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venerdì 30 marzo 2018

Striscia di Gaza: via Crucis palestinese


La marcia per il ritorno dei profughi palestinesi si trasforma in una via Crucis nel venerdì di passione. Si chiamavano prevalentemente Mohammad ed erano sicuramente islamici le quindici vittime messe in croce con la tecnologia dei droni che sparavano lacrimogeni dall’alto, mentre tiratori scelti di Tsahal da terra hanno colpito a morte e ferito quei corpi ammassati sul confine che riproponevano una protesta contro omicidi più antichi. Era il 1976, proprio il 30 marzo, quando sei palestinesi disarmati che aderivano alla prima manifestazione intitolata al ‘Giorno della terra’ contro la decisione israeliana di espropriare cospicue aree della Cisgiordania,  vennero centrati mortalmente anch’essi da proiettili. Questa trama omicida ripetuta in tante, troppe circostanze, ha avuto oggi l’ennesimo copione stragista. Oltre a quindici cadaveri di uomini compresi fra i 19 e i 38 anni si contano millequattrocento fra feriti e intossicati dal gas. Una repressione inconcepibile, un piano preparato a puntino secondo precise direttive del governo di Tel Aviv, vista la presenza di tiratori scelti dislocati su una vasta linea di confine dove i manifestanti avevano montato tende per offrire assistenza logistica ai numerosi partecipanti anche d’età adulta e avanzata. Per questo Israele ha accusato Hamas di gettare allo sbaraglio migliaia di persone.

Hamas, per bocca del suo leader Haniyah, ha precisato che l’iniziativa è partita dal basso ed era molto sentita dal suo popolo e che la marcia è l’inizio del ritorno sull’intera Palestina. Israele che quest’anno festeggia il 70° anniversario della sua fondazione, è coadiuvata in tale scadenza da un copioso sostegno occidentale. Si pensi alle prime tre tappe del Giro ciclistico d’Italia, previste appunto in quella che era la Palestina storica, un’iniziativa propagandistica con cui il premier Netanyahu ha voluto sancire anche tramite lo sport delle due ruote, popolarissimo in Europa, un benestare alle occupazioni originarie e attuali, tramite militari e coloni. Inoltre il leader sionista sente il pieno conforto dell’amministrazione Trump e accresce gli agguati criminosi come quello odierno. Poiché gli organizzatori della protesta palestinese prevedono sei settimane di mobilitazione sino al 15 maggio, di fronte a repressioni così sanguinose, la situazione può precipitare. Il Centro legale palestinese ha diramato una durissima condanna dell’esercito israeliano che compie l’ennesimo crimine “in violazione a ogni diritto internazionale, senza distinguere nell’uso delle armi fra combattenti e civili disarmati” quali erano tutti i partecipanti alla mobilitazione. Cancellerie, Capi di Stato e le stesse Nazioni Unite finora tacciono. 

giovedì 29 marzo 2018

Presidenziali egiziane: legittimare il dittatore


La legittimazione del dittatore tramite la blindatura delle presidenziali, volta a tenere sigillato il Paese per i prossimi anni, ha concluso il percorso. Com’era accaduto nel 2014, il generale golpista Abdel Fattah al-Sisi riavrà il consenso popolare grazie alla diffusa consapevolezza che tutto ciò serve alla nazione. Per settimane la martellante propaganda mediatica di giornalisti asserviti e stelle dello spettacolo e dello sport ossequiose, ha ripetuto: “Siamo con il nostro Paese e con il nostro presidente”. Lui, presidente certamente rieletto, non era più uno sconosciuto. Le incognite di quattro anni fa erano svanite dentro certezze assolute: un sorriso pacioso che cela a stento un pugno di ferro e un cuore ancor più duro, rivolti agli oppositori, ai comunicatori, alle migliori menti d’Egitto di cui, la legge del comando che l’ispira, si fa beffa. Anzi, chiunque obietti, dubiti, osi parlare viene visto con fastidio, isolato, privato della libertà se non addirittura della vita. Con questi presupposti ottenere il pieno del consenso e bissare il successone di quattro anni addietro, diventa semplice. Chi non si convinceva con la propaganda paternalista sull’uomo giusto che guida la nazione per il bene del popolo, lo capiva col clima intimidatorio su cui neppure gli osservatori internazionali impegnati in alcuni seggi campione dei 13.700 predisposti hanno potuto tacere. Dunque, Sisi presidente col 92% dei consensi. E’ lui il partner che l’Occidente vuol mostrare nei summit mediorientali, che servirà nell’asse d’acciaio stabilito con l’uomo implacabile dell’instabile terra libica: il generale Haftar. Sisi è il leader che non dispiace a Israele e che il sovrano di fatto della dinastia Saud, l’iper realista Bin Salman, condurrà per mano attraverso i propri piani finanziari e geopolitici regionali.  

Chi è interessato alle cifre (che saranno certe, forse, il 2 aprile) può confrontarle con quelle delle ultime tre elezioni: nel 2005 Mubarak vinse contro Abdel Aziz Nour con l’88% dei consensi, votava il 23% degli iscritti. Nel 2012 Morsi prevalse su Shafiq col 51.7% e il 52% dei partecipanti, mentre nel 2014 Sisi vinse contro Sabahi col 97% e votò il 47% dei chiamati alle urne, in realtà fu il 15%. Però l’operazione camuffamento, che aveva prolungato le consultazioni proprio per la scarsa affluenza a seguito del boicottaggio lanciato dalla Fratellanza Musulmana, raggiunse lo scopo prefisso. Principalmente si cercava un concorrente morbido che accreditasse il ‘confronto democratico’ da inchiodare su una percentuale di consenso infinitesimale. Allora fu il post nasseriano Sabahi, stavolta si è trattato del liberal-sissiano Moussa. Un boicottaggio non solo dell’estinta, almeno agli occhi pubblici, Brotherhood c’è stato anche stavolta. L’aveva indicato a gran voce Aboul Fotouh, e pur non scandendolo apertamente il generale Anan, entrambi esclusi dal confronto con motivazioni pretestuose. Conoscere le percentuali reali di voto e d’astensione da quelle parti è sempre approssimativo, per la palese opera d’occultamento dei dati compiuta dal ministero dell’Interno che umilia il ruolo indipendente del Comitato elettorale. Di fatto viene ribadita quella spaccatura esistente dal 2011 che contrappone la lobby militare, e chi si stringe attorno a essa per interesse, adesione ideale, paura, e gli oppositori al regime dei raìs, incarnata dalla fazione islamica della Fratellanza da tempo fuorilegge e perseguitata e dagli oppositori laici, essi stessi perseguitati. Una polarizzazione deleteria per gli interessi dei più deboli, ma di fatto esistente.

Per tamponare l’astensione la giornata di ieri ha visto all’azione gli esattori di multe (500 lire egiziane, cioè 28 dollari) per chi non s’era recato alle urne. Sono bastate minacce e azioni per ‘addomesticare’ parecchi elettori dell’ultim’ora che fanno salire il quorum su parametri accettabili, tanto per salvare la faccia del consenso al nuovo faraone. Non erano servite a molto neppure le sbandierate presenze dei primi due giorni che avevano visto susseguirsi gli inviti al voto del premier di comodo Ismail e la presenza al seggio delle due maggiori autorità confessionali entrambe favorevoli al regime: il grande imam di Al-Azhar El Tayeb e il papa della chiesa copta Tawadros II. Anche nel terzo giorno del voto, svoltosi in totale assenza di atti violenti (dopo l’attentato con autobomba compiuto sabato scorso ad Alessandria e costato la vita a due poliziotti)  l’informazione televisiva ha ripetuto il mantra del “voto libero e giusto”. Altra nota di colore per invogliare la cittadinanza ai seggi è stata la distribuzione di cibo, messo a disposizione da alcune catene alimentari, come sostegno materiale allo stress dell’attesa per deporre la scheda nell’urna. Inflessibili i sostenitori della Fratellanza che ideologicamente hanno accettato l’indicazione del boicottaggio e delle contromisure sanzionatorie. Il loro pensiero andava all’unico presidente frutto d’una reale consultazione che l’Egitto contemporaneo ha conosciuto, quel criticabile Mohamad Morsi che da anni languisce in galera. Alla stregua di tanti suoi colleghi di partito ma, riferiscono fonti vicine alla Confraternita, malmesso per ragioni di salute e a rischio vita proprio per il carcere duro cui è sottoposto. 

giovedì 22 marzo 2018

Sisi, la corsa del faraone


Per come s’è avviata l’elezione presidenziale del prossimo 26 marzo che propone agli egiziani la riconferma dell’ennesimo raìs in una versione quasi faraonica, Abdel al-Sisi sembra in linea con quanto accade in un certo mondo. Il presidente uscente ha fatto piazza pulita di qualsiasi concorrente accettando alla fine, così per dare una parvenza di sfida al suo monologo, un unico avversario: Mostafa Moussa, della formazione al-Ghad. Uomo ben diverso dal fondatore di questo partito, Ayman Nour, che era finito in galera all’epoca di Mubarak. Moussa, invece, ha trasformato il raggruppamento in un’appendice di sostegno allo stesso Sisi, e gli farà da cerimoniere in quella farsa della democrazia che ha depennato quattro candidati veri: l’ex mubarakiano Shafiq, l’islamico moderato Fotouh, il generale Anan, l’avvocato dei diritti Khaled Ali. Tutti azzittiti con denunce, galera o avvertimenti a desistere dalla folle idea di contrapporsi al predestinato. Eppure, nel panorama d’un avvìo di Millennio che propone e impone presidenti-zar, sultani, imperatori, ruoli che il secolo breve e rivoluzionario aveva seppellito, il faraone del Cairo risulta in fondo il più debole fra i capi di Stato dall’autorevolezza autoritaria. Infiacchito da un tempo che in Egitto appare bloccato ma negli apparati del potere corre veloce. E indebolito pure dalla lobby che l’aveva scelto come sua icona.
Sicurezza ed economia, su cui si misura il programma dell’Egitto di Sisi, hanno temi collegati: repressione e subordinazione della progettualità. Su questo il presidente uscente si gioca non un’elezione scontata, ma il mantenimento d’un incarico che per tradizione della divisa è destinato a esser lungo. Così è stato per Mubarak, mentre per Nasser e Sadat intervenne la crudeltà del destino. Sisi potrebbe fare ciò che gli attuali uomini soli al comando fanno: protrarsi la permanenza al potere cambiando regole che dovrebbero essere inviolabili (ma per loro non lo sono). Con l’aria che tira la Costituzione egiziana può certamente venire ritoccata a sostegno dei desideri presidenziali, bisognerà capire se il sempiterno Consiglio Supremo delle Forze Armate punterà ancora sul distaccato aplomb del generale e sul suo staff. Proprio la vicenda dell’omicidio Regeni, mostrava fra le righe le smanie d’un potere criminale (Servizi, polizie locali, gang paramilitari e spie a libro paga) che pur rientrando nel grande clima repressivo predisposto e cavalcato da Sisi, attuava iniziative delinquenziali talmente zelanti da creare qualche problema ai vertici statali. Problemi, non imbarazzi, perché comunque l’apparato ha fatto quadrato attorno a presidente, ministro degli Interni e degli Esteri e tutti hanno deriso le iniziali pretese di verità del governo italiano e le successive inchieste del procuratore Pignatone. Con lo scorno per i familiari del ricercatore, colpiti doppiamente.
Seppellito il povero Regeni, celati i crimini interni e i possibili intrecci internazionali che coinvolgevano accademici e Intelligence britannica, resta il realismo politico posto come cavallo di battaglia del presidente-generale. Sul tema della sicurezza lui paga l’instabilità in alcune aree, il Sinai dov’è cronica la presenza jihadista con gruppi antichi (Ansar e Jund al-Islam) più il marchio Islamic State of Sinai. In alcune città, Cairo compresa, dove agisce in totale copertura clandestina un armatismo  staccatosi dalla repressa Fratellanza Musulmana. Una sua sigla è Hassm, non pratica lo stragismo, agisce colpendo uomini del regime fra i militari e fra i burocati. Non se ne conosce la consistenza, ma sia le origini tutte politiche sia la natura sociale delle contraddizioni che coglie possono impensierire i palazzi del potere. E’ il sociale il grande buco nero dei quattro anni di gestione Sisi. Se Morsi venne messo alla berlina dopo undici mesi di governo per non essere riuscito ad affrontare almeno uno dei cento problemi urgenti che assillano la vita sociale del Paese, l’attuale amministrazione non salva neppure la faccia. I dati sono aculei conficcati nelle pelle d’una popolazione diventata più povera, il 30% sul territorio nazionale significa circa trenta milioni di egiziani, che nell’ultimo anno, oltre a non trovare prospettive d’occupazione si son visti tagliare i tradizionali sussidi statali su carburante e viveri. Le misure riguardano gli strati più poveri, ma questa fascia s’è appunto ampliata.
Il liberismo, sostenuto con protervia dall’attuale regime, ha proseguito il suo corso contro l’esistenza di milioni di persone che s’arrangiano con commerci, lavoretti, assai peggio d’un tirare a campare in stile mediterraneo. Ne traggono vantaggio tycoon ricchissimi e noti, compreso Shafiq che, da tempo fuori dal giro delle Forze Armate, fa affari per sé e compari vecchi e nuovi. Si rafforza lo statalismo privatizzato con cui strutture dell’esercito controllano appalti d’ogni tipo: edilizia pubblica e privata, trasporti, servizi, commercio, turismo. Gli apparati militari continuano ad avere le mani ovunque, per oltre la metà del comunque non splendido Pil nazionale. I grandiosi progetti con cui Sisi vuole abbagliare gli elettori e stupire il Medio Oriente: il secondo canale di Suez, la creazione d’una nuova capitale in un’area posta fra il Cairo e il Mar Rosso (negli anni Ottanta Mubarak aveva portato a Helipolis, un sobborgo del Cairo, alcune sedi amministrative) presumono commesse per le aziende controllate dai militari Ma l’affarone attorno a cui girano gli interessi nazionali, per il quale i rapporti diplomatici fra Roma e Il Cairo sono passati sul cadavere di Regeni, si chiama Zohr. E’ la maggiore riserva di gas del Mediterraneo, presente nella zona economica esclusiva che compete all’Egitto a 110 miglia marine da Port Said; offre un potenziale stimato in 850 miliardi di metri cubi e ha previsto 12 miliardi d’investimenti inziali. E’ stata scoperta nel 2015 dall’Eni, che ne è coinvolto per il business derivante della propria tecnologia estrattiva. L’Egitto ha stipulato recenti accordi, limitati però a sondaggi minori, anche con la britannica Bp e la russa Rosneft.
I vertici del cane a sei zampe, hanno spinto sugli inquilini passati di Palazzo Chigi perché attriti internazionali non inficiassero il succulento accordo. Lo faranno anche con la nuova premiership, d’ogni colore. Quel che resta nell’Egitto che s’appresta al voto sono le spese militari sempre elevatissime (cinque miliardi per le forniture degli aerei da guerra francesi, i chiacchierati Rafale, che l’India tempo addietro respingeva). E l’insostenibile cortina di ferro rivolta a giornalisti stranieri e a quelli locali, perseguitati come gli attivisti d’opposizione e gli stessi blogger sin dal golpe del luglio 2013 col successivo massacro della moschea Rabaa al-Adaweya. Una società poliziesca che ha visto cancellare spazi d’incontro e dibattito ben prima che subentrasse l’alibi degli attentati, che pure sono iniziati dal 2014 e sono cresciuti. Alle migliaia di arresti lanciati contro i vertici della Brotherhood e poi sui suoi militanti, s’è passati a incarcerare sindacalisti, compresi gli oppositori morbidi, nasseriani e liberali. Il silenzio e la paura sono tornati come e più dei tempi di Mubarak e libera mano ha il Mukhabarat che si serve di prezzolati baltagheyah. Sono costoro gli scherani che sequestrano, torturano, uccidono e fanno svanire nel nulla i corpi di centinaia di persone. Sparizioni e omicidi su cui il governo fa lo gnorri, sostenendo, come più volte ha dichiarato Sisi su Regeni, che “gli autori del crimine (cioè gli uomini degli apparati che lui ha incaricato) verranno individuati e puniti”. Quest’uomo è l’ennesimo satrapo affacciato su un Medio Oriente dissanguato da criminali e dai loro mefitici interessi mascherati da ragioni di Stato.

mercoledì 21 marzo 2018

Newroz di sangue a Kabul


Andare all’Università a Kabul è una cosa speciale, perché gli ostacoli sono tanti, se sei una ragazza, ovviamente di più. Può accaderti come a Saima che sognava d’iscriversi a medicina per via della passione, dell’ottimo profitto negli studi e all’ultimo anno, a diciassette e mezzo, è stata costretta a sposare un uomo col doppio dei suoi anni. Non solo studi interrotti, sogni infranti, ma costrizioni, torture, con una catena ai piedi. E’ una delle storie narrate con le lacrime agli occhi e i tonfi del cuore dalla protagonista che ora ha diciannove anni ed è fuggiasca. L’ha salvata dalla famiglia-prigione, dal marito-padrone, dal suocero-torturatore, dal padre-patrigno colluso la struttura dell’Hawca (Humanitarian Assistance Women and Children Afghanistan) che protegge le donne abusate. Andare all’università a Kabul, col cielo terso nel primo giorno di Newroz può essere pericoloso, come percorrere le attigue strade del centro. Stamane c’è stata l’ennesima esplosione lì e nei pressi del vicino Ali Abad Hospital. Si contano 26 morti. Per ora. Un attentato senza un perché se non quello di macchiare col sangue una quotidianità che pure esiste nelle ordinarie faccende della gente: povera spesa, piccoli affari, mercanzia da esporre, da acquistare, movimenti in bici o in moto in un traffico automobilistico comunque presente in assenza d’altra possibilità di movimento.
Certo, si possono evitare le sempre più bersagliate, nonostante la stretta vigilanza, arterie di comunicazione, arrampicandosi fra le colline che sovrastano la piana di Kabul, da dove i signori della guerra venerati come eroi (Massoud su tutti) venticinque anni fa martoriavano di bombe gli abitanti sottostanti. Ma nei defatiganti spostamenti per recarsi in centro, in certi luoghi diventati sempre più incerti, i rischi si corrono. Sempre. E’ una roulette russa, che detta così pare un gioco di parole della storia, mentre da 17 anni gli afghani conoscono un’altra occupazione, quella yenkee con gli europei a far da reggicoda. Ma a Kabul, quando ci sono, i militari Nato non presidiano le vie. Il compito di bersaglio fisso è passato da tempo all’Afghan National Army, esercito numeroso quanto inefficiente che in genere conta vittime senza riuscire a contrastare nulla. L’attentato di stamane non è rivendicato finora da nessuno. I talebani hanno preventivamente dichiarato alle agenzie di non entrarci nulla. Restano le galassie dell’Isis, ma finora silenzio. Quel che vogliono è chiaro da tempo: caotizzare il caos che l’occupazione occidentale ha fomentato e accresciuto e che, secondo attivisti democratici locali, ha le mani su questi stessi attentati, direttamente o indirettamente. Si opera per non dare un domani al Paese, per non far lavorare, studiare, vivere nessun afghano. Per sospendere il tempo e bloccare il futuro.

lunedì 19 marzo 2018

Il sogno spezzato di Afrin


Cala pesante la mezzaluna turca sul sogno di Afrin. Sull’enclave kurda sventola da ieri lo stendardo di Ankara, che secondo testimonianze raccolte dalla stampa recatasi presso il centro dell’Intelligence siriana, a Derik, ha sfumature nere, visto l’utilizzo di miliziani dell’Isis attuato dall’esercito turco. Non si sa se anche nel corso dell’operazione “Ramoscello d’ulivo”, terminata ben oltre i tempi inizialmente previsti il 20 gennaio, quando i loro tank varcarono il confine, certamente è accaduto in altre fasi della sporchissima guerra in atto su ogni fronte siriano. Lo confermano due prigionieri turchi, combattenti dell’Isis, con cui ha interloquito l’inviato del Corriere della sera. Mentre commemorano la cerimonia sulla campagna di Gallipoli nella provincia di Çanakkale, durante la Prima Guerra Mondiale, la truonitante voce del potere di Erdoğan, ma anche quella dell’opposizione (o presunta tale) del leader del partito repubblicano, Kılıçdaroğlu, lanciano entrambe un plauso all’esercito in azione ad Afrin, perché la smania di grandezza neo ottomana e vetero kemalista non si contraddicono.
Le unità kurde, non potendo resistere all’offensiva, si sono ritirate verso est, ciò che i turchi volevano, sebbene osservatori ritengono che l’attacco turco e dell’Esercito siriano libero potrebbe non limitarsi a quest’operazione, bensì estenderla anche all’enclave di Kobanê. Sulla rotta della guerriglia kurda circolano varie note di morte che parlano di caduti. I turchi sostengono di aver “neutralizzato 3.600 terroristi”, i kurdi ammettono di aver perso un migliaio di compagni, fonti dell’Osservatorio della Siria parlano di trecento vittime combattenti. Poi c’è la fuga dei civili. Circa 150.000 persone, in gran parte kurde, che avevano iniziato l’evacuazione dalla cittadina da alcune settimane seppure con enormi difficoltà per i corridoi di passaggio e le aree di accoglienza, visto che tutta la regione è devastata da focolai di conflitto. Persa l’enclave occidentale l’esperienza del Rojava, sotto attacco geopolitico oltreché militare, conosce la durissima fase di una difesa impossibile sotto massicce offensive militari e in assenza di coperture e alleanze geopolitiche. Quelle trasversali, statunitense e del regime di Damasco, si sono dimostrate vane di fronte a un nemico, per quest’ultime, alleato tattico o semplice interlocutore, pur a corrente alternata.

giovedì 15 marzo 2018

Palude afghana, dal futuro negato al domani possibile


Belquis Roshan, è da alcuni anni presente nella Mehrano Jirga (la Camera Alta del Parlamento) eletta come indipendente nella provincia di Farah. L'abbiamo incontrata a Kabul. Ringraziamo  Mahbooba Siraj per la preziosa traduzione dal dari che ha reso possibile l'intervista.
Senatrice Belquis, le pare realistica la proposta di Ghani d’inserire i talebani al governo?
Mi pare una sceneggiata. Se mai si dovrà compiere questo passo lo decideranno gli americani. Washington finanzia il governo afghano e i talebani stessi, magari ci saranno pure talebani che si tengono lontani da queste trame, ma sono una minoranza. L’esempio offerto negli ultimi mesi da Gulbuddin Hekmatyar è emblematico: è tuttora un personaggio politico molto potente e influente nel nostro Paese, potrebbe tranquillamente fare a meno di rapportarsi agli Stati Uniti. Invece non ha respinto le offerte di Ghani programmate dagli Usa, visto che sono quest’ultimi a dettare l’agenda. La proposta di Ghani è un diversivo per confondere le acque e imbrogliare la popolazione. Sta bene anche ai talebani, che sono sì cresciuti ma non hanno la forza per conquistare il potere con le armi. Così agli occhi dell’opinione pubblica loro restano in partita, mentre il governo (che non riesce a sconfiggerli) si rivende la mossa pacificatrice che, come ai tempi di Karzai, finirà in un nulla di fatto. Un fattore di preoccupazione per gli Usa sono quei talib ingaggiati da russi e iraniani e quelli foraggiati dai pakistani, che risultano incontrollabili dalla Cia.
Ma talebani e jihadisti del Daesh hanno progetti autonomi?
Non mi sembra. Certo, entrambi incutono terrore con stragi rivolte a militari e civili. I primi fanno sentire una presenza asfissiante in diverse province nelle quali contano più degli amministratori locali e delle truppe governative presenti solo formalmente. In diverse realtà sono i talib a riscuotere tributi, a gestire commerci legali e illegali, a decidere se le scuole si possono aprire o vanno chiuse o, ancor più frequentemente, devono essere riconvertite in madrase vere fucine di fondamentalismo. Son loro a requisire fondi statali orientandoli verso i propri tornaconti anche personali. Il governo sa e lascia fare. L’area di Farah, che ben conosco perché per il mio mandato parlamentare faccio la spola fra Kabul e questa provincia, conta alcuni raggruppamenti taliban, in varie situazioni la popolazione subisce i soprusi per paura e perché non viene tutelata da polizia ed esercito governativi. A Farah ci sono militari, elicotteri, sono presenti reparti italiani (il mese scorso gli istruttori del nostro contingente hanno diretto l’ennesimo programma di assistenza ai colleghi afghani secondo quanto previsto dal Resolute support, ndr), però non intervengono. E quando lo fanno censurano o reprimono le famiglie del posto cui i talebani chiedono vitto e tributi.
Il piano occidentale di normalizzazione dell’Afghanistan è fallito, restano le basi aeree statunitensi, l’occupazione militare magari con più contractors che marines, ma la situazione è stagnante. A suo parere tutto resterà immutato?
Quando quest’occupazione iniziò la popolazione era stanca dei soprusi talebani, ricordava e piangeva i lutti provocati dal conflitto interno fra i Signori della guerra che avevano assassinato tanti civili. C’era chi sperava in una liberazione, pensando a un intervento temporaneo. I governi instaurati dagli Stati Uniti (le due amministrazioni Karzai, ndr) hanno protetto i criminali di guerra, li hanno addirittura inseriti nelle Istituzioni (Rabbani, Sayyaf in Parlamento, Khalili, Fahim nel ruolo di vicepresidenti, ndr). Agli Stati Uniti interessa solo restare qui per controllare la regione, avere un occhio strategico militare su Russia, Cina, India. Se la gente rimarrà passiva la situazione è destinata a mantenersi in stallo, finché la popolazione non avrà consapevolezza di chi sono i reali nemici lo sbocco democratico diventa impraticabile. Quando un civile viene ucciso dalle truppe governative o della Nato gli abitanti non sanno come reagire, vorrebbero giustizia, non ottengono riparazione. I più giovani cadono nella rete dei talebani che gli promettono vendetta e liberazione dagli stranieri e dal governo collaborazionista. Eppure paradossalmente i fondamentalisti sarebbe il nemico più facile da combattere, si rivelano deboli e contraddittori perché cambiano orientamento in base al tornaconto del momento.  
Accanto al business dell’oppio - sempre presente con coinvolgimento di clan politico-affaristici locali, talebani, generali Nato, mafie internazionali - è in pieno sviluppo lo sfruttamento del sottosuolo afghano a opera di alcune aziende occidentali e ultimamente della China Metallurgical Corporation. A quest’ultima il presidente Karzai ha concesso la gestione delle miniere per trent’anni, i miliardi di dollari del contratto sono finiti nelle sue tasche. L’attuale presidente Ghani mostra il progetto del gasdotto Tapi come un’opportunità per la nazione, finirà come per le miniere con ruberie presidenziali?
I progetti che lei cita possono creare lavoro temporaneo per la popolazione, non di più. I mega programmi mancano di controllo oppure quest’ultimo è gestito dalla politica che si è sempre dimostrata inaffidabile e speculativa. Il ritorno per il Paese e i suoi abitanti è pari a zero sia sul piano d’investimenti produttivi, sia sul fronte d’un possibile reddito nazionale. Vale anche per il Tapi che arricchirà le aziende dei soliti noti. Già si pianifica che il sostegno del percorso dei 770 km della pipeline sul territorio afghano sarà offerto all’azienda cementifera di Mahamoud Karzai, ennesimo fratello dell’ex presidente. Nel business è coinvolto anche un membro del Parlamento che s’occupa, pensi un po’, di cosiddetti lavori pubblici. In realtà di pubblico sul mercato interno non c’è più nulla, i governi sorti con l’occupazione Nato e la collaborazione della comunità internazionale hanno promosso solo iniziative private che intascano i fondi degli aiuti senza creare infrastrutture. Voci ufficiose calcolano l’introito dei dazi del Tapi, per il passaggio del gas sul nostro territorio, sui 300 milioni di dollari l’anno. Il rischio che quest’introiti finiranno sui conti personali di uomini di governo, come ai tempi di Hamid Karzai, è altissimo. Solo un governo realmente popolare potrebbe prevedere un utilizzo delle risorse per la gente, il nostro esecutivo fa il contrario. Faccio l’esempio del commercio: il nostro governo apre le frontiere a merce di secondo o terz’ordine spinta qui da Iran e Pakistan. Non c’è nessun controllo sulla qualità dei prodotti, solitamente scadentissimi, né c’è difesa della salute dei cittadini. La massima istituzione afghana, nella quale sono stata eletta, è da anni congelata, non è stata più rinnovata con una consultazione; tutto resta fermo come in una palude. La gente vede queste cose. Nonostante sia tenuta all’oscuro da un’informazione para governativa, intuisce che esistono conflitti d’interesse e ruberie. Occorre organizzare chi non ne può più, occorre creare un fronte di lotta. Una decina d’anni fa, quando iniziammo a fare questi discorsi, ci accusavano d’essere distruttivi, spie degli stranieri, oppure folli utopisti. Lo dicevano proprio i reggicoda dei governi-fantoccio che stanno depredando il Paese, svendendolo agli interessi imperialisti. Ora mi sembra ci sia più coscienza, c’è paura sì, ma c’è più coscienza. Quando giro, non solo nella mia provincia dove sono conosciuta, ma anche qui a Kabul le persone si fermano per dirmi: hai ragione, le vostre denunce sono giuste. Me l’han detto anche dei militari.  
E allora senatrice, cosa manca a chi fa una reale opposizione per capitalizzare questo lavoro di coscienza politica?
Manca una forza progressista di massa che diriga la popolazione, noi lavoriamo per quest’obiettivo. Purtroppo non giocano a favore tutti coloro che in nome della rivoluzione, del socialismo hanno lasciato segnali terribili di devastazione e morte, come fece il partito filosovietico nei Settanta, come hanno fatto jihadisti e talebani in seguito, e la stessa sedicente democrazia di questi ultimi diciassette anni. La gente è confusa, non si fida di nessuno. La via che trasforma la consapevolezza in azione è lunga, tutto è reso più difficile dall’analfabetismo e dal terrore seminato fra la gente dal doppio binario di attentati fondamentalisti e repressione militare.
Oggi questo percorso è più difficile di sei anni fa quando lei venne eletta?
Da quando ero consigliera provinciale per poi diventare senatrice ne ho viste molte. Ho visto tanti sedicenti democratici che si proponevano in politica per cambiare - dicevano - il panorama. Io non ho mai pensato di lavorare col governo, ho sempre pensato di utilizzare ogni spazio per dare voce alla gente. Nei primi tempi ero invitata dai media anche televisivi, da quando ho espresso dissenso e lanciato denunce gli spazi si son chiusi. Un’arma che viene usata contro il mio impegno è il boicottaggio. Lo praticano addirittura le strutture istituzionali che non mi comunicano taluni appuntamenti, oppure cercano di usare anche miei conoscenti per impedirmi di osservare, d’indagare. Di recente un amico m’ha riferito d’essere stato contattato da un addetto governativo perché mi convincesse a non partecipare a un determinato incontro…
Si presenterà alle prossime elezioni? (sperando che ci siano)
Non l’ho deciso. Le elezioni e gli incarichi conseguenti sono un’opportunità straordinaria per chi mira a una carriera personale, lecita e illecita. Si può rubare pur non stando al governo, visto che si presentano un’infinità di occasioni anche per chi riveste incarichi di semplice rappresentanza. Chi, come me, usa questo mezzo per la lotta e l’emancipazione popolare ha ben altre prospettive e corre taluni rischi. Ma di rimando riceve la benefica sensazione di tener vive le speranze di milioni di afghani. Se i compagni e gli elettori me lo chiederanno mi renderò ancora disponibile. 


lunedì 12 marzo 2018

Hambastagi, il partito di lotta che sogna il governo


La lotta è la soluzione dicono e si dicono ad Hambastagi, partito minuto ma combattivo di quel degenerato panorama politico afghano, impaludato in una guerra cronica partita da lontano: l’epoca dell’invasione sovietica, diventata conflitto civile e poi avvento talebano, per finire nell’invasione  targata “democrazia occidentale” a guida americana. Hambastagi nasce nel 2004, diversi suoi compagni, visto che s’orienta a sinistra nel segno di: laicità, diritti delle donne, rivendicazione d’un vero Stato democratico e liberazione dalla Nato, hanno avuto esperienze pregresse nei movimenti e partiti della sinistra maoista. Ovviamente si tratta dei più anziani, coloro che hanno praticato la resistenza ai sovietici accorsi in aiuto dei gruppi locali clonati da Mosca in epoca brežneviana. La generazione attuale, quella che ha fondato il partito nel 2004, chiamandolo della Solidarietà, è nata nei campi profughi pakistani. Se si tratta di donne, s’è formata attorno alla struttura dell’associazione Rawa (Revolutionary Association Women Afghanistan) che nelle varie epoche di un’attività avviata un quarantennio fa, ha sempre avuto un occhio speciale per questioni sociali e diritti, formando migliaia di attiviste coraggiose e preparatissime sotto ogni profilo. Una scuola-quadri al femminile invidiabilissima.
Eppure un errore il gruppo dirigente di Hambastagi lo fece. Proprio all’avvìo del suo rinnovato impegno, sicuramente periglioso e sempre rivolto alle masse. Pensò che quell’uomo, Hamid Karzai, che nel dicembre 2004 diventava presidente dopo aver diretto l’amministrazione transitoria del Paese, potesse rappresentare una svolta per la stessa popolazione afflitta da oltre un ventennio di lutti. Niente di più sbagliato. Il successo sui talib, frutto della massiccia invasione statunitense nota col termine di Enduring Freedom, a fine 2001 si sbarazzò d’un quinquennio di terrore ma pose le premesse per dolori e lutti altrettanto gravi. Complice mister Karzai, politico fantoccio, voluto e protetto dalla Casa Bianca, che presto rinnegò i promessi propositi di riforma e di contrasto ai Signori della guerra, riciclati durante i suoi mandati del 2004 e 2009. Non per ingenuità, ma per realismo politico, i dirigenti di Hambastagi avevano sperato nelle riforme popolari enunciate da Karzai: dovettero ricredersi. E da tempo le nuove leve, subentrate nella direzione del partito attorno al 2009, hanno elaborato un programma assai più tagliente. Il 33% di loro sono donne, e quella parità di genere, rivendicata come principio basilare dello statuto,  vede ulteriormente crescere le quote al femminile.
L’adesione militante al partito supera i 30.000 attivisti dislocati in quasi tutte le province afghane, anche quelle scomode, ad altissima presenza fondamentalista, dove i quadri di Hambastagi agiscono in incognita per ragioni d’incolumità. Ma il rapporto con la gente è stretto, basato su problemi concreti, che in quella realtà significano pane e lavoro, istruzione, difesa di diritti basilari. L’attuale presidente del partito, che è un medico con una faccia contadina che sarebbe piaciuta a Pasolini, ribadisce come l’organizzazione s’è rafforzata anche comprendendo e superando gli errori del passato: “Nessun ostracismo verso la vecchia guardia. C’impreziosiamo della loro esperienza, ma abbiamo tratto le dovute conclusioni sulle speranze mal riposte in un governo collaborazionista, che il partito ha preso a combattere apertamente da un decennio a questa parte anche nella versione successiva incarnata da Ghani. Ripetere gli errori diventa criminale, su questo non possiamo transigere” afferma con un sorriso. L’intervista è informale, ma ricca, ricchissima di analisi e umanità, perché una parte del gruppo dirigente incontrato in una Kabul blindata è comunque propositivo davanti a un orizzonte complesso e incistato sulla ripetizione di modelli corrotti e inconcludenti.
Un sistema d’occupazione ad libitum che palesa l’impossibilità di successo, ma resta funzionale al progetto geostrategico di Washington di controllare, dalle basi aeree costruite in quattordici anni, i cieli afghani e i confini di potenze regionali nemiche (Iran) e pseudo amiche (Pachistan), più il mastodonte cinese. Un piano che mira a conservare disgregazione e caos per non far nascere nulla. Niente hanno prodotto i sedici anni d’occupazione americana e Nato, neppure le vie di scorrimento della capitale ampliate e asfaltate dai sovietici, unici creatori di qualche infrastruttura come il gigantesco Silos, tuttora svettante come un simulacro del passato. L’Occidente ha solo donato fiumi di denaro a fondamentalisti e corrotti, con l’unica variante di ciò che si erge in ogni angolo della Kabul del potere: muraglie di cemento armato che soffocano la vista e stentano anche nella difesa di palazzi governativi e ambasciate. “La fine dell’occupazione è un punto centrale del nostro programma - afferma Selay Ghaffar, una delle leader di Hambastagi che fa tremare i warlords nei contraddittori televisivi e imperterrita controbatte a insulti e minacce -. Sappiamo che la strada del riscatto è lunga, però è l’unica da percorrere è rendere la gente del proprio sfruttamento”. “Il popolo non è attualmente pronto per una sorta di rivoluzione - aggiunge il responsabile del lavoro nelle province - ma odia truppe d’occupazione, governo e fondamentalisti. Noi partiamo da questi presupposti”.
“Molti parlano di rivoluzione, compresi gli ex mujaheddin diventati signori della guerra e i taliban; comunque discutendo con la popolazione ci accorgiamo che una certa accettazione di tali figure è dettata solo dalla paura e da mancanza di prospettive. Tanti fondamentalisti sono condannati nella testa delle persone. Perciò insistiamo sulla laicità degli orientamenti di vita, un presupposto importante per aggirare l’uso strumentale della fede praticato dall’estremismo islamista”. Continua a scavare la talpa di Hambastagi, ora che il governo gli ha ristretto spazi d’intervento pubblici, soprattutto le manifestazioni di strada per ragioni di sicurezza. Quest’ultima è un problema con cui ogni afghano deve fare i conti dall’alba al tramonto, ma la chiusura preventiva d’ogni spazio visibile è un disegno studiato dalla diarchia Ghani-Abdullah che teme linguaggio, metologia e contenuti della militanza solidale perché essi sono chiari, progressisti, fattivi e attrattivi. I politici di Hambastagi credono nella bella utopia d’una democrazia che in un simile panorama appare come un’araba fenice.  Ma come affermava Rosa Luxemburg l’alternativa al socialismo è la barbarie, e tutto ciò in Afghanistan si tocca con mano. Indomiti e realisti i “militanti solidali” muovono i loro passi con riserbo ed efficacia. La loro non è clandestinità, la sfiora. Seppure hanno nei cuori un progetto che ambisce alla luce perché è limpido come certe giornate di sole nel cielo di Kabul imperlato di aquiloni.

sabato 10 marzo 2018

Afghanistan: Saajs, la giustizia contro il silenzio


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Mentre proseguono gli attentati: ieri mattina un kamikaze s’è fatto esplodere presso la moschea sciita di Kabul ovest, in un posto di blocco che tentava di superare per raggiungere il luogo dove si svolgeva una commemorazione di Ali Mazari (leader dell’Hezbi-i Wahdat arrestato, torturato e ucciso dai talebani nel 1995). Nel corso della giornata è giunta dall’Isis afghano la rivendicazione di quest’esplosione che ha provocato sette vittime e una trentina di feriti. Proponiamo una testimonianza sulle stragi di civili raccolta dal lavoro del Saajs (Social Association Afghan Justice Seekers) impegnata a rilanciare l’apertura di processi contro i crimini di guerra che colpiscono la popolazione afghana di ogni etnìa.
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Shah Shareek è un quartiere di Kabul sud di medie dimensioni, due forse trecentomila abitanti, pashtun, tajiki, pochi uzbechi e … americani. La zona continua a essere frequentata da militari statunitensi soprattutto per la presenza di alcune caserme insediate nella capitale afghana. Qui si è perpetrato uno dei crimini più sanguinosi e misteriosi della guerra contro i civili che negli ultimi tre anni sta conoscendo il confronto a distanza fra talebani e jihadisti del Daesh. In una notte d’agosto del 2015 un’esplosione tremenda svegliò tutti nel raggio d’una trentina di chilometri. Inizialmente i morti contati sul terreno furono trentadue, quattrocento i feriti, il numero delle vittime crebbe, ma alla fine non se ne seppe più nulla. Ciò che mise in allarme gli abitanti della zona che, sbalzati dai letti erano accorsi sul posto, fu l’imponente numero di poliziotti e militari giunti nella notte e nelle ore seguenti. L’area venne circondata, la gente spinta via, i giornalisti invitati a seguire solo i dispacci del ministero dell’Interno. Fu impedito loro di fotografare e indagare. Chi aveva raccolto frammenti e aveva visto brandelli di corpi veniva spintonato via in malo modo, gli sequestravano i reperti, gli imponevano il silenzio su quelle visioni cruente. Il governo puntò il dito sui Taliban, loro non confermarono né negarono la strage.
Uno dei testimoni che s’è rivolto all’associazione Saajs, da anni impegnata a raccogliere informazioni e denunce sui crimini contro i civili, racconta un’altra storia. L’uomo, che era ed è rappresentante del quartiere, lancia ipotesi diverse e si dichiara disponibile a fornirle a tribunali internazionale e nazionali. “Vivo tuttora a trecento metri dal luogo di quella tremenda esplosione. Quella notte, era circa l’una e un quarto, dopo aver constatato d’esser vivo, saltai dal letto e corsi in strada. Non dimentico quel che ho visto: macerie e corpi maciullati, distruzione e un enorme cratere. Quest’ultimo ci fece venire il sospetto che si trattasse di un’esplosione causata da una bomba sganciata da un aereo. Il sospetto è cresciuto per il comportamento del governo che ha blindato la zona per giorni e settimane, come mai era accaduto. Impediva a chiunque di avvicinarsi, anche ai familiari di persone disperse di cui non s’è saputo più nulla e che si teme siano fra le vittime. Il numero degli scomparsi s’aggira sulle quattrocento persone. I militari hanno costruito un muro divisorio con blocchi di cemento armato, hanno ricoperto l’enorme cratere. Certo, non l’ho potuto vedere coi miei occhi, ma ho visto il via vai di camion pieni di terra”.
Il signor Shah Mohammad fa notare che nel quartiere, dove i marines apparivano quasi giornalmente sui mezzi corazzati che si spostavano dalle caserme, non comparvero più per un certo periodo. Afferma: “Tutto ciò risulta strano. Fossero stati loro l’obiettivo dell’attentato che secondo il governo fu causato da un enorme camion-bomba, l’esplosione sarebbe avvenuta in prossimità di qualche caserma, investendo come si solito accade anche civili. Così non è stato, in quel punto c’erano solo case”. La congettura del testimone è che nel botto ci sia lo zampino delle Intelligence (americana o pakistana) impegnate a creare caos. Resta il mistero e la stranezza delle Istituzioni che hanno secretato la vicenda, ostacolando ogni informazione ed evitando di fornire qualsiasi spiegazione. Al Saajs non vogliono far cadere il caso. Il lavoro coi testimoni di crimini simili, un impegno faticoso, fatto di contatti e lento convincimento di persone che temono di esporsi perché possono pagarne crudelmente le conseguenze, resta lo scopo primario di caparbie attiviste come Weeda Ahmad, coordinatrice dell’associazione. Un lavoro consolidato negli anni con vittime causate da ogni sponda: signori della guerra, talebani, truppe Nato. Anche in questo caso c’è il sospetto che vaghezza ed oblìo vogliano celare la verità, che sempre inchioda miliziani e militari ai propri misfatti. Weeda sa che il percorso della giustizia risulta impervio e ostacolato dalla politica prima che dalle falle burocratiche.
Col Saajs ha negli anni ottenuto la fiducia delle persone colpite da eventi luttuosi per cause militari e criminali, nel termine universalmente conosciuto come “crimine di guerra” cerca di perseguirne giudiziariamente gli autori. Ma Karzai, firmando un protocollo, ha impedito che quelle testimonianze potessero portare sul banco degli imputati warlords responsabili fra il 1992 e il ’96 dei massacri di Kabul: dai 60.000 agli 80.000 morti, quando l’artiglieria di Massud batteva dalla montagna Aasmaee la spianata sottostante e le fazioni di Sayyaf e Mazari, piazzate sulle alture opposte, rispondevano. Il governo sostenne che per ragioni di “pacificazione” quelli e altri boss delle armi non andavano perseguiti. Si poteva esaminare ciò che accadeva dal 2002 in poi. Di fatto non è stato accusato nessun criminale, né durante i due mandati Karzai, né sotto l’attuale presidente Ghani che fra un anno s’appresta a ricandidarsi  nonostante il Paese sia allo sbando. C’è il rischio che la real politik, che lo lega alla protezione-direzione della Casa Bianca e ai buoni rapporti coi signori della guerra (Dostum suo vicepresidente, il sempiterno Hekmatyar nominato ambasciatore verso i talebani), si metta di traverso per impedire istituzionalmente ogni richiesta di giustizia. Il rischio esiste, come esiste il caparbio attivismo del Saajs, ripagato da settantamila testimonianze riproposte al Tribunale Internazionale. Ed esiste il coraggio di persone come mister Mohammad che chiosa: “Hanno provato a spararmi vicino casa, non so chi, io sono ancora in vita. Il pericolo c’è sempre: se agisci sei in pericolo, se taci lo sei egualmente. Per me è meglio vivere nel pericolo che nel silenzio”.