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sabato 7 settembre 2013

Siria, l’attacco e le sue variabili


A metà fra congetture e rumors trapelati dagli ambienti diplomatici alcuni osservatori internazionali sostengono che fuori dalla facciata del G20 lo staff di Obama stia provando a prendere “il toro per le corna”. Un toro, che ben oltre questione Asad, è incarnato dall’Iran che del raìs di Siria è il protettore secondo il consolidato meccanismo delle alleanze funzionali all’egemonia nella regione. Il contatto diplomatico americano passa anche per interposte figure, alcune teoricamente super partes come il sottosegretario generale agli affari politici delle Nazioni unite Jeffrey Feltman recente visitatore a Teheran del ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif.

Iran, vero nemico o prossimo alleato? – Ovviamente non ci sono comunicati ufficiali, ma quel che si prospetta sul da farsi o su quanto si potrebbe fare vede l’Iran oscillare dal ruolo di vero obiettivo da colpire in un intervento di lungo corso, come vorrebbe e come spera l’establishment israeliano, a quello di alleato con cui sottoscrivere accordi tattici. Da nazione molto più pragmatica di quanto la facciano apparire parecchie operazioni mediatiche il Paese degli ayatollah accetterebbe. Per come s’è spinta in avanti la minaccia dell’intervento punitivo Obama potrebbe comunque ordinare il lancio di Tomahawk sul suolo siriano anche dopo un voto contrario del Congresso. Il “beau geste” lo mostrerebbe finalmente decisionista, laverebbe la coscienza a lui e tanti interventisti “umanitari” senza preoccuparsi di far cadere Asad. E tutto ciò sarebbe tollerato dal nuovo corso di Rohani. Secondo ulteriori pareri l’attuale real politik si spingerebbe ben oltre, coivolgendo la stessa nazione iraniana in cambio d’un ravvedimento dell’intransigenza Usa sulla scalata nucleare di Teheran.

Jihadisti, nemici comuni – Un nemico comune nell’area mediorientale, rafforzato dalla caduta di alcuni governi arabi (la Tunisia e l’Egitto dei raìs) è l’Islam jihadista. Esso trae vantaggio anche dall’indebolimento della componente moderata e istituzionale come la Fratellanza egiziana, sottoposta al conflitto con militari e laici e da certo salafismo estremista (Ansar Al-Shar’ia). Jihadisti e qaedisti sono finanziati e sostenuti dalle petromonarchie alleate degli States che sanno di giocare col fuoco nei confronti di questo soggetto politico che persegue una propria strategia, come testimonia la storia di Osama Bin Laden. Un Medio Oriente che riavvampa dal Libano, ai Territori Occupati, naturalmente Siria e Iraq già in ampio subbuglio fino a Kabul, dove Washington a stento tollera di conservare al suo posto Karzai “talebano”, sarebbe ben visto da un Iran sottoposto a embargo economico e isolamento politico internazionale. Non perché gli ayatollah siano guerrafondai, ma perché il loro realismo prende in esame anche un rimescolamento dei rapporti di forza, violento o minacciato.

Chi combatte chi – Ne scaturirebbe un conflitto articolato anche via terra, in cui Pasdaran e i sodali Hezbollah combatterebbero contro i qaedisti  liberando le truppe Usa, ipoteticamente alleate tattiche dell’Iran, dall’incubo dello scontro al suolo sperimento con l’invasione irachena.   Una guerra vinta nell’intervento lampo e angosciosamente perduta nel periodo di successiva resistenza diffusa. Del passato si ha traccia concreta, sul futuro aleggiano ipotesi varie compreso il presupposto di assoluta fluidità delle stesse di cui i vertici iraniani tengono conto in assenza di certezze. Le uniche convinzioni che hanno le amministrazioni di Teheran e Washington è che gli ultimi conflitti hanno incrementato rispettivamente coesione e sfaldamento fra popolo e leadership. E non è cosa da poco nel panorama geostrategico.

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