Non è dato sapere se l’ennesima infuocata crisi, riempita di sangue e di morte, fra palestinesi e israeliani durerà giorni, settimane o mesi. Di fatto “la questione” dura da settantacinque anni e la via intrapresa dalla dirigenza antica, trascorsa e presente dello Stato sionista, tende a renderla eterna. Con tutte le inevitabili conseguenze radicali e violente. Che esistono su ogni fronte, perché anche i commando di Settembre nero assaltavano e uccidevano quando Hamas e Jihad islamica non c’erano, e come prima di loro avevano fatto l’Haganah e l’Irgun. Il problema è che quelle epoche e quelle pratiche si riproducono, anzi Israele le ha continuate a far sue non più con gruppi paramilitari bensì con un esercito nazionale, protetto, equipaggiato ed ipertecnologico. Mentre si è cristallizzata la non soluzione di uno Stato palestinese, avvelenata, non solo e tanto dalla vuotezza degli Accordi di Camp David e poi di Oslo, ma dalla ebreizzazione di Israele e dall’infiltrazione nel corpo della gente con cui si dovrebbe vivere accanto, perché i trojan degli insediamenti dei coloni non rendono possibile una convivenza pacifica. Questo racconta la storia recente della Cisgiordania. E in queste ore in cui le cifre di morti- feriti-ostaggi raggiungono quote drammaticamente luttuose con possibili aumenti esponenziali (seicentocinquanta vittime israeliane, quattrocento palestinesi accertate alle 18 dell’8 ottobre) il commento mediatico si spalma sull’evidente dolore, sostenendo la sorpresa di fatti i cui prodromi erano da mesi sotto gli occhi. Ma di chi voleva vedere. Un po’ più in là del confine di Gaza, dal gennaio scorso 180 palestinesi non incontrano più la luce del giorno, freddati dalle armi di Israel Defence Forces. Stessa sorte hanno subìto 28 israeliani, assaltati da miliziani e da singole azioni disperate e omicide di chi osserva le cose sul fronte opposto. Le inenarrabili violenze odierne seguono inenarrate violenze quotidiane, nessuna si giustifica, ma tutte esistono in una storia maledettamente lasciata sospesa.
Le novità apparse con l’organizzatissima “Tempesta Al Aqsa” di Hamas sono sfuggite solo al preparatissimo Shin Bet. Se involontariamente, volutamente, per recondite ragioni di supponenza, per eccesso di fiducia verso controlli elettronici inadatti a operazioni di ‘sofisticata artigianalità’, lo stanno scandagliando gli esperti dell’Intelligence. Certo, la debolezza iniziale è apparsa palese e la difesa del territorio, di villaggi, famiglie, beni deve fare i conti con la determinazione di attaccanti fortemente motivati. Israele l’inviolabile è stato colpito, Israele l’invincibile ha subìto uno smacco, come nell’agosto 2006 contro gli hezbollah libanesi. Questo fattore determina il presente non solo per mettere nell’angolo gli sbandierati ‘Accordi di Abramo’ che quietavano i rapporti fra Tel Aviv e Riyad, ma irridevano i palestinesi privati, anche sulla carta, del 30% dei loro territori inglobati da Israele. Fa riflettere sul perché il miliziano di Hamas, che la maggior parte della comunicazione occidentale definisce terrorista, sia ferocemente disposto a uccidere e a morire. Può ben raccontarlo chi è passato nella Striscia di Gaza, figurarsi chi ci sopravvive da bambino. E ora a diciotto o venticinque anni, sigillato in quella prigione a cielo aperto, da dove Sharon ritirò truppe e coloni nel 2005, l’orizzonte da osservare può anche essere azzurro, però regala periodicamente le bombe punitive dell’aviazione israeliana, da ‘Piombo fuso’ in poi. Non è Mohammed Deif a creare i “terroristi”, come non era l’ingegnere Ayyash a incrementare i kamikaze. Loro li organizzano, li guidano, a detta di molti analisti li sfruttano, come peraltro ogni politica utilizza i propri attori siano combattenti, militari in divisa, civili pacifici oppure armati. E’ la non soluzione dell’annosa “questione” a produrre il dolore che televisioni e video amatoriali stanno mostrando. Anche perché quando Hamas, cinque anni addietro, lanciò la pacifica ‘marcia del ritorno’ in ricordo della Nakba del 1948, i soldati di Tsahal facevano il tiro al bersaglio sui manifestanti che alzano bandiere non khalashnikov accanto alle reti metalliche che ieri hanno sfondato. Duecentotrentaquattro furono i morti, fra il disinteresse di autorità e comunità internazionali e di tanti media dimentichi del proprio ruolo.
Straniamento e paura sono le umanissime sensazioni che la gente d’Israele manifesta nel fosco presente, avendo cercato di contestare, ma non a maggioranza perché lui continua ad essere al vertice del Paese, il premier Netanyahu, non il sistema. Probabilmente il tema che tiene accesa la brace mediorientale prenderà in questi giorni contorni rinnovati rispetto al quadro asfittico conosciuto negli ultimi tempi. Ci sarà tanta Geopolitica con la maiuscola, come e più delle guerre del Kippur o di quella dei ‘Sei giorni’. Ma quegli eventi bellici non risolsero anzi inasprirono “la questione”, e la diplomazia di decenni e decenni seguenti ha peggiorato il presente. Nello smacco odierno da cui Israele deve riprendersi e trovare soluzione c’è la vicenda degli ostaggi. Un centinaio e forse più, che rappresentano l’attuale arma più potente che il Movimento Islamico di Resistenza mette sul piatto di possibili trattative. Tutti i missili lanciati finora, che hanno messo in difficoltà il non più salvifico Iron Dome, non hanno lo stesso impatto di uomini, donne, bambini, anziani, militari sequestrati e portati oltre il confine al cospetto dell’Inferno di Gaza. Umanamente c’è da sperare che non diventino scudi umani, dipenderà anche da quello che faranno Netanyahu e l’esecutivo con l’avviata reazione dal cielo e da terra. Mette i brividi l’ipotesi che possano essere sacrificati alla ‘ragione di guerra’ finendo sotto le bombe di chi dice: appiattiamo Gaza. Un’ipotesi ottimistica può pensare agli scambi di prigionieri, visto che la dirigenza di Hamas li considera tali. E’ il valore del baratto che può diventare pesante se dodici anni fa per restituire ai cari il caporale Shalit, prelevato da un commando sempre nei dintorni di Gaza, ci vollero cinque anni e mille detenuti palestinesi. Nell’ipotetica trattativa dei cento ostaggi le prigioni d’Israele dovrebbero svuotarsi. Chi spera che tuttociò s’avveri, magari facendo anche tacere le armi, è un formidabile sognatore. Eppure in queste ore buie ancor più ottimistico sarebbe non solo la sortita dalle galere di Gaza e di Tel Aviv, ma l’uscita dall’incubo della “questione irrisolta”. Altrimenti non ci sarà mai luce, né per Hamas né per Israele.
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