Cosa dice la bomba che stamane ha colpito un bus sulla via di
scorrimento fra Kandahar ed Herat? Intima a chiunque di restare dov’è, di non
viaggiare e neppure transitare, pena la morte. Quella che hanno subìto
soprattutto donne e bambini che erano sul mezzo e che sono crepati in
trentaquattro. Finora, perché si contano feriti gravissimi sia fra i
passeggeri, sia fra i disgraziati che al momento dell’esplosione erano per via.
Tutti investiti dalla potentissima deflagrazione, tutti inghiottiti nel buco
nero della morte certa che lancia il messaggio di dissuadere decine di migliaia
di afghani da qualsivoglia movimento. Chi vuole tutto ciò sono i talebani, i
dialoganti di Doha e Mosca, i dissidenti che si firmano Stato Islamico del Levante
che non cercano colloqui ma esaltano il terrore. Via ripresa dagli stessi
studenti coranici ortodossi il cui credo è rendere impossibile ogni scelta
politica senza una propria investitura priva di contropartite. Gli attentati afghani,
hanno rilanciato il ritmo sanguinoso e asfissiante di diciotto mesi fa, quando
i due schieramenti jihadisti si scontravano a distanza per dimostrare chi fosse
il più efficacemente sanguinario. A pagarne le spese i civili, quelli che i
turbanti d’ogni tendenza dicono di voler liberare dall’occupazione statunitense
e dai soprusi del governo fantoccio di Ghani, per imporre le proprie volontà,
né più né meno quelle del quinquennio 1996-2001.
Eppure i taliban sono cambiati; certo sono più
efficienti, più tattici, maggiormente pieni del proprio delirio d’onnipotenza
perché sanno d’essere apprezzati da molte sponde politiche e della “sicurezza”.
Le Intelligence pakistana e americana continuano, secondo le convenienze, a
foraggiarli e cacciarli. I turbanti restituiscono la pariglia: parlano e
sparlano, combattendo e adattandosi a una guerra sporchissima per il potere.
Purtroppo mietono vittime, come ma non più di altre componenti, lo dichiara
dati alla mano l’agenzia Onu Unama, che ieri, come ogni anno, ha diffuso il
computo dei “danni collaterali” provocati finora. Sono stati uccisi 1.366
civili, il 52% dalle forze filogovernative, il 39% da soggetti che a esse
s’oppongono, mentre per un 9% la responsabilità rimbalza dalle une alle altre.
I lutti nelle famiglie afghane restano costanti dal 2013 (anche allora un
presidente Usa, Obama, parlava di ritiro delle truppe, ma ritiro totale non c’è
mai stato). E quindi 1.615, 1.644, 1.672 assassini, col record di 1.729 l’anno
scorso. La tendenza attuale può produrre un aumento, come del resto c’è fra i
feriti che da tre anni superano le seimila unità. Molti di costoro rimarranno
invalidi, anche in tenera età. Potranno forse ricevere il conforto delle
protesi che da tre decenni lo staff del dottor Alberto Cairo produce apportando
migliorie tecniche sempre più spiccate.
Ma è una consolazione magrissima poiché molti di questi giovani non
riusciranno a svolgere un lavoro, ad avere una vita normale, visto che di
normale in Afghanistan c’è solo la guerra imposta dalla geopolitica mondiale.
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