Per avere il nuovo presidente la Turchia dovrà attendere il 28 maggio. Stanotte né Erdoğan né lo sfidante Kiliçdaroğlu hanno superato il 50% di preferenze. La voglia di conservazione e il desiderio di cambiamento si sono fronteggiati dentro e fuori dai seggi. Come avevano fatto per l’intera, lunga, combattuta, partecipatissima campagna elettorale vissuta a suon di slogan (“uomo giusto al momento giusto” e “te lo prometto“), programmi faraonici e liste della spesa, rispettive platee che spaccano il Paese coi simboli delle quattro dita di Rabaa per l’Akp e le mani a forma di cuore per i sostenitori del politico del Chp. Le oceaniche adunate dei giorni scorsi sono state l’annuncio d’una partecipazione al voto fra le più alte della storia nazionale, del resto l’appuntamento è storico, non solo per il centenario della nazione. Sfiora il 90%. Partecipata in maniera trasversale, coi cinque milioni di neo votanti ed elettori anziani che non mollano il seggio a cento e più anni. All’apertura dei seggi emittenti nazionali ed estere hanno puntato l’obiettivo su Gulu Dogan. Se lo merita. A 112 anni è voluta andare di persona a infilare la scheda nell’urna, sostenendo di star bene e non aver bisogno dei funzionari, che per nonnetti e disabili raccolgono il voto nelle abitazioni. E’ accaduto a Gümüşhane, un centinaio di chilometri a sud di Trebisonda sul mar Nero. A un paio d’ore dalla chiusura dei seggi Erdoğan è dato al 52%, Kiliçdaroğlu dieci punti di percentuale sotto. Immediatamente il sindaco di Istanbul İmamoğlu, vice del candidato repubblicano nell’Alleanza Nazionale che s’oppone all’Alleanza della Repubblica (Akp, Mhp e spiccioli dell’islamismo conservatore) accusa l’agenzia Anadolu di celare i voti dell’opposizione. Da parte sua Kiliçdaroğlu twitta: Öndeyiz,siamo avanti. Desiderio o realtà bisognerà aspettare. Passano altre due ore e alle 22:30 di Ankara il margine è ritoccato: il repubblicano supera il 44% mentre il presidente uscente, nonostante i ventitré milioni e mezzo di consensi è a un soffio sopra il 50%.
Poi quel soffio s’affievolisce la percentuale cala: 49.7% contro i
44.6% dello sfidante. C’è il terzo incomodo, Sinan Oǧan (ricordatevi questo
nome perché i suoi due milioni e settecentomila consensi faranno la differenza
fra due settimane) attestato al 5.3% che condiziona le percentuali altrui. Ma
paradosso dei paradossi se nella notte, per ora manca circa l’8% di seggi, le percentuali
resteranno quelle indicate, a impedire
la rielezione del presidente uscente è İnce, il candidato ritiratosi giovedì
scorso, che comunque raccoglie lo 0.46%. Non nel voto odierno, non poteva
farlo, ma in quello all’estero avvenuto prima del ritiro. Il Consiglio
Elettorale Supremo ha deciso di conteggiare i voti ricevuti nel precedente passaggio
e quei voti abbassano la percentuale di ciascun concorrente. Le proiezioni
delle politiche vedono conservare la maggioranza all’alleanza Akp-Mhp
che dovrebbero avere rispettivamente 267 seggi (nel 2018 l’Akp contava 295 deputati) e 51 seggi (i
nazionalisti ne avevano 49). Cinque deputati li strappa Refah Partisi il gruppo di Fatih Erbakan per un totale di 323 seggi
di maggioranza relativa (49.95%). Sul fronte opposto 169 i deputati per Chp (ne contava 146) e 45 per İyi della Akşner, che incamera due deputati
in più di cinque anni fa e risulta l’unica dei sei gruppi dell’alleanza
d’opposizione a superare la soglia di sbarramento del 7%. Il blocco dell’est s’è orientato
sull’aggregazione della Sinistra Verde
e ottiene 60 deputati (come Hdp ne
aveva 67), unita al Tip (Türkiya İşçi Partisi) con 3 seggi porta
nel Meclis rappresentati dai collegi
di Ağri, Van, Hakkari, Mardin, Batman, Diyarbakır e altre province. Come aveva
promesso la leadership del partito kurdo, questa componente non avrà fatto
mancare il sostegno a Kiliçdaroğlu
e altrettanto lui s’aspetta per il ballottaggio. Inutile dire che i dati
relativi su cui ragionano tutti i media, e anche noi, saranno verificati dal
Collegio Elettorale Supremo. Se la sfida per la presidenza resta apertissima,
la fisionomia del Parlamento per i prossimi anni non consentirà la riforma del
presidenzialismo che aveva in mente il cosiddetto Gandhi turco, a meno che non ci saranno tanti Davutoğlu e Babacan pronti a cambiare bandiera. Fino a quel momento se
eletto, sarà lui l’uomo solo al comando.
6 - continua
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