E’ rimasto ucciso più
per il suo passato
che per il presente Khalid Balti, noto anche come Muhammad Khorasani, nominativo
di battaglia poi adottato da altri portavoce talebani. Era un leader dei
terribili Tehreek-e Taliban che dal 2007 hanno messo a ferro e fuoco il
Pakistan. Una nota dell’Intelligence di Islamabad, ripresa dall’emittente Al Jazeera, sostiene che attualmente
Balti non ricoprisse incarichi di vertice nel gruppo, considerato fra i più
agguerriti del fondamentalismo islamico. L’agguato s’è svolto nella provincia
afghana del Nangarhar, lungo il poroso territorio che la separa dal Paese
confinante. Chi abbia sparato non è chiaro, ma negli ultimi tempi più frequenti
sono diventati i pattugliamenti dell’esercito pakistano che teme scambi fra
nuclei taliban di casa e quelli afghani. Quest’ultimi non sono solo gli attuali
governanti di Kabul, bensì i dissidenti del Khorasan con cui i TTP condividono il
piano jihadista di seminare violenza e terrore per disarticolare lo Stato. Nello
scorso novembre, quando il premier pakistano Imran Khan aveva avviato colloqui
coi Tehreek per ricomporre le tensioni che da un quindicennio insanguinano il
Paese, il ministro degli Esteri afghano, il turbante Muttaqi, s’era offerto per
un’intermediazione. Dopo un mese l’avvicinamento in terra pakistana era
naufragato e con esso il cessate il fuoco sottoscritto dai TTP. Il loro capo,
mullah Fazlullah, si mostrava scontento, soprattutto per la mancata liberazione
d’un centinaio di prigionieri l’unico loro scopo della trattativa.
Dal canto suo il premier cercava di attenuare lo
scontro col fondamentalismo che ha contato finora 25.000 vittime fra le varie
componenti e la popolazione inerme. E poi rilanciare il sostegno al proprio partito
(Movimento del Pakistan per la Giustizia) e a se stesso tramite la potente
lobby militare che, a detta dell’opposizione, ne ha decretato l’elezione nel
2018. Almeno la prima parte del piano è saltata e se la popolarità di Khan è in
declino, così affermano gli osservatori interni, i militari potrebbero cercare
nuovi volti su cui poggiare i propri interessi. Sembra, infatti, tramontata la
lunga fase con cui, fra golpe palesi e mascherati, le Forze Armate scegliessero
fra le proprie file i leader politici. E accantonate le soluzioni dei clan
laici infarciti di corruzione - da Nawaz Sharif ad Ali Zardari, tutti caduti,
tutti indagati e condannati - mascherarsi dietro il campione-guascone Khan
poteva rappresentare per la lobby delle stellette una strada percorribile. Ma
l’attuale governo vede complicarsi la vita. Un po’ per fattori contingenti
legati alla pandemia di Covid, apparsa comunque in Pakistan meno drammatica
rispetto a quanto accade allo storico nemico indiano, però appaiono le crepe
dell’economia. E sono enormi. L’attuale battaglia parlamentare coi partiti
storici (Lega Musulmana, Partito Popolare) ruota attorno al progetto di legge
denominato ‘minibudget’ proposto dall’esecutivo. Si tratta d’un taglio
all’esonero di tasse per merci di consumo, soprattutto alimentari, ma anche
farmaci e telefoni portatili che coinvolgono decine di milioni di famiglie e
gravano su quelle meno abbienti. Secondo gli analisti proprio queste fasce
subiranno ulteriori colpi inflattivi già conosciuti nel 2021. Il guascone Khan,
volendosi allontanare dall’interessato abbraccio statunitense, aveva dichiarato
di morire piuttosto che chiedere prestiti al Fondo Monetario Internazionale. E’
dovuto tornare sui suoi passi. La contropartita consiste nell’attuare riforme,
anche impopolari, su cui il governo di Islamabad sta facendo marcia indietro.
Ballano sei miliardi di dollari, previsti nel 2019 e poi bloccati.
Un’altra casseforte cui
il vertice pakistano
ha guardato è quella cinese. Negli incontri ufficiali avuti con Xi Jinping in
persona, i progetti di Pechino erano, come s’usa fare da quelle parti,
ciclopici: 60 miliardi di dollari per avviare corridoi economico ed energetico
e trasporti elettrificati per i quali le aziende cinesi fornirebbero
infrastrutture. Il ricambio riguarda la sicurezza sul pericolo jihadista che
vede i Tehreek e altri gruppi del radicalismo pakistano fare comunella coi
militanti uiguri. In questi mesi la ricerca di sostegno economico lo spavaldo
Khan l’ha condotta anche sul fronte saudita. E l’ancor più spregiudicato Bin
Salman non se l’è fatto ripetere, ben contento di ampliare verso un Medioriente
più “orientale” l’influenza del regno. Il principe è atterrato a Islamabad,
ricevuto con tutti gli onori, ha promesso e lanciato offerte. Pakistan e Arabia
Saudita sono due competitori regionali ricchi l’uno demograficamente, l’altro finanziariamente
e hanno un comune denominatore: il fanatismo islamico. Non è un segreto che gli
emiri sauditi finanzino scuole coraniche d’impianto wahhabita in giro per il mondo. E il Pakistan, su questo fronte
abbiente con le sue madrase del radicalismo deobandi,
non avrebbe bisogno d’ulteriori scioccanti impulsi. Ma nel Paese dove la
sfrontatezza politica è, e non da oggi, costume del potere ci si può attendere
ogni mossa. L’esercito pakistano resta un padrone-creatore, però i jihadisti
d’ogni sigla possono continuare i loro giochi e ringraziano la politica
ufficiale.
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