Non è escluso che negli ultimi sanguinosi attentati contro la comunità
sciita afghana di Kabul (venti morti il 29 agosto e quarantadue lo scorso 20
ottobre) ci sia la mano dei pendolari del Jihad, quelli che abitualmente
attraversano in alcuni punti stabiliti il confine afghano-pakistano, lungo la
storica linea Durand. Un tragitto gestito dalla Shura di Quetta e ormai noto
alle polizie dei due Paesi, ma da esse ignorato. Le citate stragi sono state
rivendicate dall’Isis contro cui la componente ortodossa dei talib si è apertamente pronunciata. Però in
quell’autostrada del traffico di miliziani, armi, droga e commerci vari può
essersi inserito anche qualche dissidente sconosciuto perché, a detta di
osservatori geopolitici locali, gli attentati rivendicati dalla Stato Islamico
sono compiuti da ex talebani che usano il brand del Califfato. Sia costoro (ad
esempio il gruppo del Khorasan) sia i più numerosi combattenti talebani fanno
di quel confine poroso il proprio territorio. Nessun apparato di sicurezza
sembra interessato a fermarne attraversamenti, flussi, scambi, e creazione di
basi per addestramento, incontri, riposo e riabilitazione dei feriti. E’ una
zona senza controllo terrestre che corre per 2.400 chilometri, toccando un
terzo delle province afghane. Chi ha studiato geograficamente l’area cita ben
235 punti di possibile attraversamento, uno ogni 10 chilometri. Quelli usati
ufficialmente dai mercanti locali sono una ventina, due con check-point
presidiati: la cosiddetta Porta di Torkham, nell’area di Nangarhar e quella di
Wesh-Chaman a sud verso Kandahar. Lì c’è dogana con tanto di poliziotti sui due
lati inviati da Kabul e Jalalabad; non incorruttibili, ma presenti.
Però chi vuole evitare controlli, anche per la semplice
merce legale come frutta e verdura, non dunque per oppio e derivati, sceglie
altri passaggi. Che poi sono gli stessi da decenni, forse da secoli. Gli ultimi
a usarli erano stati i mujahhedin islamici opposti alle truppe sovietiche
intervenute in appoggio al governo del Pdpa e trattate da occupanti. Sigillare
tanti passaggi significa disporre in quei punti migliaia di soldati e rifornirli
periodicamente, esponendoli a quegli attacchi che vengono portati anche in
vigilatissime aree urbane, figurarsi in lande sperdute. Perciò i governi dei
due Stati non hanno mai imboccato questa strada, restando però tagliati fuori
da una presenza sul territorio e da un rapporto con le sue popolazioni.
Prevalentemente d’etnia pashtun e in molte aree legate da relazioni tribali centenarie,
non a caso il Pashtunistan è considerato da molti clan un’entità assai più
credibile degli Stati nazionali afghano e pakistano. Quest’ultimi, lì dove sono
presenti con check point e uomini, mostrano verso la ‘lunga linea dello
sconfinamento’ un comportamento opposto: tendenzialmente repressivo da parte di
Kabul, seppure con risultati di sconsolante incapacità fino a confessarsi
riluttante ad affrontare il problema. Benevolente sul lato di Islamabad, i cui
agenti sembrano offrire il benvenuto ai turbanti e non solo per la comune fede
islamica. Cosicché i transiti proseguono indisturbati con manipoli armati
mescolati alla gente che commercia oppure traffica illecitamente.
Essere lì è sicuramente strategico, perché i talib
stabiliscono relazioni con la popolazione, l’aiutano nel commercio legale e nel
contrabbando, la ‘proteggono’ in cambio di tangenti o favori. I transiti di
Bahramcham, a 300 chilometri a sud di Lashkargah, e quello di Badini, in una
zona più centrale del confine nel distretto di Zabul, sono da una quindicina
d’anni passaggi controllati esclusivamente dai talebani. Nessuna Enduring Freedom o Isaf Mission è riuscita a bloccarne la movimentazione. Solo l’uso
dei droni ha raccolto qualche risultato, colpendo il bersaglio prescelto. Nel
maggio 2016 c’è stato uno strike significativo quando è stato centrato il
pick-up su cui viaggiava il leader Akhtar Masour, neo eletto dopo il lungo
periodo in cui la famiglia talebana aveva celato la morte del mullah Omar
proprio per superare le divisioni interne. Mansour attraversava il confine come
un qualsiasi commerciante, fra gli stessi mercanti della tribù Eshaqzai, e i
vertici talib sospettano che la Cia l’abbia individuato grazie alla lucrosa
soffiata di uno di loro. Quell’operazione venne definita da Obama “un passo verso
la pacificazione del Paese”. Una delle mille boutade del ‘presidente We can’. Dopo
neppure due settimane tutti i talebani d’Afghanistan (dalla Shura di Quetta
alla rete di Haqqani) eleggevano Hibatullah Akhundzada, un chierico molto più
intransigente del precedente capo, che ha accelerato il disegno offensivo
interno. Perché, ben oltre i piani della Casa Bianca e i sogni del replicante
Ghani, il progetto di pacificare l’Afghanistan con un accordo deve fare i conti
col disegno talebano di riconquistare il potere con le armi. Un percorso lungo,
al quale comunque credono.
A fronte d’una propria strategia sempre più aggressiva nel Paese dell’Hindu
Kush i turbanti si trovano a dover contenere politicamente le fughe verso il
Califfato dei dissidenti del Khorasan o i Teerek del Waziristan e altri ancora,
più o meno coperti, che seminano bombe firmandosi Isis. I talebani ortodossi,
che puntano a un proprio governo, utilizzano la frontiera coloniale Durand, ma
pensano alla nazione afghana più che a rincorrere i fantasmi del Pashtunistan.
Ultimamente ricevono minor trattamento di favore da parte pakistana, che per
anni gli ha consentito di addestrare guerriglieri e riversarli oltreconfine.
Una benevolenza non del tutto spassionata da parte di Islamabad, visto che
nelle sue mire di potenza regionale persiste l’idea di tenere i vicini nel caos
per poterne trarre i vantaggi della possibile disgregazione territoriale.
Tuttora permane in territorio pakistano qualche centro di cura per guerriglieri
feriti, ma lo stato maggiore talebano per non trovarsi in difficoltà ha cercato
alternative creando strutture in Afghanistan. La più adeguata dal punto di
vista sanitario è a Nawa, nel distretto di Ghazni. E sebbene permanga il
rischio d’essere infiltrati e traditi, come nell’ipotesi fatta
sull’eliminazione di Mansour, si è programmato di collocare certe basi di
addestramento e casematte non più in aree isolate, che diventano bersaglio
facile e sicuro, bensì fra la popolazione usata come scudo umano. Non è detto
che si evitino con certezza i raid dell’aviazione Usa, anche per quel che
rivelano le accresciute cifre 2016 su vittime e feriti fra i civili, ma la
tendenza degli ultimi tempi ha preso questa direzione. In Afghanistan la guerra
prosegue, come sempre sulla pelle degli abitanti.
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