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lunedì 13 giugno 2022

Migranti afghani, botte di frontiera o bastonature di casa

Quattro milioni che non compaiono nei rapporti delle agenzie Onu, perché verso l’Iran anche le statistiche attuano filtri. Ma gli afghani che fuggono a ovest - non solo dal 15 agosto 2021 - risultano quattro milioni. Il loro Occidente sta subito dopo la provincia di Herat, quando la strada del distretto di Kohsan s’approssima al confine, vigilato più da guardie di frontiera che da Guardiani della Rivoluzione. E’ in quei territori che staziona un’infinità di afghani, a cercar riparo da bombe e violenze, sebbene nessuno li rassicuri che altre vessazioni,  individuali o di gruppo, possano accadere lungo tali percorsi. Le cifre diffuse dagli organi internazionali riguardo alle migrazioni sono sempre quantificabili per difetto, erano 272 milioni nel 2020; l’anno scorso, pur davanti ai blocchi della pandemia di Covid, avranno superato i 300 milioni, come se l’intera popolazione degli Stati Uniti se ne andasse altrove. E non per un giro turistico… Alcune storie afghane conosciute sono diventate, per la gioia dei protagonisti beneficiari d’un lieto fine, addirittura documentari. Di altre, della maggior parte, si sa pochissimo. Per molti già sopravvivere è tanto. Riuscire a lavorare e metter da parte un gruzzolo è un livello ancor più gratificante. Rassicurante no. Perché nel caso degli afghani, specie quelli di etnìa hazara, la partenza quasi mai è legata a un ritorno, il fondamentalismo sunnita è pericoloso anche quando non assume i contorni sanguinari dell’Isis Khorasan.

In realtà il fondamentalismo confessionale è pericoloso ovunque. Ne sanno qualcosa i musulmani indiani, perseguitati dagli hindu, e così via per diverse minoranze. In altre epoche, addirittura sotto taluni imperi, si riusciva a vivere, pur pagando tributi pecuniari. Andare in Iran per un hazara significa sperare che la comune fede sciita garantisca quantomeno un approccio differente. La disillusione arriva presto. Quando per non restare in un raggio di chilometri ristretto dalla frontiera, magari varcata di soppiatto per evitare il respingimento, il fuggitivo raggiunge certi punti dove stazionano i trasportatori di uomini. Il prezzo per un passaggio non è mai contrattabile, è imposto. Prendere o vagare a piedi. Per raggiungere la capitale, oltre un migliaio di chilometri, la cifra non è esosa: cinquanta dollari. Il problema è averli… Chi ha minimamente programmato il viaggio, una riserva minima la possiede, è che s’esaurisce velocemente. Testimonianze precedenti alla pandemia hanno descritto condizioni di accoglienze minime, comunque esistenti. Oggi tutto s’è fatto complicato, le stesse bonyad umanitarie non dispongono di fondi a sufficienza. Come in uno specchio anche in Iran, dove la crisi economica picchia duro dai tempi dell’incrudimento dell’embargo americano, i governi elargiscono più fondi alle Forze Armate che all’assistenza. Con la differenza che quanto specularmente accade nelle nazioni occidentali: più armamenti minor sostegno umanitario (eccezion fatta che per profughi e migranti ucraini), poggia su Pil statali decisamente corposi. Il rifugiato afghano che cerca sussistenza in proprio fuori dal campo d’accoglienza, e riesce ad avere la dritta giusta può finire nientemeno che a fare l’inserviente in un ristorante. Paga bassa, ma un pasto, almeno uno, assicurato. Ma si contano sulle dita d’una mano. 

 

Se i giovani iraniani di città solitamente scolarizzati e dunque proiettati verso occupazioni più qualificate non rappresentano una concorrenza, dalle province interne arrivano soggetti poveri che proponendosi per il medesimo lavoro vengono favoriti in base alla nazionalità. La fede sciita non basta. Eppure piuttosto che restare sotto i diktat talebani su vestiario, barbe, preghiere quotidiane, si fugge via. In ogni caso c’è il rovescio della medaglia. Sono cresciuti gli episodi di respingimenti alla frontiera e di violenze ufficiali, quelle poliziesche, non del razzismo di strada. Rifugiati afghani che denunciano bastonature durante i controlli meditano di tornare indietro. Fra le fustigazioni dei gendarmi iraniani e quelle dei vigilanti della morale in terra afghana, la sostanza resta impressa nei lividi sulla pelle. E le strisce rossastre non differiscono a est e a ovest. Della vicenda si sono occupati anche i portavoce dei rispettivi ministeri degli Esteri in un palleggiamento di buone intenzioni finora verbali. Elogiando l’inclusività nel territorio iraniano d’un numero importante di cittadini afghani, gli uffici migratori di Teheran fanno notare come fra 780.000 di loro, quasi 600.000 hanno un nuovo passaporto. Certo, 2.600.000 risultano privi di documento. Non possederlo comporta indicibili difficoltà per ottenere un lavoro legale, e si può tirare a campare solo sotto iper sfruttamento. Per tacere dell’ottenimento d’un conto bancario, della locazione d’appartamento, finanche il possesso d’una carta Sim per il cellulare… Per l’assistenza sanitaria occorre appoggiarsi alle strutture dei campi profughi, bisognose anch’esse di fondi, questione già citata, e di crescente difficoltà sempre per la crisi economica e il malefico embargo. Comunque Pakistan e Iran sono le nazioni-rifugio d’una copiosa quantità di afghani fuoriusciti. Invece l’Unione Europea e gli Stati Uniti, al di là d’essersi tuffati anima e corpo nell’emergenza Ucraina, hanno limitato gli ingressi ai soli ‘corridoi umanitari’ quasi sempre inaccessibili ai più.

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