A Doha, nel dialogare fitto o centellinar parole,
si ritrovano faccia a faccia anche soggetti finiti in ruoli contrapposti. Se
non sono diretti carcerieri certi rappresentanti statunitensi conoscono a
menadito le storie dei signori Mohammad Fazl, Abdul Haq Waziq, Mohammed Nabi, Mullah
Khairkhwa e Mullah Noori. Tutti passati per Guantanamo da detenuti, in genere
catturati con ‘extraordinary rendition’ e trasportati come pacchi: legati,
bendati, fasciati, addirittura arrotolati dentro tappeti. Il gruppo venne rilasciato
nel 2014, quando il presidente Obama vendette alla sua America il gran gesto
del ritorno a casa del sergente Bergdahl. Questo soldato, rimasto prigioniero
per anni della rete di Haqqani, venne scambiato coi cinque, talebani di gran
calibro che ora siedono al tavolo della trattative assieme al mediatore
Khalilzad, a generali e agenti della
Cia. Quest’ultimi ben conoscono gli umori dei capi talib, essi stessi responsabili
militari oppure dell’Intelligence, gente che aveva resistito alla ‘cura’
praticata nel supercarcere cubano, che non tralasciava ogni sorta di tortura.
Alcuni erano vicini a pezzi da Novanta di Qaeda e vennero perseguitati per
questo.
Ma in geopolitica il passato ha un valore relativo,
e la linea statunitense in Medioriente risulta da tempo pragmatica ben oltre il
cinismo. I turbanti non sono da meno, così il confronto è paritario. Non
sappiamo se gli ex detenuti di Guantanamo che da un mese s’alternano al tavolo
delle trattative per l’Afghanistan siano lì per proposta dell’uno o dell’altro
fronte. Azzardiamo l’ipotesi che i loro compari li abbiano proposti per
l’antico prestigio e l’affinata conoscenza del modo di operare degli
interlocutori. Mentre quest’ultimi, proprio grazie a simili presenze che valutano
più disponibili dopo il ‘regalo della liberazione’, cercano di conseguire uno
degli obiettivi considerati irrinunciabili: impedire che nel Paese si ricrei
qualsiasi base jihadista modello Qaeda. Finora i taliban hanno messo sul piatto
una contropartita adeguata che va oltre il proprio sdoganamento nelle future
istituzioni di Kabul. Oltre a riprendersi il governo, non vogliono più vedere soldati
Nato sul suolo afghano, tempo sei mesi. Pretesa non da poco, da loro considerata
non trattabile e per sottolinearne l’assolutezza da due settimane qualche
attentato hanno ripreso a farlo.
Khalilzad sta usando tutta la diplomazia appresa in anni di servizio
per non far spezzare il filo dei colloqui che le due parti, con estrema
volontà, tengono in piedi. Un miracolo, soprattutto per le molte e differenti
anime talebane. In effetti si tratta d’un tavolo molto più duraturo e aperto rispetto a quelli
visti negli ultimi anni. E il mediatore afghano-statunitense, prendendo in
esame la richiesta dei turbanti, evidenzia com’essa per andare in porto
necessiti di tempi lunghi, non certo di sei mesi. Anche il fattore temporale,
non solo l’entità delle reciproche richieste, può avere la sua importanza. Comunque
a sostenere l’ipotesi dell’altrui comprensione giunge il generale Miller che vide
la morte negli occhi un mese dopo aver assunto l’incarico di responsabile della
missione ‘Resolute support’ nel settembre scorso. A ottobre 2018 un reparto
guerrigliero entrava in azione a Kandahar, non attaccò lui, diresse
l’attenzione sul capo della sicurezza afghana Abdul Raziq, che venne
eliminato con la sua scorta personale. Memore del ‘riguardo’ ora Miller tende
la mano ai taliban, dicendogli di cooperare e combattere assieme contro l’Isis.
Lo strano connubio è tutto da verificare. Molto dipenderà dalla soddisfazione
che ciascuna parte riceverà dalle trattative in atto. Ma sui punti fermi,
nessuno cede nulla.
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