutta la politica civile sorda ai problemi della popolazione perché distante dai più deboli. Muoversi fra le bottegucce del celebre suq come fa la telecamera d’una televisione che inquadra volti sofferenti pur nella speranza del futuro è una rivelazione visiva di stati d’animo lacerati.
Un futuro, lo sanno tutti, incapace di decollare fuori dai famosi aiuti finanziari esteri. Qualcuno sostiene che la religione non divide la cittadinanza: solamente le componenti più povere e analfabete delle comunità islamica e copta continuano a vivere animosamente la propria appartenenza confessionale. Si voti o meno - ma le consultazioni vengono metodicamente rinviate e le nuove presidenziali che seguirebbero l’ennesima riscrittura della Carta Costituzionale si dovrebbero tenere, fra mille forse, tra un annetto - ciò che deve registrare l’egiziano pur munito della taumaturgica foto di Al Sisi è l’assenza di miracoli e il blocco d’ogni iniziativa. Si prolungano sopravvivenze con appena un dollaro al giorno, e neppure tutti i giorni che Dio manda in terra. Una situazione che rabbuia le stesse speranze. Resta la fede di moschee e chiese, se non vengono reciprocamente bruciate, più quella delle tante caserme. 

sabato 12 ottobre 2013

Priebke, la dannazione dell’anima nera


Vaga l’anima nera del camerata Priebke. Non trova accoglienza neppure la salma che gli argentini, memori dei figli gettati nell’oceano da boia che gli somigliano, non vogliono a San Carlos de Bariloche. Il capitano delle torture e del colpo alla nuca, impenitente come il nazifascismo mai morto che rieccita attivisti malati e più subdoli revisori delle tristezze di un’epoca, cerca una tomba. Magari la pietas religiosa supererà il disgusto amministrativo e civile di chi all’impronta gli nega l’eterno alloggio. Se non sarà il Sudamerica, sarà l’Europa italiana o tedesca. O qualche nazione che si presterà ad accettarne le spoglie. Quello che nessuna comunità può donargli anche davanti alla morte è la dignità che coi suoi massacri Priebke non ha mai avuto né come uomo né come militare. Ha evitato ogni ripensamento postumo, codardo s’è nascosto per decenni, ricevendo gli aiuti della rete internazionale che il mondo “democratico” forniva a lui e ad altri criminali di guerra.
Vilmente ha continuato a giustificarsi col refrain dell’esecuzione di ordini superiori verso i quali azzerava ogni raziocinio e sentimento. L’odore del sangue, di cui impregnava gli abiti civili in stile bavarese indossati da vecchio, non l’ha mai abbandonato né fatto riflettere. Reiterato fanatismo non coerenza è stato il dogma al quale ha continuato a obbedire non solo negli anni del meschino soggiorno nel fiabesco paesino sulle Ande, ma al momento della rivelazione letteraria e giornalistica della sua esistenza. I crimini contro l’umanità di cui s’era macchiato lo potevano porre di fronte al pentimento, al riconoscimento d’una sciagurata giovinezza servile e assassina. Invece nulla. Ringalluzzito da amici nostalgici ha proseguito a recitare la parte del milite integerrimo fuori tempo massimo. I familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine ne ricordano lo sguardo sprezzante e beffardo mai piegato a vergogna e rispetto. Non è la prima, non sarà l’ultima anima nera bollata dalla Storia. Chi vive ha l’obbligo di vietarne emulazioni.
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-10-12/largentina-rifiuta-resti-erik-100257.shtml?video&uuid=Ab3zHPtI&mccorr=AbqBq4sI


giovedì 10 ottobre 2013

Siria, la voglia di democrazia della comunità kurda


Presente in Italia per un tour di contatti politici Hassan Mohammed Ali, membro dell’Alto Consiglio kurdo e rappresentante esteri del Partito dell’Unione Democratica, ha esposto alcuni nodi centrali che la sua comunità presente in Siria si pone di fronte alla crisi che attanaglia il Paese.
Ginevra 2 – “Perché quest’assise prevista fra poco più di un mese sia un concreto momento di confronto e superamento fra i due blocchi: Russia, Cina, Iran a difesa di Asad; Arabia Saudita, Qatar, Turchia e forze occidentali in appoggio ai ribelli, jihadisti o meno, c’è bisogno che tutti gli attori esterni accettino in quella sede la presenza della società civile, multietnica e multiconfessionale che vive nel territorio. Quali esponenti d’una comunità ben organizzata, seppure duramente colpita dalla guerra civile, da stragi, fughe, allontanamenti forzati diciamo che non si può sottovalutare l’entità del dramma. Le cifre parlano chiaro: accanto ai centomila morti ad altrettanti feriti e prigionieri, si contano sette milioni di profughi, in gran parte donne vecchi e bambini, due milioni all’estero (Libano, Turchia, Giordania le nazioni più coinvolte), cinque milioni nelle aree siriane dove finora non imperversano i combattimenti”.
Salafiti – Secondo Hassan Ali le componenti jihadiste sono cresciute esponenzialmente portando con sé un esplicito disegno politico. I salafiti, che contavano un 5% di adesioni, hanno superato il 50%, molti sunniti moderati stanno appoggiando il loro fondamentalismo e questo potrà diventare un problema per la stessa Europa. Con ciò i kurdi di Siria non intendono sostenere l’intervento armato esterno. “La collettività non si riconosce nelle due componenti in conflitto – ripete Ali - abbiamo subìto massacri per mano jihadista e dell’esercito di Asad (negli ultimi mesi ad Aleppo con un uso massiccio di carri armati che cannoneggiavano sulle abitazioni civili). Le nostre zone sul confine turco sono oggetto di continui assalti jihadisti che da quel territorio s’infiltrano, il governo di Ankara propone di alzare un muro materiale per bloccare l’uscita dei profughi mentre da lì consente l’ingresso di guerriglieri che attentano alla vita di civili. In occasione dell’11 settembre, data simbolo per i qaedisti, abbiamo dovuto subìre nuove feroci offensive”.
Terza via – I kurdi di Siria confidano moltissimo nei colloqui di Ginevra 2, sperano venga superata la logica dei fronti contrapposti perché non stanno né col regime dittatoriale di Asad né col jihadismo fanatico che sogna emirati ad esclusione di altre confessioni ed etnìe. “La soluzione democratica – dice Ali - è la prospettiva che maggiormente si rifà alla storia siriana, un coacervo di popoli che devono coesistere e operare, non pensare a privilegi, esclusioni e sopraffazioni. Asad ha fallito perché perpetua un sistema accentratore e chiuso, c’è bisogno di creare rappresentanze che rispettino ogni componente con finalità pacifiche e di cooperazione”. Tutto ciò contro le ingerenze di chi prospetta scorciatoie con la frantumazione del territorio a vantaggio di nazioni forti in odore d’egemonia. La crisi duratura è pericolosa così come la sopraffazione di una o più parti e può costituire un precedente incendiario visto che quel che accade in Siria si riverbera sull’intero Medio Oriente. Le zone abitate dai kurdi sono ricche di petrolio (60% della produzione nazionale) più grano e cotone. “Noi non siamo disposti a cedere le terre che abitiamo da secoli - dichiara Ali - vogliamo cooperare con altri gruppi etnici e politici, per questo dovremo avere voce a Ginevra.

martedì 8 ottobre 2013

Afghanistan, Ghani il pretendente di lusso alla presidenza


Sebbene i Taliban consiglino alla popolazione afghana di stare alla larga dalle presidenziali del prossimo 5 aprile la macchina elettorale è già in corsa e ha concluso la raccolta delle candidature. Venti nominativi verranno vagliati da una speciale commissione elettorale decisa a onorare la scadenza che darebbe lustro alle velleità di ripresa democratica della nazione. Sulla democraticità di possibili futuri presidenti incombe un passato marchiato a fuoco: la partecipazione alla crudele guerra civile di cui taluni furono protagonisti dal 1992 al 1996. Si tratta di Signori della guerra doc come il pashtun Abdul Rasoul Sayyaf che ha presentato la candidatura portandosi al fianco due bei calibri del controllo militare del territorio: Ismail Khan, comandante di Herat, e l’uzbeko Abdul Erfan. Oppure l’altro Warlord uzbeko Rashid Dostum che rafforza la squadra di Ashraf Ghani, il più quotato a subentrare a un Hamid Karzai impossibilitato a presentarsi per un terzo mandato. Il presidente uscente resta comunque dentro la corsa elettorale con l’escamotage di candidare, assieme a Abrahim Qasimi e Wahidullah Shahrani l’ennesimo membro di famiglia: il fratello Qayum. La task force pare adeguata al previso agone politico.
Una partita che profuma sempre più di dollari e nella quale, non a caso, si tuffano i Signori della guerra trasformatisi in Signori degli affari. La Comunità Internazionale che sarà presente solo come osservatrice non è più coinvolta nell’organizzazione delle elezioni, continua però a finanziarle anche indirettamente con la promessa di riempire di denaro i candidati istituzionalizzati che renderanno possibile l’attuazione d’un sistema politico pluralistico. Fra costoro rientra Abdullah Adbullah che cercò di contrastare il clan Karzai nel 2009 e si ritirò nella seconda fase denunciando brogli. La figura più spendibile risulta Ashraf Ghani, ex ministro delle finanze che non porta il barbone di Sayyaf bensì un esotico pizzo; è affabile, poliglotta, culturalmente preparato grazie a studi di antropologia e soprattutto ha lavorato per la Banca Mondiale, biglietto da visita che estasia Washington. Dovrà superare la nota negativa evidenziata dagli avversari legatissimi all’appartenenza tribale: Ghani è stato all’estero per ben cinque lustri e in patria è considerato uno straniero. Lui si difende dicendo che non erige steccati verso la gente comune, vuole stare fra il popolo e aiutarlo. Si trova contro anche il fratello Hashmat che ha presentato una propria candidatura, ma c’è chi sostiene si tratti solo d’un diversivo per sviare nomi pesanti in lizza.
Il programma di Ashraf risuona già roboante quando afferma di voler  introdurre una collaborazione fra il vincitore e gli avversari battuti,  coinvolgere giovani, donne, strati poveri della popolazione. Promette che il 60% del suo governo sarà composto da personale compreso fra i 25 e i 45 anni e pensa a un impiego sostenibile per dodici milioni di giovani, spesso analfabeti. In dichiarazioni recenti ha considerato i talebani una realtà del Paese con cui potrebbe dialogare, ha riconosciuto un importante ruolo al presidente che chiude il mandato e ne ha sottolineato l’impegno per la pace (sic!). Sul tema caldo della corruzione afferma che occorre analizzare settore per settore, alcuni sono da rifondare visti gli enormi sprechi, l’esempio della sanità è illuminante: 2/3 delle spese sono fittizie e oliano il sistema anziché aiutare i malati. A suo dire far pulizia nei settori dove la corruzione è profonda richiede una quindicina d’anni. Vanno ricercate buone relazioni politiche ed economiche con Tajikistan e Uzbekistan, stabilizzate quelle con l’Iran che presenta un nuovo corso. Il capitolo Pakistan, bontà sua, prevede tempi più lunghi. Anche lì i Taliban non stanno a guardare.