Pagine

martedì 31 agosto 2021

Fine agosto 2021 a Kabul

L’immagine entra nella Storia, sebbene sia un’ingloriosa storia con la minuscola. L’omino tinto di verde sotto l’effetto ottico del puntatore laser è l’ultimo occupante statunitense che s’invola via. Non un marine qualsiasi, è il generale Chris Donahue, comandante della 82° divisione aviotrasportata, trasportato anche lui, stavolta verso casa. E’ l’icona di vent’anni vissuti male e fatti vivere peggio alla popolazione afghana che nel 2021 si ritrova come venticinque anni prima, coi talebani festanti a governare un Paese disastrato. Ma la versione di Kenneth Mckenzie, capo comando centrale statunitense, pasciuto nel suo faccione e per nulla imbarazzato nella recita dell’ultimo copione, è: “La missione ha assicurato alla giustizia Osama Bin Laden insieme a molti cospiratori di Al Qaeda. Il costo è stato di 2.461 militari e civili americani uccisi e oltre ventimila feriti, inclusi sfortunatamente i tredici marines morti la scorsa settimana…”. Nessun cenno alle 250.000 vittime lasciate sul terreno in un intervento che oscillando fra ‘missione di pace’ e ‘guerra al terrorismo’ ha seminato il terrore e insanguinato quel territorio sino alla vigilia della partenza.
Il raid di domenica scorsa che, nella versione del Pentagono, ha colpito una vettura su cui viaggiavano dei kamikaze ha contestualmente spazzato via dieci civili afghani. Sette erano bambini. Faisal, dieci anni, Farzad, nove, Armin, quattro, Benyamin, tre, Ayat e Sumaya, due ciascuno. Che assieme ai genitori non lasceranno il Paese, su quella terra hanno lasciato la vita. E anche una delle vittime Naseer, trent’anni, ufficiale dell’esercito afghano che aveva il lasciapassare e si sarebbe imbarcato su un C-130 direzione Stati Uniti per un matrimonio, non ce l’ha fatta. Non è rientrato fra i 117.000 evacuati per starsene lontano dalle bombe. Mai dire mai, poiché il viaggio dal territorio in guerra duratura a quello dove la guerra è un simbolo identitario è un percorso incerto, specie se chi deve salvarti vuole mostrare di non essere un perdente. L’eredità mortifera che l’avventura bellica americana si lascia alle spalle si specchia nello sfacelo che ha teorizzato, predisposto, generato. Un’atomica sui sentimenti di trentotto milioni di afghani in esistenza precaria, anche se il generale fluorescente e il replicante del Pentagono pensano di essere uomini e forse eroi.

venerdì 27 agosto 2021

Haqqani, i cuori neri taliban

Sfuggente sotto il suo mantello, e misterioso, Sirajuddin Haqqani, inseguìto da cacciatori di scoop - rilasciò una breve intervista a David Chater per Al Jazeera nel 2010 - e dai cacciatori di taglie - la Cia aveva prezzato la sua testa dieci milioni di dollari - è l’uomo indicato dagli analisti come il conquistatore effettivo di Kabul. Colui che insieme al capo dell’ala militare talebana Yaqoob (comunque vicino al leader Akhunzada e al diplomatico Baradar) ha voluto accelerare i tempi per la presa della capitale. Mettendo a nudo l’affanno statunitense per l’uscita dal Paese, l’assalto agli aerei in pista e in volo, l’ansia di fuggire degli afghani collaboratori degli occidentali, di quelli occidentalizzati, di coloro che pur col cuore infranto lasciano il Paese, o vorrebbero farlo, perché la sola vista dei turbanti e dei loro progetti gli fa accapponare la pelle. Di Sirajuddin che è figlio d’arte, l’arte della guerriglia vera, non sognata e promessa come vagheggia Ahmad Massud, si raccontano le oscillazioni politiche, di leader che è con e contro le stesse persone, che poi sono i compagni d’un islamismo rivisitato in chiave fondamentalista. Ancor più del padre Jalaluddin, ex mujahhedin antisovietico tutto d’un pezzo e lui stesso signore della guerra accanto a Younis Khalis, Sirajuddin vuol mostrare coi fatti d’essere un capo, e i fatti sono azioni di guerra. Nel 2008 si diceva avesse in animo di far fuori il presidente Karzai, progetto inattuato, ma nel suo entrare e uscire dalla Shura di Quetta, prima, durante e dopo la presenza del mullah Omar, c’è da una parte la voglia di protagonismo, dall’altra una sorta di doppiogiochismo personale in linea con quelle frequentazioni che la cosiddetta “Rete di Haqqani” mantiene con l’Inter-Services, l’Intelligence pakistana. 

 

Foraggiati, aiutati dagli 007 di Islamabad, spesso in contrasto con altre strutture militari nazionali, sin dall’origine dialogante con Al Qaeda, il clan Haqqani è non solo la variabile eterodossa per eccellenza della galassia talebana, ma come si suol dire mantiene il piede in più staffe. Se Sirajuddin nei mesi scorsi, per chiudere la partita della conquista del Paese, ha spinto più sull’accelerazione militare in opposizione al dialogante Baradar, nella delegazione di Doha sedeva anche suo fratello, Anas Haqqani, finito anni addietro in carcere e condannato a morte, ma tuttora vivo, vegeto e operante. Per chi? Ufficialmente per i talebani ortodossi, ma i legami col fratello maggiore non sono solo quelli di sangue. Per non dimenticare altri membri di famiglia: lo zio Khalil, il cognato Yahya, e altri elementi della tribù Zadran, attivi in quella terra di nessuno che sono le Fata (le Aree tribali federali), e che spaziano dal nord Waziristan, in terra pakistana,  alla provincia di Paktiya, a sud di Kabul. Signori del territorio, oltre che di guerre e affari. Come ce ne sono altri, ma un clan potente e temibile, responsabile dieci anni addietro dei maggiori attentati afghani (Hotel Intercontinental di Kabul nel 2011, a seguire attacchi all’ambasciata americana, al quartier generale Isaf, al palazzo presidenziale, alla Direzione della sicurezza afghana sempre nella capitale). Per questo gli Haqqani si guadagnarono il marchio di superterroristi da parte della Casa Bianca. Da quando, era il 2015, anche in Afghanistan comparve la sigla Isis con tanto di sangue sparso e morti, s’è cercato di comprendere chi fossero i suoi miliziani. L’ISPK che indica lo Stato Islamico del Khorasan, regione assai vasta, sconfinante in Iran, Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan, ha avuto solo sul suolo afghano azioni di guerriglia, divenute dal 2017 crescenti per un motivo preciso: evidenziare presenza, potenza di fuoco, distruzione, morte soprattutto sui civili. 

 

Mentre i taliban di Quetta continuavano a colpire obiettivi militari e politici afghani, l’ISPK assassinava studentesse, madri e neonati, gente innocentissima e innocua, mostrando non solo folle spregio per la vita, ma rubando scena e spazio agli altri talebani. A mettere mano a ogni sorta d’esplosione, compreso il martirio come ieri ad Abbey Gate, erano talebani dissidenti, del Khorasan appunto, provenienti anche dai gruppi tribali delle Fata. Gli Haqqani sono sospettati di tramare con loro. Così l’orribile attentato che nell’aeroporto di Kabul ha squarciato i corpi di chi era in fila, e le speranze di chi vorrebbe ancora partire, rappresenta un espresso monito ai nuovi padroni del Paese. Non gli statunitensi incapaci pure di governare la fuga. Non i transfughi del vecchio regime, Karzai e Abdullah, che gli uomini di Baradar hanno consultato per tre giorni e poi riposto ai domiciliari. La sfida è lanciata ai pretenziosi turbanti di governo, di potere, di gestione d’uno Stato che non esiste e non si sa se e come costruire, a cominciare dallo spirito di chi dalle città fugge e di chi nei villaggi abbassa lo sguardo e obbedisce, perché dopo la frusta può arrivare il colpo di kalashnikov. Il quadro che si prospetta è addirittura più tragico. E sembra un paradosso, dal momento che ci sono talebani più criminali degli attuali sedicenti vincitori, quest’ultimi devono comprendere se il terreno della sicurezza non gli franerà sotto i piedi. Oppure la guerra per il comando vedrà un secondo atto. Nella destabilizzazione dello stesso possibile Emirato dell’Afghanistan c’è sicuramente - ma può non essere il solo - il cinico vicino pakistano. Se gli Haqqani sono con loro e col rilancio del terrore generalizzato firmato Isis del Khorasan, si scoprirà. Oppure no, come del resto parzialmente celate rimangono le manovre dei molti nemici d’una nazione afghana.

giovedì 26 agosto 2021

Aeroporto Karzai, l’attentato arriva

Che quella folla ammassata, esausta, picchiata dai taliban, selezionata dai militari statunitensi, aiutata secondo l’appartenenza, illusa da chi non può condurla altrove potesse diventare carne da macello lo si diceva da giorni. Le Intelligence, quella americana su tutte, lo ripetevano. E si tirava in ballo anche chi potesse essere l’esecutore dell’attacco, l’Isil del Khorasan, che per due anni aveva guerreggiato indirettamente coi talebani ortodossi, vogliosi di accordi e di potere. Guerreggiato per il controllo dei luoghi, col desiderio di mostrare la propria capacità armata, seminando morte fra la gente. Studentesse, neonati, donne, etnìa hazara coloro che più d’altri sono stati colpiti per impaurire, mostrare come la terra afghana e la sua gente dovessero continuare a soffrire senza vedere pacificazione alcuna. Neppure quella affannosa sotto l’occhio degli studenti coranici, negli ultimi tempi diventati diplomatici. Nell’odierno pomeriggio l’Abbey Gate e il circondario presso il Baron Hotel sono stati teatro di due esplosioni mortali: tredici i morti, oltre sessanta i feriti. Per ora. Perché tragicamente, come in altre occasioni, le vittime possono aumentare. E diventano dopo due ore oltre sessanta con duecento feriti. I medici dell’ospedale di Emergency della capitale, lavorano per salvare vite. Carneficina compiuta tramite due kamikaze che nella calca presente da giorni per la fuga diffusa, sperata, irrealizzabile si sono potuti inserire e “immolare” portandosi dietro l’anima  anche di bambini – non è la prima volta – e diffondere un’angoscia ancor più profonda. Fra gli stessi marines di puttuglia allo scalo Karzai, visto che il Pentagono ha comunicato l'uccisione anche di quattro poi dodici militari Usa. Naturalmente il panico è alle stelle, fra chi cerca amici e parenti spersi, chi teme nuove esplosioni, chi si pone davanti al dilemma se restare lì ad attendere un ipotetico aereo e rischiare di saltare per aria. Questa è l’odierna Kabul: il teatro d’un dramma sedimentato in decenni, con le incognite viste nell’ultimo biennio, fra chi ancora nel sangue si lava le mani volendo dimenticare il passato e le responsabilità, chi cerca un potere che resta instabile e gli irriducibili del jihad su cui vigila la galassia del più cupo fondamentalismo, tutt’altro che sconfitto. Il nuovo assetto che deve occuparsi del futuro immediato – i potenti russi, cinesi, indiani – si terranno alla larga dalla sanguinaria macelleria di queste ore. Restano i disperati della fuga, alla quale neppure i talebani possono garantire la vita. E non perché gliela stiano tranciando con le loro armi…

martedì 24 agosto 2021

Barakzai, la politica, il potere, le donne

In vista lo è sicuramente e non da oggi che riceve l’attenzione di testate occidentali (cfr. La Repubblica - La donna che voleva essere presidente). Shukria Barakzai porta un cognome importante, da casato che ha governato l’Afghanistan per un secolo e mezzo (1823-1973). Nella storia del Paese quella degli avi è la dinastia che successe a quella Durrani. Lei 51 anni, con un nonno paterno inquadrato fra i capi del gruppo etnico dall’altisonante nome e il nonno materno senatore all’epoca del re Zahir Khan ha studiato all’università a Kabul, senza poterla terminare. Era l’epoca della guerra per bande dei Signori della guerra, poi arrivò la “pacificazione” taliban e molta borghesia afghana riparò all’estero. Espulsi i militanti coranici dall’Enduring Freedom di Bush, Shukria pensò fosse l’occasione buona per inserirsi in politica, una carriera che paga ovunque nel mondo. Del resto i princìpi del rilancio della nazione secondo valori democratici costituiva il mantra delle Forze Nato e dei nascenti governi locali. Nel 2003 fu nominata nmembro della Loya Jirga, la grande assemblea del popolo afghano. In quell’assise voleva sostenere i diritti delle donne, come Malalai Joya che in un intervento diretto contro i fondamentalisti lì presenti guadagnò l’espulsione, accanto agli insulti di “comunista” e a varie minacce di morte. In seguito Barakzai ha sostenuto d’averla difesa, impresa peraltro improba e pericolosa. Ma l’anno seguente alle elezioni politiche Shukria c’è e viene eletta nella Wolesi Jirga, mentre Malalai doveva nascondersi per evitare attentati. Non da parte talebana (che comunque non avrebbe sopportato le accuse dell’attivista Joya) ma di certi deputati che Barakzai si ritrovò accanto sugli scranni nel Parlamento formato sotto il primo governo Karzai. Che la deputata faccia della questione femminile uno dei punti del suo impegno politico è visibile nei suoi interventi, quanto tutto ciò sia stato recepito in quasi due decenni di presenza legislativa è, purtroppo, un’altra storia. 

 


Certo, 71 donne su 249 deputati costituiscono una netta minoranza, ma è su questa presenza,  involontariamente o meno, ininfluente che ha viaggiato in questi anni la vulgata della trasformazione dell’Afghanistan. Si ripeteva sino alla nausea che, grazie all’intervento Nato, l’Afganistan rinasceva in tutto, anche riguardo ai diritti femminili. Purtroppo una legge del 2007 contro la violenza sulle donne non ha mai ricevuto – per volontà di Karzai e del fronte fondamentalista interno – il decreto attuativo. Cosicché ben pochi processi per omicidio, stupro, violenze di genere sono stati celebrati, cosa che in questi anni la stampa mainstream, e l’Italia s’era distinta, non ha raccontato. Eppure chi in quel Paese (e torniamo alle Malalai Joya, alle militanti Rawa) questa linea la persegue con coraggio e caparbietà, divulgava simili spiacevoli realtà. Insomma certe deputate degli esecutivi Karzai e Ghani, volenti o nolenti, hanno rappresentato la maschera per forme brutali rimaste inalterate. Barakzai sempre molto attiva, molto presente, ha ricevuto altri incarichi, è stata ambasciatrice in Afghanistan per la Norvegia.  Sicuramente è odiata dal fondamentalismo che nel 2014 l’ha ferita in un attacco a un convoglio sul quale viaggiava. Ma Shukria ha proseguito i suoi impegni. Anche perché nella vita pubblica e in quella privata aveva creato solidi legami con gli affari. Il marito, Abdul Ghafar Daw, dopo il suo ingresso in politica era diventato uno dei dirigenti di Kabul Bank, prima banca privata del Paese. Nel 2011 l’istituto è in bancarotta. Vengono a galla i favori compiuti dalla banca a politici e mafiosi locali con tanto di ammanchi per centinaia di milioni di dollari. A sostenere ruberie e accaparramenti personali verso Mahmood Karzai, uno dei fratelli del presidente Hamid, e del vice presidente nonché signore della guerra Fahim, c’erano il responsabile di Kabul Bank, tal Farnood e alcuni dirigenti, fra cui Daw, mister Barakzai. Lunghi processi, promesse di perseguire i responsabili, alcuni arrestati e poi, alla maniera occidentale, rilasciati, altri riparati all’estero e mai perseguiti. Appena nominato il neo presidente Ghani fece della punizione dei colpevoli una questione d’onore, presto smarrito per via. Prima di quello scandalo la chiacchierata coppia Shukria-Abdul aveva ottenuto altri favori in fatto di rifornimento di carburante agli aeroporti del Paese. Nel caos di questi giorni, davanti allo spettro d’un governo talebano aperto ai potentati degli ultimi vent’anni, una domanda si può rivolgere alla deputata finora bloccata all’aeroporto: per chi e per cosa Barakzai si era candidata alla presidenza del Paese?

lunedì 23 agosto 2021

Resistenza afghana, leoni e cuccioli

Si fa un gran parlare di resistenza afghana, di possibile organizzazione, di necessari aiuti - d’uomini e mezzi - per sbarrare la strada al nuovo regime talebano. Tutto giusto, tutto possibile ma per non scambiare i desideri con semplici velleità non andrebbe dimenticato qualche particolare. Primo. Quanto sta accadendo da metà agosto nel travagliato Paese è il frutto di scelte compiute dalla potenza che ha guidato il ventennio d’irrealizzate trasformazioni socio-politiche e anche militari. Secondo. Un pezzo della diplomazia mondiale (Russia, Cina, India, Pakistan, Iran, Turchia) che ha osservato a Doha e Mosca gli sviluppi di accordi e colloqui valuta l’oggettività dell’attuale situazione al vertice della nazione afghana. Terzo. Per sostenere il corposo flusso di persone che vuole allontanarsi dalla restaurazione talebana alle strutture statali e non dell’Occidente che stanno provvedendo all’evacuazione, potrebbero aggiungersi organismi delle menzionate potenze che approvano il nuovo corso afghano, ma quest’ultimo resta una soluzione condivisa. Sul fronte della presunta resistenza, per ora, è in atto quello che può definirsi un sostegno morale, supportato da prese di posizioni come quella dell’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, di cui il quotidiano La Repubblica riporta un’intervista telefonica. Oggetto dell’attenzione del filosofo non è il manipolo, di cui pure nei mesi scorsi s’è parlato, del ‘comandante spada’ Alipoor che ha organizzato un gruppo realmente armato nel distretto Behsud, nel Maidan Wardak.  La ricerca resistenziale investe il figliolo d’un famoso mujaheddin degli anni Ottanta, poi signore della guerra dei Novanta: Shah Massud. Al di là del noto cognome e dello stesso nome Ahmad, padre e figlio hanno storie molto diverse. Attendersi dall’odierno trentaduenne erede, che fino a un anno fa di tutto s’occupava non certo di guerriglia, zampate da leone come quelle paterne sembra narrazione di fantapolitica. 

 

Oddio nella recente intervista, un’altra gliela fece di persona nel maggio scorso con tanto di foto-ricordo, Lévy insinua vari dubbi. Innanzitutto quelli di trattative per una resa. Cui Massud junior risponde sdegnato: “resa è una parola che non esiste nel mio dizionario”. E sia. Quindi le incertezze nutrite dagli stessi possibili sponsor europei d’una resistenza a sua guida. Ma fra i ricordi paterni, i suoi insegnamenti diretti e i tanti indiretti, il mito vissuto e rimasto intatto nel Panshir e altrove, la chiacchierata funge da sostegno mediatico a qualcosa cui l’ex ragazzo che amerebbe la pace (lo dichiara lui stesso) si trova attaccato addosso. Il suo nome è un richiamo, la sua persona un simbolo, entrambe vengono usate, chi vorrà opporsi con le armi ai taliban potrebbe trovare forza in questa missione che appare impossibile. Finora il figlio di cotanto padre si ritrova al fianco soggetti poco raccomandabili come Amarullah Saleh. Presidente in pectore di quello Stato di fuga incarnato da Ashraf Ghani, ma anche suo collaboratore se non nelle ruberie, certamente nelle angherie rivolte a miliziani e cittadini sospettati tali, dunque anche molti civili senza colpe. Finiti nelle galere dell’Intelligence diretta da Saleh stesso e torturati. Anche sulla santificazione compiuta su Massud padre ci sarebbe da riflettere. Un’esaltazione compiuta non solo dai tajiki, ma da molta propaganda occidentale che ne sosteneva l’abilità guerrigliera. Non ultima la stampa con cui Shah Massud amava conversare, cosa che gli costò la vita con l’attentato organizzato da jihadisti di Qaeda, giunti al suo cospetto con telecamere imbottite d’esplosivo. Accadeva alla vigilia dell’attacco alle Torri Gemelle. Dell’invidiabile carriera di Massud senior, è stato sempre celato il lato oscuro che non lo fa diverso per massacri verso la popolazione afghana durante il quadriennio di guerra civile pre-talebano (1992-96). Anche le sue artiglierie vomitarono bombe sui kabulioti durante l’assedio posto alla capitale da varie fazioni islamiste in lotta per il potere. 

 

Se Hekmatyar si guadagnò il poco invidiabile epiteto di macellaio di Kabul, Massud, Dostum, Sayyaf, Khan non furono meno coinvolti nella guerra di tutti contro tutti che spianò la strada ai turbanti ‘pacificatori’. Però per dare al vero leone del Panshir la fama guadagnata sul campo - nel corso della jihad di resistenza contro l’Armata Rossa - è utile rileggere qualche passo d’un coriaceo inviato di guerra che più volte ne raccolse direttamente i racconti e ne descrisse le gesta: Ettore Mo. “Lo incontrai per la prima volta nell’aprile ’81. Ahmah Shah Massud era già un comandante leggendario dei mujaheddin, lo chiamavano il “Leone del Panshir”. Era la sua valle, ci era nato e vissuto da ragazzo prima di andare a Kabul, dove aveva frequentato il liceo francese e, più tardi, l’università. Era bravo a scuola, anzi brillante. Ma non prese mai la laurea, di architetto, era una testa calda, un carbonaro. Come Gulbuddin Hekmatyar, l’altro ingegnere mancato, e come tanti studenti della buona, media borghesia afghana, non condivideva gli obiettivi del regime socialista e modernamente filosovietico di Daud… Risalendo la valle, che man mano abbandonava i grandi spazi verdi per contrarsi e contorcersi in cupi e angusti camminamenti, si poteva constatare che qui la guerra era stata più intensa e violenta che altrove: più che nelle province di Paktia e Nangarhar, più che la vallata del Kunar o sulle montagne e nei deserti del sud-ovest, dove pure avevo camminato. I relitti, le carcasse di autocarri e autoblindo, carri armati T-54 e T-55 sdraiati sul dorso, pale di elicottero e ponti di ferro montati su camion erano sparpagliati ovunque al margine della strada e sulle scarpate del fiume Panshir: a conferma del prezzo durissimo che gli sciuravì (definizione locale dei sovietici, nda) avevano dovuto pagare, già dai primi tentativi, per la conquista dell’importante bastione strategico a nordest di Kabul…” 

 

La prima volta – disse – i russi ci aggredirono con abbondanza di mezzi corazzati, circa cinquecento tra carri armati e veicoli militari, più una quarantina di elicotteri Gunship Mi-24. Nell’attacco persero la vita cinquecento soldati sovietici: dalla nostra parte, le vittime furono ventotto, di cui solo quattro guerriglieri. Come sempre, fu la popolazione civile a pagare il prezzo più alto. L’insuccesso della prima offensiva consigliò lo stato maggiore dell’Armata Rossa di aumentare uomini e mezzi. E infatti nel secondo attacco, quello estivo, blindati e automezzi erano circa ottocento, mentre era stato ridotto della metà il numero di Mi-24. Ma anche le perdite furono pesanti. Circa tremila i russi e i governativi uccisi, mentre noi abbiamo avuto centocinquanta morti tra i civili e venticinque mujaheddin. La terza offensiva dell’80 fu la più lunga di tutte, prolungandosi nell’81. Gli sciuravì non avevano fatto economie ed erano arrivati a fondo valle con millesettecentocinquanta mezzi corazzati, carri armati, trasporto truppe, autoblindo, camion, trattori, cucine da campo. C’erano in tutto quindicimila soldati, tra sovietici e governativi. I russi persero circa duemila uomini. I nostri martiri furono quindici. Precisa Mo: Quasi certamente, quei conteggi peccavano per eccesso, ma ogni possibilità di verifica era impossibile. I russi non lasciavano mai i loro morti sui campi di battaglia. Raccolti e imballati, venivano riportati in patria nottetempo, nel ventre degli Ilyushin, per evitare che la gente sapesse qual era il costo effettivo della guerra in Afghanistan…. Cerchiamo di avere il minor numero di martiri possibile - disse Massud sempre sorridendo - mentre vorremmo che ce ne fossero tantissmi dall’altra parte. Ma i miei uomini sono preparati, conoscono la tecnica della guerriglia. Dall’anno scorso qui a Bazarak funziona una scuola di addestramento militare, abbinata a corsi di preparazione religiosa e culturale”. Non basta farsi fotografare con un pakol sul capo per assumere il piglio del leone…

sabato 21 agosto 2021

Esuli afghani: il sogno di Karim

Karim parla fra gli altri afghani, in genere uomini, che si sono riuniti stamane in un angolo della romana piazza Esedra. Un centinaio fra singoli e famiglie della comunità afghana della capitale che hanno un punto di ritrovo nel quartiere popolare di Torpignattara. L’assemblea è un momento simbolico, volto a spezzare l’immobilismo e lo stesso individualismo che caratterizza la difficile esistenza del rifugiato o dell’immigrato. Il disprezzo per la riconquista talebana è totale, il desiderio di aiutare i compatrioti è ampio. Seppure accompagnato da una sostanziale impotenza: perché al di là di futuri ‘corridoi umanitari’ essi stessi contingentati, chi oggi trova posto sui voli predisposti dal Ministero degli Esteri e della Difesa italiani, sono i beneficiari d’un lasciapassare concesso solo a chi ha lavorato con le strutture occidentali. La motivazione è esplicita: costoro e i familiari rischiano ritorsioni, si dice già iniziate. Ma gli altri? A chi vorrebbe andar via dal nuovo regime e non può farlo in aereo, restano ancora una volta, come trenta e venti anni or sono, le fughe della speranza simili a quella narrato da Ali Eshani, un ex bambino e poi giovane che la sua vicenda, un viaggio durato tre anni, attraverso Iran, Turchia, Grecia nel cui mare ha perduto il fratello maggiore, l’ha narrata in un libro di successo: Stasera guardiamo le stelle, Feltrinelli. Eccolo il tema dei profughi afghani che in Occidente giungono dai tempi della terribile guerra civile dei primi anni Novanta. Cercare soluzioni individuali: uno su mille ce la fa, come indica la rotta balcanica degli ultimi tempi e chi la segue dappresso come l’associazione Linea d’Ombra di Trieste, che s’è trovata perseguitata dalle leggi vigenti. Gli attivisti Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, sono accusati di ospitare clandestini. Lì dove gli afghani sono più numerosi: in Francia, di cui l’Office Français de protection des rèfugiés et apatrides offre dati che li indicano quale maggiore comunità beneficiaria di diritto d’asilo (oltre 33.000 presenze), mentre problemi di sistemazione logistica e lavorativa si risolvono pure, quelli sul futuro dell’agognato Paese restano marchiati dal passato.
Unificare, anche solo nel pensiero, gli afghani di Francia appare difficile, racconta un reportage apparso su Le Monde. Pashtun, hazara, uzbeki, tajiki se non si guardano in cagnesco anche all’estero, certo non s’aiutano. “E’ anche peggio che laggiù. Perché in terra afghana, vivendo nella propria comunità, dovevamo andare d’accordo per proseguire. Qui si fanno vite separate. Se vi recate in un’associazione tajika vedrete l’immagine di Massud (ex signore della guerra venerato come un eroe da quell’etnìa). Così presso gli hazara… Dividerci per regnare è il progetto talebano, ben riuscito nel loro scopo”. Del resto l’ipotetica situazione d’una resistenza nel Panshir - col figlio dell’ex combattente detto leone, che accorpa anche rottami dello Stato fantoccio crollato, nella persona del vicepresidente Saleh, ex responsabile dell’Intelligence e responsabile di trattamenti nient’affatto benevoli per i prigionieri talebani e non - potrebbe far rientrare da certe finestre soluzioni di guerra civile che gli accordi di “pacificazione” volevano escludere. Quanto poi a firmarli coi taliban è frutto del cinismo geopolitico, ma questo è accaduto. Ed è su questa cruda realtà che sogno di Karim rischia d’infrangersi. Lui sostiene che “La strada per essere un popolo non è intrapresa da decenni. C’è stata un’opposizione dei mujaheddin all’invasione russa, una talebana a quella della Nato. C’è stato un conflitto fra i signori della guerra e un primo regime taliban, nessuno era interessato a dare una dimensione comune alla popolazione. Né l’hanno fatto i governi degli ultimi vent’anni. Il popolo ha subìto questi disegni, ha pagato con la vita e la fuga certe imposizioni. Vivo in Italia da alcuni anni, ma sogno una nazione unita e pacificata dove vorrei tornare e come me tanti rifugiati. Dovremmo avere a disposizione le risorse, che esistono nel nostro Paese tantoché vengono sfruttate da altri, dovremmo poter gestire una rinascita che solo noi uomini e donne dell’Afghanistan potremo realizzare. Certo senza i taliban e il ceto politico che ci ha ridotti alla miseria. Spero nei ritorni, non nelle fughe dal nostro Paese”.

giovedì 19 agosto 2021

Afghanistan, issare una bandiera infangata

Fanno più male le promesse di Zabihullah Mujahid, su cui molti afghani, ancor più se donne, storcono il naso o l’addio del presidente Ghani che prima di squagliarsela s’è autoincensato ancora una volta come statista, sostenendo che quella partenza serviva a evitare martiri e la distruzione di Kabul? Indubbiamente entrambi, specie se il sangue inizia a scorrere, non solo nella caotica illusione di fuga dell’aeroporto di Kabul, ma per rivolte di strada come a Jalalabad, inseguendo la speranza simbolica d’una bandiera. In tanti temono l’Afghanistan del futuro, ma quello recente si palesa con tutto lo sfregio alla popolazione provocato da un sedicente ceto politico. Se dei ragazzi si fanno ammazzare nello spontaneistico desiderio d’issare la bandiera afghana perché rigettano lo stendardo talebano, chi ha infangato quella bandiera ha la spocchia di parlare tuttora della nazione. Il tecnocrate formato dalla Banca Mondiale ha portato con sé negli Emirati Arabi un gruppone di duecento yesmen e diverse casse di denaro. Centosessantanove milioni di dollari si dice. Lui ovviamente nega. Aveva imparato a manipolare la politica dai suoi mentori che l’hanno spinto, promosso e sostenuto alla carica anche con le armi, quando nelle presidenziali del 2009 la vittoria risultava pesantemente macchiata da brogli. Abdullah, l’avversario, riceveva l’appoggio d’un copioso numero di signori della guerra che gli avevano garantito voti a fiumi. Però la Commissione Elettorale assegnò il successo allo “studioso” della Columbia University, ritenuto dallo sponsor americano più presentabile per la farsa geopolitica messa in atto. Si trattava pur sempre d’un presidente-fantoccio, come il predecessore, ma l’aria di esperto di finanza e le velleità intellettuali lo facevano vendere bene agli occhi della comunità internazionale, anche quella che partecipava alla Isaf Mission e sborsava denaro per gli aiuti al Paese. Abdullah non voleva far la figura del raggirato e mise all’erta le bande dei Warlords, pronte ad agire di kalashnikov e granate. 

 

Fecero da pacieri Karzai stesso, che con quest’ultimi aveva confidenza  non foss’altro per averne insigniti alcuni con cariche di governo, e la Cia che usò suoi reparti speciali a protezione del presidente prescelto. Costui, dopo un avvìo senza enfasi, iniziò a calarsi nel ruolo e a ben giostrare affari propri in quelli della nazione. Del resto aveva visto all’opera Karzai, clanista che faceva proteggere il business del fratello narcotrafficante dalle stesse Intelligence occidentali presenti in loco. Ghani però non aveva le entrature del gruppo Popalzay, brigava più nei Palazzi delle multinazionali interessate agli affari sul sottosuolo. S’impegnò molto per il progetto dell’oleodotto Tapi: 500 milioni di dollari l’anno per diritto di passaggio sui settecento km di tubi in suolo afghano, in un percorso che dal Turkmenistan deve portare gas all’India. Da quegli introiti, come per i contratti sottoscritti anni prima da Karzai con la cinese China Metallurgical Group Corporation, potevano scaturire consistenti storni di denaro sui conti privati presidenziali. Questo furbetto vanaglorioso s’ingegnava a scrivere con la mano destra Correzione dello Stato fallito (è un suo saggio) mentre allungava l’altra sugli aiuti internazionali, costretto a spartirli coi boss della guerra e degli affari che, a seguito del primo incidente sull’elezione, aveva imparato controvoglia a ingraziarsi. Da alcuni, l’orso uzbeko Dostum, ha ricevuto i servigi armati fino a quando  l’ex generale è rimasto sobrio e non è dovuto riparare all’estero dopo stupri e risse fra clan. Iracondo, pettegolo, ma anche introverso o fintamente populista, quando veste abiti della tradizione locale nei quali compare come una maschera carnascialesca, Ghani ha gestito male anche gli ultimi mesi del disfacimento. Ha scontentato militari nelle caserme e civili nel Palazzo, rimpiazzando competenze con personaggi servili. Ha permesso che proseguisse la stessa corruzione che al primo insediamento aveva annunciato di combattere. E’ questo ceto che i giovani afghani in rivolta dovrebbero ricordare sollevando la bandiera d’uno Stato che non c’è. 

martedì 17 agosto 2021

Le rassicurazioni talebane in conferenza stampa


Il suolo afghano non verrà usato da nessuno, lo assicuriamo alla comunità internazionale” ha risposto tranquillizzante Zabihullah Mujahid, portavoce talebano, durante la prima conferenza stampa organizzata a Kabul e trasmessa dall’emittente Al Jazeera. La domanda sui foreign fighteirs era una delle questioni calde poste dai giornalisti, in totalità uomini, all’esponente del nuovo potere afghano. Il suo esordio era stato enfatico “Dopo vent’anni di lotta abbiamo emancipato il Paese ed espulso gli stranieri. E’ un momento d’orgoglio per l’intera nazione”. Seguito da uno stabilizzante “Vogliamo rendere sicuro il Paese che non è più un campo di battaglia. Abbiamo perdonato chi ha combattuto contro di noi, l’animosità è finita. Non cerchiamo nemici esterni e interni”. “Non volevamo il caos a Kabul, ci siamo fermati alle porte della città. Le Forze Armate del precedente governo non avrebbero garantito la sicurezza. L’abbiamo fatto noi per la città e i residenti”. Ribadendo la volontà di lavorare per una nazione unita, la voce ufficiale degli studenti coranici ha ribadito la volontà di amnistia verso chi ha lavorato per l’amministrazione precedente e anche per chi ha combattuto contro le milizie dei suoi fratelli. E ancora due rassicurazioni per la Comunità internazionale “Nessuno di loro sarà danneggiato, non vogliamo avere questioni con la comunità internazionale”. Ricordando comunque “Noi afghani abbiamo diritto di seguire i nostri princìpi religiosi. Altri Paesi hanno un approccio diverso con le loro leggi, gli afghani hanno norme in accordo ai propri valori”. A una specifica domanda sui diritti delle donne, promette vagamente che s’impegnano a difesa dei medesimi all’interno del sistema della Shari’a. 

 

 “Le donne lavoreranno spalla a spalla con noi. Assicuriamo la comunità internazionale che non saranno discriminate”. Mujahid rasserenante anche nei confronti dei media, specie se questi non contrasteranno i valori islamici. Segue un’esortazione lasciata cadere come un monito “Voi nei media dovreste prestare attenzione alle carenze, in modo da poter servire la nazione”. E un più inquietante “I media non dovrebbero ostacolare il nostro lavoro, dovrebbero contribuire all’unità del Paese”. Dopo il monito la carezza ai media privati continueranno il loro lavoro indipendente”. Quindi un assist al lavoro delle giornaliste “Stiamo permettendo il lavoro delle donne in tali strutture”, lo si era visto nelle ore precedenti con l’accettazione  da parte di un altro esponente taliban al cospetto di una cronista negli studi di Tolo tv. Accanto a un perdono generalizzato per prospettare un costruttivo futuro di pace il portavoce lancia un laconico “Dopo la formazione d’un nuovo governo, ogni cosa apparirà più chiara. Stiamo già al lavoro per quest’obiettivo, intanto abbiamo messo al sicuro i confini nazionali”. Fra le domande c’è un riferimento al precedente governo talebano. La risposta è: “Il nostro Paese è musulmano, lo era e lo è. Ovviamente c’è un’enorme differenza fra l’attualità e il nostro  passato. C’è stato un processo di evoluzione”. L’invito alla cittadinanza è quello di non lasciare il Paese “Noi garantiamo la massima sicurezza giorno per giorno, nessuno rapirà nessuno”.

domenica 15 agosto 2021

L’orgoglio talebano fra rassegnazione e paura

Fra le immagini festanti dei barbuti con giberna pronti a sorridere a ragazzini ignari e incuriositi e le foto impostate, scattate dentro il Palazzo presidenziale per un’intervista concessa ad Al Jazeera, proprio lì dove fino a una manciata d’ore prima si pavoneggiava Ghani sperando in una clemenza mai arrivata, c’è il realismo della Storia. Che preannuncia gli eventi anche a chi non vuole vederli, a chi spera di poter continuare a falsare e barare. Ghani era uno di questi e la pellaccia, per ora, l’ha messa al sicuro, ma la gente d’Afghanistan d’ogni sponda vaga sbandata. Coloro che sanno di rischiare per aver collaborato con l’Occidente in smobilitazione. Coloro che non hanno motivi di rischio, ma non si sa mai, poiché essere giornalista, fotografo, interprete soprattutto se non disposto a fare il servitore d’ogni vincitore è un ruolo d’ostica accettazione. Gli artisti, che non saranno molti, ma fra l’ultima generazione sono aumentati e che potrebbero non essere graditi al Gotha talebano. E figurarsi il genere femminile in toto, e le cooperanti locali che si relazionano a quelle d’altri Paesi, le attiviste dei diritti, quelle come Malalai Joya bollate di ‘comunismo’ dai fondamentalisti della Loya Jirga di Karzai non dai talebani. Tutti, tutte queste persone che futuro avranno? I turbanti, che all’esordio davanti alle telecamere, nella Kabul città aperta al proprio orgoglio di vincitori, si mostrano concilianti, disponibili ad amnistiare, a dimenticare pur di comandare, vorranno dettar legge secondo i mai negati princìpi della Shari’a. Tutto ciò destabilizza chi vorrebbe prendere un aereo e non potrà farlo, forse anche chi, come le attiviste Rawa, che con guerre e i suoi Signori, con le occupazione si rapportano dagli anni Settanta, hanno giurato a se stesse di vivere in quelle valli. E i molto più numerosi orientati verso confini per il momento chiusi o ancora più lontano, dove si sono rifugiati parenti e amici, che potrebbero raggiungerli solo disponendo d'un bel pugno di dollari. Ma le cronache dicono che da due giorni le carte elettroniche sono fuori uso, non si ritira più denaro, le due maggiori banche paiono prosciugate.

 

Così le partenze, singole o di gruppo, diventano quasi impossibili, anche per questo serviranno aiuti umanitari. Ma se dovessero giungere nuovi sostegni, dopo le centinaia di miliardi scivolati a fiumi per due decenni, finendo sui conti e nelle tasche dei potentati volati via e di quelli che restano cercando aggiustamenti coi governanti nuovi, chi disporrà cosa? E’ presto per rispondere. Eppure queste incertezze hanno sedimentato a lungo, incistate in quel tempo dilatato dove troppi hanno tirato a campare, pur indegnamente. E non parliamo della gente lasciata in miseria, abbandonata a un destino sorretto solo dal cuore di progetti, magari piccoli ma visibili, come gli ospedali di Emergency e Médecins sans Frontières, le scuole di Afceco, i rifugi per donne di Hawca. Parliamo dei trecentomila finiti a vestire la divisa dell’esercito perché la famiglia potesse mangiare. Dei contadini pronti a coltivare il papavero da oppio per il medesimo motivo, di chi poteva spacciare solo carbone e miseri stracci per via, di chi strappava un salario al servizio delle bande presenti nei governi voluti dall’Occidente. In un sedicente Stato fallito, dove ciascuno arrangiava l’esistenza chiudendo gli occhi coinvolto nella corruzione, da spettatore o da attore. Per una sopravvivenza strascinata senza dignità, seguendo il modello che doveva rappresentare l’alternativa al fondamentalismo talebano del quinquennio 1996-2001. Tutto ciò ha rappresentato finzione e ignavia. Al più un sogno, che mese dopo mese, da troppi anni aveva il sapore del bluff. Poggiano su questo lo straniamento, la paura, il non senso d’una vita senza valori, dove solo i più illuminati, anzi le più visionarie e coraggiose, le donne delle Ong incontrate in certe situazioni complicate, hanno indicato concretamente una via alternativa. Non eserciti preconfezionati e liquefatti, anche perché tenuti a mezzo servizio fra padrini e tutori, non pianificazioni che non hanno seguito, ma la ricerca d’una comunità improntata sul senso di giustizia sociale può offrire fiducia a un popolo rassegnato e impaurito.

Kabul è talebana

Torna talebana Kabul, prima di quanto ci si aspettasse. In un giorno e una notte, con la presa di Mazar-i Sharif a nord e Jalalabad a est, tutti ma proprio tutti i collegamenti per entrare e uscire dal Paese sono controllati dagli studenti coranici. L’ingresso nella capitale è un gioco da ragazzi: la via s’è spalancata senza premere alcun grilletto perché prima dell’Afghan Security Forces, da settimane in totale dissolvimento, s’è dissolto l’ectoplasma statale. I turbanti non incontreranno Ashraf Ghani neppure da stravincitori, l’uomo della Banca Mondiale, a scanso d’equivoci, ha trattato per interposta persona la sua partenza ed è riparato in Tajikistan. Ha investito il ministro della difesa Bismillah Mohammadi di trattare con le milizie dei guerriglieri che dilagano in una città caotica e attonita. Tramite i propri portavoce l’orientamento dei nuovi padroni è conciliante. Chiedono alla cittadinanza che vuole restare di registrarsi presso postazioni che stanno predisponendo. Promettono di non praticare vendette verso i militari arresi, molti dei quali già da settimane hanno consegnato loro armi e mezzi. Sostengono che la popolazione che vorrà lasciare il Paese è libera di farlo, pure coloro che hanno collaborato con la precedente amministrazione e con le truppe Nato. Non spiegano come un flusso, che già ha visto mezzo milione di sfollati concentrarsi in alcuni punti della capitale e che potrebbe diventare ancora più copioso, potrà muoversi e per dove. 

 

Insomma il meditativo e conciliante Akhundzada, il diplomatico Baradar, il militare Yaqoob - che hanno pazientemente tessuto trattative, attacchi e lusinghe a chi vedeva l’orizzonte ormai riempito dai vessilli d’un nuovo Emirato - hanno avuto la meglio sui tentativi di difesa governativi. Anche quelli della disperazione che cooptavano nuovi e vecchi combattenti. Miliziette d’accatto in certe periferie, Nangarhar e altrove, o quelle d’un Dostum prima fuggitivo dalla sua Sheberghan quindi a Kabul e Mazar-i Sharif per poi sparire nel nulla, mentre Khan che appare in alcune foto circondato da taliban sembra già un trofeo di guerra. Trofeo imbalsamato, non solo per la veneranda età, di un’ultima guerra non combattuta, visto che né militari di provincia e miliziani warlords né studenti coranici hanno voglia di spararsi addosso. A quest’ultimi non sembra vero che l’accelerazione delle ultime ore gli consegni la capitale, dovranno certamente dibattere su quale governo mettere in piedi, se di coalizione coi cascami di nome Mohammadi, Abdullah, Saleh in condizione subordinata. O se proclamare subito l’Emirato, che vecchi fondamentalisti come appunto Khan e Mohaqqiq, Hekmatyar sposeranno senza riserve, anche per garantirsi scampoli di manovra. Forse per non spiazzare l’anticipata presa del potere l’ipotesi della coalizione, direttamente e strettamente controllata, può rassicurare i molti che comunque se ne vanno, gran parte delle ambasciate occidentali tutte prese nell’affanno del trasloco, e chi invece resta. Fra costoro i russi che coi talebani hanno discusso quanto gli americani, nella trattativa parallela di Mosca cui hanno preso parte altri grandi: Cina, India, Iran, Pakistan. Le ultime due nazioni si preoccupano soprattutto dei flussi migratori che inevitabilmente li investiranno. Pechino cerca dai talebani rassicurazioni per la propria attività mercantile. La Russia osserva sorniona. La partita del nuovo Afghanistan è iniziata, un mese prima dell’11 settembre.

venerdì 13 agosto 2021

Muore Strada, l’uomo che curava i talebani

Vola via Gino Strada, l’uomo che curava anche i talebani. Accade mentre le nuove leve del fondamentalismo preparano il ritorno a Kabul, le circostanze della Storia s’incrociano fortuitamente, talvolta fatalmente. Il fondatore dell’Ong Emergency era in Afghanistan con due centri chirurgici per vittime di guerra, a Kabul e Lashkar-gah, dal 1999. Quindi avviò una maternità nella valle del Panshir, più una rete d’oltre quaranta centri di primo soccorso.  Precedentemente, fra il 1989 e il 1994, il medico chirurgo di Sesto san Giovanni aveva lavorato con la Croce Rossa internazionale in diversi teatri di conflitto: Pakistan, Afghanistan, Perù, Etiopia, Somalia, Bosnia. Affermava: “Non si può umanizzare la guerra, si può solo abolirla”. Perciò i sostenitori delle ‘missioni di pace’ che vestono la divisa oppure gli abiti borghesi da deputato, poco lo sopportavano. Perché non le mandava a dire, lui diceva. E soprattutto faceva. Raccogliendo fondi e creando ospedali, quello che qualsiasi Esecutivo deliberante e Parlamento finanziatore non hanno fatto, ad esempio, in vent’anni di “democratizzazione” dell’Afghanistan. Il princìpio che contraddistingue l’impegno di Emergency - e di Médecins sans Frontières - sui contesi territori afghani è curarne i feriti, d’ogni provenienza. In molti casi costoro non sono schierati con alcun contendente, è gente comune. Per l’ennesima occasione i dati diffusi negli ultimi giorni dall’Ong italiana ribadiscono che nei primi mesi dell’anno le proprie strutture ospedaliere in loco hanno ricoverato 1853 civili colpiti su fronti di battaglia. Il 200% in più d’un decennio fa, quando il conflitto era all’acme.

 


Cosa accadrà a questi centri, ora che la cronaca afghana preannuncia un cambiamento al vertice favorevole agli “studenti coranici”, non è dato sapere. Seppure aver prestato soccorso e salvato le vite di tutti, degli stessi miliziani, ha contribuito a diffondere rispetto e considerazione a quella che risulta una vera azione umanitaria, condotta con medici e infermieri non con truppe in mimetica. Se fra le ipotesi d’un futuro che è cronaca quotidiana, la conquista talebana del potere centrale avverrà senza uno scontro civile, le vittime di guerra potrebbero diminuire. Certo, seguiranno ben altri problemi riguardo a violenze, vessazioni, torture. Per quanto si sta osservando in queste ore l’emergenza umanitaria già in atto riguarda la gigantesca fuga di cittadini. Verso le frontiere pakistana e iraniana e dentro la stessa nazione in dissoluzione. Dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu si calcola un’ipotetica migrazione della metà del popolo afghano: diciotto milioni di persone. Un numero incontenibile per qualsiasi accoglienza. Attiviste di talune Ong afghane, con cui è in contatto la Onlus italiana Cisda (che sul suo sito dà indicazioni per una raccolta di fondi a sostegno di quest’emergenza), in queste giornate drammatiche si danno un gran daffare. 

 

Prestano aiuto al gran numero di sfollati di varie province riparati nel parco Azadi della capitale. I bisogni primari riguardano anche il cibo, perché molti nuclei sono fuggiti abbandonando anche quel poco che possedevano nelle campagne, capre, qualche scorta alimentare. Spesso restano accampati all’aperto, oppure si riparano sotto tende di fortuna, lasciando spazio a vecchi e bambini per evitargli il sole cocente delle ore centrali del giorno. La voce d’una profuga da Herat ricorda che anche in queste fasi disperate alcuni soccorritori governativi arrivati nella città sul confine occidentale: “parlavano, facevano promesse, scattavano foto e se e andavano”. Perciò lei è fuggita con la numerosa famiglia prima che i taliban prendessero la città. Ma la calca di gente in alcuni punti di Kabul diventa sempre più asfissiante. L’assistenza è assente, c’è solo la buona volontà di militanti democratici, come il nucleo del partito Hambastagi e looali Ong. Il presidente Ghani, che a Biden ha richiesto bombardieri e denaro, forse riceverà i primi e non farà in tempo a incassare il secondo, perché la sua caduta è una questione di settimane, addirittura di giorni. Chi può fugge, ma la massa non potrà farlo, anzi è già in atto la sregolata rincorsa per agguantare l’aereo degli ultimi traslochi a ovest, da parte di chi ha servito gli occupanti e, dunque, teme per la vita. Chi pensava a un ritiro da Kabul, disonorevole ma ordinato, dovrà ricredersi. La fuga della presunzione può trasformarsi in una rotta simile a quella andata in scena nel 1975 a Saigon. I tanti, che inevitabilmente saranno costretti a restare, potranno solo sperare in nuovi Gino Strada, poiché purtroppo le guerre non mancheranno.  Su ogni fronte c’è chi non vuole abolirle.

mercoledì 11 agosto 2021

Egitto, il regime che ricatta l’impresa

Tempi duri in Egitto anche per la categoria imprenditoriale. Lontanissima appare l’epoca in cui i magnate potevano riunirsi al Cairo nella 16^ Conferenza di Businessmen - e con Al-Sisi da poco presidente (2014) - riuscire a pianificare investimenti e affari. Era la continuità di iniziative che dal 1982 Camere di Commercio, Industria e Agricoltura di vari Paesi arabi, in collaborazione con gruppi d’imprenditori proponevano periodicamente al governo. Ma, appunto, il generale Sisi era solo all’inizio della restaurazione repressiva che, anno dopo anno, ha prostrato ogni velleità di libero pensiero. Così accade che, oltre a conclamati oppositori, finiscano in galera anche quegli uomini d’impresa non allineati alle volontà della casta militare. Il network sui diritti umani Anhri, ricorda alcune di queste storie d’ordinaria coercizione. L’ingegner Mamdouh Hamza aveva partecipato alla rivolta del 25 gennaio 2011 ed era schedato dai Servizi di Sicurezza. Cocciutamente aveva continuato a sostenere posizioni libertarie, finendo incolpato d’incitazione al terrorismo per aver ‘cinguettato’ suoi pensieri sul noto social. Aveva preso posizione a favore degli inquilini di caseggiati dell’isola al-Warraq, a nord del Cairo, che resistevano agli sgomberi imposti dal regime di Sisi. Per questo è stato colpito da una sentenza detentiva di sei mesi ed è impossibilitato a viaggiare all’estero. Un altro ingegnere, Safwan Thabet, re d’un innovativo investimento nel settore lattiero-caseario, con cui nel 1983 aveva creato l’industria Juhayna Food approdata a una partnership con la danese Arla Foods, nel 2014 era rientrato in una rosa di affaristi che sostenevano l’economia del regime di Sisi. 

 

Dopo un primo periodo, foriero di donazioni per il regime, Thabet venne rimosso dal business nazionale e finì, nientemeno, che in una lista di terroristi. Tutto era iniziato nell’estate 2015 col sequestro e dei beni della Fratellanza Musulmana, anche i beni di Thabet finirono requisiti, ma fino ad allora il nome dell’imprenditore non era mai stato associato alla Confraternita islamica. A fine dicembre 2020 Thabet è stato arrestato. Due mesi dopo suo figlio Saif, Ceo della Juhayna, fu interrogato dalla polizia su questioni attinenti alla posizione paterna. Sebbene Saif non fosse coinvolto in nessuna delle accuse rivolte al genitore finì in un carcere di massima sicurezza, sottoposto alla normativa dei 45 giorni di detenzione ripetuti nel tempo, come Patrick Zaky e tanti altri. In attesa di sapere cosa abbia fatto d’illegale Safwan Thabet il declino sui mercati della disponibilità produttiva della Juhayna ha avvantaggiato aziende saudite. Più articolata la posizione di Salah Diab, co-fondatore nel 2004 del quotidiano Al_Marsi Al-Youm, giornale d’impronta liberale. Sbattuto sulle prime pagine di altri media, e soprattutto mostrato dalla tivù di Stato mentre, nel novembre 2015, veniva arrestato nella sua residenza di Giza. In quell’occasione finì in manette - con tanto di rilievo nei servizi televisivi - anche il figlio Tawfiq presidente dell’azienda di famiglia Pico con investimenti nel settore agricolo-alimentare, immobiliare, energetico e finanziario. Diab padre fu rilasciato grazie all’esborso d’una copiosa cauzione, l’anno seguente era nuovamente sotto i riflettori per un ennesimo arresto seguito a una diatriba con un potentato del Cairo: Mortada Mansour, avvocato e presidente del pluridecorato club calcistico El-Zamalek. Mansour s’era presentato alle presidenziali egiziane del 2014, ritirandosi e sostenendo la candidatura del generale Al-Sisi. L’asservimento gli fu ripagato con un’amicizia particolare col generale e un seggio parlamentare, mantenuto dal 2015 al 2020. Insomma Diab nella querelle di querele e controquerele per ragioni d’interviste giornalistiche s’era scelto un osso duro. Eppure i cagnacci abbaiano senza mordersi e la loro sfida non aveva causato danni al magnate che, pur condannato, pagando tornava libero. 

 

E’ storia antica e nota che in Egitto anche le precedenti presidenze, di Sadat e Mubarak, provenienti come Sisi dalla casta militare, si contornassero di tycoon compiacenti che, se fedeli al potere e non d’intralcio agli affari di quelle strutture militari onnipresenti nell’economia del Paese, venivano avvantaggiati con favori personali. Fra questi chiusure di entrambi gli occhi da parte della magistratura sulle irregolarità legali, fiscali e d’altro genere compiuti dai “cittadini di lusso”, vere e proprie dinastie claniste. La tendenza è proseguita. Eppure la svolta repressiva, facilitata dalla pratica di schiacciare ogni diversificazione del pensiero, ora applica ai magnati censure che possono portarli finanche in prigione, per quanto spesso basti  congelarne i beni, imporre il ritiro del passaporto e vietare i viaggi all’estero, impedirne la movimentazione di capitali o peggio sequestrarli, cancellarne i diritti politici. Misure che diventano pesanti deterrenti per tenere a bada velleità e personalismi imprenditoriali. La cosiddetta cospirazione che nuoce all’economia egiziana per critiche rivolte al governo e per la condivisione di voci sulla corruzione statale, è l’anticamera per il reato di terrorismo, visto che tale è considerata “ogni azione che danneggia l’unità nazionale e l’integrità della società”. I difensori dei diritti umani osservano come quest’espressione risulti generica e venga indirizzata anche contro pacifiche idee di dissenso. Ma le autorità politiche e la magistratura continuano a costruire ad arte accuse per colpire persone, così gli imprenditori o si piegano o li attende il ricatto della fine dei personali imperi.