E’ giusto evitare il commento sugli scritti altrui, specie se non si svolge il mestiere del critico. Del resto ciascuno ha idee proprie ed è libero di esprimerle, sebbene intelligenza e buon gusto suggerirebbero di stare alla larga da intenti manipolatori. Eppure nel semplice ruolo di lettore c’è un limite di sopportazione nel deglutire pasticche che hanno un sapore pasticciato. La filosofa Donatella Di Cesare - diventata anche per grazia di Giovanni Floris un volto televisivo - in un odierno articolo su Il Fatto Quotidiano (‘Perché non è pacifista la sinistra antisemita’) sostiene di aver udito ultimamente l’affermazione: Israele una “potenza occupante”, come se questa non fosse una consolidata verità. Dal 10 giugno 1967, conclusione della ‘guerra dei sei giorni’ Israel Defence Forces occupa territori palestinesi (Gerusalemme est) e siriani (alture del Golan) e altro. La ‘risoluzione Onu 242’ (novembre 1967) chiedeva un ritiro da quelle occupazioni. Mentre successivamente Sinai e Canale di Suez sono stati restituiti all’Egitto, la Striscia di Gaza è tornata ai palestinesi, la presenza militare e quella degli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania sono in corso da decenni, ben oltre l’operato dei governi a guida Netanyahu. La filosofa Di Cesare lo sa, ma non lo dice.
Anche il “peccato originale” di Israele, che la professoressa Di Cesare sostiene di aver ascoltato in questi giorni, prima che d’interventi da nonchalance è stata un’affermazione dell’ex presidente israeliano Shimon Peres, insignito nel 1994 premio Nobel per la pace: “I palestinesi sono il peccato originale di Israele” diceva. E ancora “Nel 1896 quando Theodore Herzl, l’ideatore del sionismo, coniò lo slogan ‘un popolo senza terra va a una terra senza popolo’ su quella terra un popolo c’era già, gli arabi”. Le valutazioni della professoressa Di Cesare sul peccato (presunto) di occupanti, potete leggerle alla fonte. Qui riportiamo un altro passo della signora Di Cesare: “Già prima della Shoah, ondate di ebrei europei sono tornati lì dove sono sempre stati” (sic). Lì dove? se generazioni di askenaziti hanno vissuto per Diaspora millenaria in Europa centrale e orientale, nei vari Imperi e poi negli Stati nazionali ottocenteschi e novecenteschi; così per le generazioni di sefarditi insediati nella penisola iberica fino al XV secolo, poi espulsi e riparati ancora in Europa, nei territori ottomani dei Balcani e in Turchia, anche in Palestina, e pure in America. Questo insegnano i colleghi storici della signora. Che ribadisce: “E sono tornati (gli ebrei europei, nda) con un grande progetto politico: quello dei kibbutzim, comunità socialiste dove praticare uguaglianza, giustizia, accoglienza”. Il progetto delle comunità agricole teorizzato e poi avviato dal primo decennio del Novecento col primo nucleo a Degania, presso il lago di Tiberiade, ha avuto il suo maggiore impulso dopo la costituzione dello Stato di Israele (1948). Ecco la voce dell’Enciclopedia Treccani: “I kibbutzim attraversano un periodo di espansione sociale ed economica, creano il miracolo dell’agricoltura israeliana, che una volta coperte le necessità del mercato interno, si lancia all’esportazione di prodotti e tecniche. È il movimento che scopre i pompelmi e li impone all’Europa. L’aumento delle entrate porta a un salto nel tenore di vita: le case diventano più grandi, arrivano telefono e televisore e poi anche le auto (di proprietà del kibbutz ma ad uso dei singoli). Alla crisi ideologica strisciante si somma la crisi economica della metà degli anni Ottanta. L’inflazione raggiunge il 400% e determina enormi debiti per il movimento kibbutzistico. Per salvare questa istituzione dalla bancarotta deve intervenire il governo che impone agli istituti di credito più esposti una moratoria. Nessun kibbutz fallisce ma il trauma è enorme”.
Tornando al 1920-48, fase del progressivo disimpegno del Mandato britannico sulla Palestina, al fianco del movimento kibbutzim si sviluppò l’inquietante presenza dell’HaShomer e poi Haganah, gruppi di coloni armati designati alla difesa dell’attività agricola insidiata dagli abitanti autoctoni che vedevano crescere la presenza straniera (la comunità ebraica che nel 1920 contava 18.000 persone passò a 175.000 nel 1931 e a 400.000 dopo il secondo conflitto mondiale). Dopo i moti arabi del 1929 le strutture paramilitari ebraiche ebbero un notevole sviluppo. Giunsero a reclutare migliaia di elementi fra i migranti che continuavano ad affluire dal vecchio continente, compiacenti le autorità britanniche. Gli armamenti dei reparti paramilitari conobbero una crescita esponenziale, sorsero anche officine per la fabbricazione di bombe a mano. Da una scissione interna all’Haganah scaturì l’Irgun, cui si aggiunsero altri organismi (la più nota e faziosa era la Banda Stern) dediti non tanto alla difesa dei kibbutz, ma all’occupazione di aree abitate da palestinesi che venivano cacciati col terrore. Sull’argomento la bibliografia è ampia, basta volerla consultare. Le opinioni personali, soprattutto quando si ha il tempo di esporle per iscritto anziché negli eccitati salotti televisivi, creati per baruffe verbali che innalzano gli introiti pubblicitari, potrebbero avere un fine più meditato e attinente alla realtà storica. Specie se si ha una deontologia da rispettare.
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