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giovedì 28 marzo 2019

Qatar, carcerieri e prigionieri dialogano sul futuro afghano


A Doha, nel dialogare fitto o centellinar parole, si ritrovano faccia a faccia anche soggetti finiti in ruoli contrapposti. Se non sono diretti carcerieri certi rappresentanti statunitensi conoscono a menadito le storie dei signori Mohammad Fazl, Abdul Haq Waziq, Mohammed Nabi, Mullah Khairkhwa e Mullah Noori. Tutti passati per Guantanamo da detenuti, in genere catturati con ‘extraordinary rendition’ e trasportati come pacchi: legati, bendati, fasciati, addirittura arrotolati dentro tappeti. Il gruppo venne rilasciato nel 2014, quando il presidente Obama vendette alla sua America il gran gesto del ritorno a casa del sergente Bergdahl. Questo soldato, rimasto prigioniero per anni della rete di Haqqani, venne scambiato coi cinque, talebani di gran calibro che ora siedono al tavolo della trattative assieme al mediatore Khalilzad, a generali  e agenti della Cia. Quest’ultimi ben conoscono gli umori dei capi talib, essi stessi responsabili militari oppure dell’Intelligence, gente che aveva resistito alla ‘cura’ praticata nel supercarcere cubano, che non tralasciava ogni sorta di tortura. Alcuni erano vicini a pezzi da Novanta di Qaeda e vennero perseguitati per questo.

Ma in geopolitica il passato ha un valore relativo, e la linea statunitense in Medioriente risulta da tempo pragmatica ben oltre il cinismo. I turbanti non sono da meno, così il confronto è paritario. Non sappiamo se gli ex detenuti di Guantanamo che da un mese s’alternano al tavolo delle trattative per l’Afghanistan siano lì per proposta dell’uno o dell’altro fronte. Azzardiamo l’ipotesi che i loro compari li abbiano proposti per l’antico prestigio e l’affinata conoscenza del modo di operare degli interlocutori. Mentre quest’ultimi, proprio grazie a simili presenze che valutano più disponibili dopo il ‘regalo della liberazione’, cercano di conseguire uno degli obiettivi considerati irrinunciabili: impedire che nel Paese si ricrei qualsiasi base jihadista modello Qaeda. Finora i taliban hanno messo sul piatto una contropartita adeguata che va oltre il proprio sdoganamento nelle future istituzioni di Kabul. Oltre a riprendersi il governo, non vogliono più vedere soldati Nato sul suolo afghano, tempo sei mesi. Pretesa non da poco, da loro considerata non trattabile e per sottolinearne l’assolutezza da due settimane qualche attentato hanno ripreso a farlo.

Khalilzad sta usando tutta la diplomazia appresa in anni di servizio per non far spezzare il filo dei colloqui che le due parti, con estrema volontà, tengono in piedi. Un miracolo, soprattutto per le molte e differenti anime talebane. In effetti si tratta d’un tavolo  molto più duraturo e aperto rispetto a quelli visti negli ultimi anni. E il mediatore afghano-statunitense, prendendo in esame la richiesta dei turbanti, evidenzia com’essa per andare in porto necessiti di tempi lunghi, non certo di sei mesi. Anche il fattore temporale, non solo l’entità delle reciproche richieste, può avere la sua importanza. Comunque a sostenere l’ipotesi dell’altrui comprensione giunge il generale Miller che vide la morte negli occhi un mese dopo aver assunto l’incarico di responsabile della missione ‘Resolute support’ nel settembre scorso. A ottobre 2018 un reparto guerrigliero entrava in azione a Kandahar, non attaccò lui, diresse l’attenzione sul capo  della sicurezza afghana Abdul Raziq, che venne eliminato con la sua scorta personale. Memore del ‘riguardo’ ora Miller tende la mano ai taliban, dicendogli di cooperare e combattere assieme contro l’Isis. Lo strano connubio è tutto da verificare. Molto dipenderà dalla soddisfazione che ciascuna parte riceverà dalle trattative in atto. Ma sui punti fermi, nessuno cede nulla.  

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