Nei quasi quindici anni di vita, che non son molti ma per gli intrecci internazionali sono stati intensissimi, l’acronimo Bric, diventato nel 2010 Brics, s’è circondato di aspettative e dubbi. Stava e sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, ex imperi, giganti in espansione, colonie in rilancio. Tutto condito da cifre da capogiro: 42% della popolazione mondiale, 27% dell’economia globale, un quinto del commercio terracqueo. Eppure, dopo un quinquennio di speranze, nelle aree mondiali dove queste nazioni interagiscono, accanto a contraddittori scenari interni, le intenzioni devono fare i conti con realtà in evoluzione. Che non sono rosee per nessuno. Ma qual era l’intenzione primaria del gruppo? Non è stato mai un segreto: difendersi dallo strapotere statunitense e contrattaccarlo, dalla sfera economica a quella geopolitica, quest’ultima direttamente correlata alla strategia militare. Qui la strada s’è presentata subito in salita, visto il corpaccione degli armamenti americani che tuttora non ha pari al mondo per tecnologia e finanziamenti (860 miliardi di dollari nel 2023, più d’un terzo dell’investimento globale). Non secondaria, poi, la linea delle alleanze che, con la storica North Atlantic Treaty Organization sorta nel 1949, riunisce attualmente gli eserciti di 31 Stati membri, per una spesa di trentamila milioni di euro nell’anno in corso, cifra capogiro per la stessa Cina, figurarsi per il Sudafrica. Ma i Brics non puntano a far la guerra al colosso americano, almeno con le armi. La strategia è l’aggiramento, anzi la corrosione proprio delle vicinanze mercantili, di partenariato economico-finanziario, e di quello geopolitico. Certo, nulla a che vedere col terzomondismo degli anni Cinquanta, quando fra i due blocchi da Guerra Fredda, veniva lanciata la terza via dei “non allineati” attorno a figure che si smarcavano a est e a ovest (Tito, Nasser, Nehru). Del resto il tempo corre, l’India dell’indipendenza di Nehru e Gandhi contava 328 milioni di concittadini, l’attuale di Modi ha superato 1.400 milioni d’individui, quintuplicandosi in ottant’anni. Nell’anno corrente dovrebbe strappare alla Cina il non esaltante primato di Paese più popoloso del globo, su un pianeta che stenta a tirare avanti proprio per sovrappopolazione e conseguente inquinamento per sostenere un modello di vita ormai standardizzato e per nulla garante della stessa biosfera. Questo disastro operato in un paio di secoli di sedicente sviluppo, tutto a trazione occidentale, ha ora responsabilità dirette fra i componenti dei Brics, che però, come il blocco avverso, non se ne curano.
In realtà l’ultimo aggregato della sigla, il Sudafrica attualmente guidato dal presidente Ramaphosa, pensa per il proprio continente a un riscatto dai percorsi stilati da vecchi e nuovi padroni. Ma fra quest’ultimi può trovare l’omologo Xi Jinping, suo ospite in queste ore a Johannesburg, con cui pensare addirittura di predisporre un sistema monetario alternativo al dollaro (idea considerata irrealistica da monetaristi ed esperti finanziari), difficilmente potrà dissuaderlo dalla mole di affari con cui le aziende di Pechino asfaltano la loro via della seta nel continente che ha nutrito per tutto l’Otto e il Novecento il colonialismo europeo. Eccole, dunque, le incongruenze del raggruppamento, sbeffeggiato dai detrattori come un happening geopolitico incapace di formulare piani per l’orientamento internazionale di questioni cogenti riguardo a economia, finanza, investimenti, relazioni. In realtà, queste vengono finora affrontate dai leader dei Brics ciascuno per la propria strada, che per India e Brasile non è certo di conflitto e rottura con Washington e il blocco europeo. Eppure proprio perché, come ha affermato il presidente sudafricano: ”Gran parte delle decisioni mondiali vengono prese nell’interesse dei Paesi occidentali, c’è un vuoto che può interessare nazioni in via di sviluppo”. Una verità che non fa una grinza e porta quaranta Stati a guardare e sperare nello sviluppo strategico dei Brics e ventitré a chiederne l’adesione. Fra costoro Arabia Saudita ed Egitto, che hanno garantito un assetto politico favorevole agli Usa anche nei recenti anni della disattenzione di più d’un presidente americano in Medioriente. Comunque le contraddizioni internazionali del chi è amico di chi - ben oltre appartenenze e accordi, basti pensare al comportamento del membro Nato turco in Siria, Libia e in vari “avamposti” africani da Mogadiscio a Dakar - potrebbero lanciare avvicinamenti tattici fra attori regionali finora contrapposti, ancora i sauditi e gli iraniani, e fra quest’ultimi e altri colpiti come loro dagli embarghi (la Russia putiniana). Con un benestare ben più ampio fra gli appartenenti ai Brics e i pretendenti a trovarvi posto: Algeria, Egitto, Nigeria, Congo, Etiopia in Africa; Argentina, Venezuela, Bolivia in Sudamerica; Indonesia, Vietnam, Myanmar in Asia; le citate Arabia Saudita, Iran, Kazakistan in Medioriente. Molte nazioni hanno più da chiedere che da dare, ma nel mondo che si muove le compagnìe di strada possono risultare più vantaggiose delle parentele di lungo corso.
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