Aumentano i candidati, 718, e le liste, 103, quattro anni fa erano rispettivamente 597 e 77, ma la partecipazione dei libanesi alla consultazione elettorale di ieri sembra diminuita. Il ministro dell’Interno Mawlawi ha indicato un afflusso del 41%, che potrà aumentare di poco, senza eguagliare il 49% del 2018. Dunque l’effetto volano - che una settimana fa aveva visto un’accresciuta, seppur di poco, adesione dei libanesi residenti all’estero il cui voto s’attestava al 63% - non c’è stato. E fra le disperate speranze di qualche giovane intervistato dalla stampa locale che afferma d’essersi recato alle urne per senso civico e per senso pratico, la via d’uscita dalla profondissima crisi d’una nazione implosa resta ferma al desiderio. La speranza di azzerare un ceto politico che difende il suo status, non lo Stato libanese né i cittadini, resta tale nonostante l’abbandono di alcuni uomini-simbolo del fallimento e della corruzione. Non c’è più Saad Hariri, il Movimento Futuro non rinnova la leadership e perde colpi, voto e seggi, scegliendo di fatto un boicottaggio. Alcuni suoi membri hanno partecipato in proprio con liste locali, lo spoglio delle schede ne verificherà l’impatto. Calano i consensi del Movimento Patriottico Libero del quasi novantenne presidente Aoun, eppure queste realtà politiche, con inevitabili fluttuazioni nei seggi parlamentari, non spariranno dai vertici decisori delle sorti del Paese. Come non sparisce il sistema politico-confessionale che garantisce a maroniti, ortodossi, armeni, sunniti, sciiti percentuali di rappresentanza e ruoli istituzionali, una regola diventata dogma. C’è da giurare che i battitori liberi dell’urna - che esistono, non tutti gli eletti appartengono ai maggiori partiti nazionali - se presenti nel Majlis saranno contattati e magari cooptati dalle sigle note per perpetuare il meccanismo che blocca un diverso percorso della politica. L’ideale inseguito dalla rivolta dal basso dell’autunno 2019 consisteva nella laicizzazione della rappresentanza, affinché fossero le questioni sociali, economiche, amministrative a orientare il governo e i suoi ministri, come dovrebbe fare la politica di tutto il mondo. Che questo spesso non accada, un po’ ovunque, è una magra consolazione, visto che in Libano l’interferenza politico-confessionale s’è tradotta in carenze spaventose per la popolazione locale, impoverita per oltre il 70% da un’assenza di economia che rende la cittadinanza inattiva, bisognosa di sussidi alla stregua del milione e mezzo di rifugiati siriani e dei 400.000 palestinesi dei campi profughi. L’ennesima tragedia del mare, registratasi a fine aprile davanti alle coste di Tripoli, fra cadaveri ritrovati e individui che risultano tuttora dispersi, mostra come gli stessi libanesi siano costretti alla migrazione forzata per non morire di fame. Così fra uno speculatore locale trasformatosi in trafficante, manovre sciagurate delle motovedette che hanno speronato la malandata imbarcazione di fortuna, anche gli abitanti degli slum tripolini sono diventati disperati del mare. Chi ancora sopravvive sulla terraferma può segnare sulla scheda il nome del concittadino Mikati, premier uscente e miliardario d’un Libano spolpato da un ceto a lui simile? Il resto del sistema di potere ruota attorno a padrinaggi geopolitici che sauditi e iraniani, ciascuno sulla propria sponda che siano Forze Libanesi ed Hezbollah, offrono con petrodollari e consiglieri alla sicurezza. E anche Parigi non sta solo a osservare, agisce in maniera meno appariscente di due anni or sono, ma pensa a un ritorno al protettorato. Come un secolo fa.
Nessun commento:
Posta un commento