Tempi duri in Egitto anche per la categoria imprenditoriale. Lontanissima
appare l’epoca in cui i magnate potevano riunirsi al Cairo nella 16^ Conferenza
di Businessmen - e con Al-Sisi da poco presidente (2014) - riuscire a pianificare
investimenti e affari. Era la continuità di iniziative che dal 1982 Camere di
Commercio, Industria e Agricoltura di vari Paesi arabi, in collaborazione con
gruppi d’imprenditori proponevano periodicamente al governo. Ma, appunto, il generale
Sisi era solo all’inizio della restaurazione repressiva che, anno dopo anno, ha
prostrato ogni velleità di libero pensiero. Così accade che, oltre a conclamati
oppositori, finiscano in galera anche quegli uomini d’impresa non allineati
alle volontà della casta militare. Il network sui diritti umani Anhri, ricorda
alcune di queste storie d’ordinaria coercizione. L’ingegner Mamdouh Hamza aveva
partecipato alla rivolta del 25 gennaio 2011 ed era schedato dai Servizi di
Sicurezza. Cocciutamente aveva continuato a sostenere posizioni libertarie,
finendo incolpato d’incitazione al terrorismo per aver ‘cinguettato’ suoi
pensieri sul noto social. Aveva preso posizione a favore degli inquilini di
caseggiati dell’isola al-Warraq, a nord del Cairo, che resistevano agli sgomberi
imposti dal regime di Sisi. Per questo è stato colpito da una sentenza
detentiva di sei mesi ed è impossibilitato a viaggiare all’estero. Un altro
ingegnere, Safwan Thabet, re d’un innovativo investimento nel settore
lattiero-caseario, con cui nel 1983 aveva creato l’industria Juhayna Food approdata
a una partnership con la danese Arla Foods, nel 2014 era rientrato in una rosa
di affaristi che sostenevano l’economia del regime di Sisi.
Dopo un primo periodo, foriero di donazioni per il regime, Thabet
venne rimosso dal business nazionale e finì, nientemeno, che in una lista di
terroristi. Tutto era iniziato nell’estate 2015 col sequestro e dei beni della
Fratellanza Musulmana, anche i beni di Thabet finirono requisiti, ma fino ad
allora il nome dell’imprenditore non era mai stato associato alla Confraternita
islamica. A fine dicembre 2020 Thabet è stato arrestato. Due mesi dopo suo
figlio Saif, Ceo della Juhayna, fu interrogato dalla polizia su questioni attinenti
alla posizione paterna. Sebbene Saif non fosse coinvolto in nessuna delle
accuse rivolte al genitore finì in un carcere di massima sicurezza, sottoposto
alla normativa dei 45 giorni di detenzione ripetuti nel tempo, come Patrick
Zaky e tanti altri. In attesa di sapere cosa abbia fatto d’illegale Safwan
Thabet il declino sui mercati della disponibilità produttiva della Juhayna ha
avvantaggiato aziende saudite. Più articolata la posizione di Salah Diab, co-fondatore
nel 2004 del quotidiano Al_Marsi Al-Youm,
giornale d’impronta liberale. Sbattuto sulle prime pagine di altri media, e
soprattutto mostrato dalla tivù di Stato mentre, nel novembre 2015, veniva
arrestato nella sua residenza di Giza. In quell’occasione finì in manette - con
tanto di rilievo nei servizi televisivi - anche il figlio Tawfiq presidente
dell’azienda di famiglia Pico con investimenti nel settore agricolo-alimentare,
immobiliare, energetico e finanziario. Diab padre fu rilasciato grazie
all’esborso d’una copiosa cauzione, l’anno seguente era nuovamente sotto i
riflettori per un ennesimo arresto seguito a una diatriba con un potentato del
Cairo: Mortada Mansour, avvocato e presidente del pluridecorato club calcistico
El-Zamalek. Mansour s’era presentato alle presidenziali egiziane del 2014,
ritirandosi e sostenendo la candidatura del generale Al-Sisi. L’asservimento
gli fu ripagato con un’amicizia particolare col generale e un seggio parlamentare,
mantenuto dal 2015 al 2020. Insomma Diab nella querelle di querele e controquerele per ragioni d’interviste
giornalistiche s’era scelto un osso duro. Eppure i cagnacci abbaiano senza
mordersi e la loro sfida non aveva causato danni al magnate che, pur
condannato, pagando tornava libero.
E’ storia antica e nota che in Egitto anche le precedenti
presidenze, di Sadat e Mubarak, provenienti come Sisi dalla casta militare, si
contornassero di tycoon compiacenti
che, se fedeli al potere e non d’intralcio agli affari di quelle strutture
militari onnipresenti nell’economia del Paese, venivano avvantaggiati con
favori personali. Fra questi chiusure di entrambi gli occhi da parte della
magistratura sulle irregolarità legali, fiscali e d’altro genere compiuti dai “cittadini
di lusso”, vere e proprie dinastie claniste. La tendenza è proseguita. Eppure la svolta repressiva, facilitata
dalla pratica di schiacciare ogni diversificazione del pensiero, ora applica ai
magnati censure che possono portarli finanche in prigione, per quanto spesso
basti congelarne i beni, imporre il ritiro
del passaporto e vietare i viaggi all’estero, impedirne la movimentazione di
capitali o peggio sequestrarli, cancellarne i diritti politici. Misure che
diventano pesanti deterrenti per tenere a bada velleità e personalismi
imprenditoriali. La cosiddetta cospirazione che nuoce all’economia egiziana per
critiche rivolte al governo e per la condivisione di voci sulla corruzione
statale, è l’anticamera per il reato di terrorismo, visto che tale è considerata
“ogni azione che danneggia l’unità
nazionale e l’integrità della società”. I difensori dei diritti umani
osservano come quest’espressione risulti generica e venga indirizzata anche contro
pacifiche idee di dissenso. Ma le autorità politiche e la magistratura continuano
a costruire ad arte accuse per colpire persone, così gli imprenditori o si
piegano o li attende il ricatto della fine dei personali imperi.
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