“Ogni Stato ha il suo esercito, ma in Algeria l’esercito è lo Stato” affermava in una
recente intervista televisiva un ex membro dell’Intelligence locale, senza
nascondere una realtà evidente. Né per quella nazione liberata dal giogo coloniale
con le armi e ricondotta a una normalizzazione autoritaria con le armi del suo
esercito, che già nel 1965, umiliava i combattenti della battaglia di Algeri. Opera
dei Boumédiène e Bouteflika, passando per Bendjedid e soprattutto i
presidenti-militari (Kafi e poi Zéroual) che ordinavano stragi notturne nelle
case degli algerini, rapivano e uccidevano non solo i fondamentalisti del
Gruppo Islamico Armato, ma qualsiasi cittadino, abitante di villaggio fosse
sospettato di opposizione alla legge marziale
applicata per anni. Il ‘decennio nero’ della guerra civile resta lo spettro
richiamato dalla linea del raggiro e della forza che ha tenuto in piedi per un
quinquennio la sceneggiata del Bouteflika in carrozzina, maschera dietro cui
agisce il nutrito clan che, in queste tre settimane di ribellione popolare, il
mondo ha potuto conoscere.
Il Bouteflika minore Said, il Capo di Stato maggiore delle Forze
Armate Salah da tutti indicato come il pilastro del sistema, forte degli 800.000
militari in servizio, l’esercito più numeroso del continente. Il famigerato
boss dell’Intelligence Tartag, mentre in queste ore che preparano il futuro il
premier Ouyahia s’è messo in disparte a favore del suo ministro dell’Interno
Bedoui. La notizia del ritiro della
candidatura del vecchio Bouteflika ha riportato la festa per via, ma deve fare
i conti con la contropartita richiesta: la sospensione delle elezioni, che fa
correre la mente a quel dicembre 1991 quando la consultazione vinta dal Fronte
Islamico di Salvezza venne cancellata dal successivo colpo di stato militare. I
manovratori del fantasma presidenziale parlano di sosta momentanea per
riformulare la Costituzione, sottoporla e referendum e tornare alle urne.
Passerebbe almeno un anno, forse più. Il tempo utile al clan di prendere le
misure per tenere il passo con la rifiorita voglia di partecipazione della
gente. Intanto Salah parlando nella locale Scuola militare, sonda l’umore di
ufficiali e nuove leve e lancia messaggi trasversali.
Quando afferma che nessun partito algerino vuole un ritorno agli
anni della paura, quasi ammonisce che uno stato protratto di agitazione e
soprattutto non aderire al percorso che il gruppo di potere sta offrendo a un
popolo insofferente, può diventare pericoloso. Il generale fa intendere che
l’epoca buia, ben nota a chiunque abbia trent’anni, può ripresentarsi. E’ la
minaccia del sistema, ora che non solo adolescenti e giovani, ma l’Algeria
adulta e lavoratrice rimette la faccia nelle strade. Si teme che il ‘lavoro’ degli
altri due padrini del clan di potere, finora utile a contenere le fila dei
lavoratori con la centrale sindacale UGTA, e a orientare il Forum
imprenditoriale, opera rispettivamente di monsieur Sidi-Said e monsieur Ali
Haddad, abbia esaurito la funzione incantatrice e mediatrice. Non è detto che
sia così, ma ci si prepara a ogni evenienza. Infatti il progetto di rimandare
le consultazioni è subdolo come lo sono le parole di Salah: “l’esercito condivide le stesse aspirazioni
del popolo”. E la piazza, finora decisa e gioiosa, potrebbe vedere scenari
peggiori della breve primavera 2011.
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