E’ Binali Yıldırım,
finora ministro dei Trasporti, il nuovo premier turco. Uomo della velocità per
l’esecuzione dei progetti Marmay, il canale ferroviario sotto il Bosforo, di Eurasia,
tunnel automobilistico sempre sotto il livello marino, del ponte Sultan Selism
fra le sponde europea e asiatica, un fedele applicatore della frenesia
tecnologica e commerciale con cui Erdoğan esalta Istanbul, la città che lo
lanciò in politica. Ora Yıldırım orienterà
il suo zelo all’attuazione dei desideri presidenziali e già annuncia che per
chiudere la fase di confusione occorre trasformare immediatamente il sistema
costituzionale in senso presidenzialista. Ciò che Erdoğan pensava al momento della sua elezione
(agosto 2014) diventa praticabile grazie all’asse avviato dall’Akp islamista
col nazionalismo kemalista del Mhp. Un accordo giocato sull’iniziativa di
cancellare l’immunità parlamentare per gli onorevoli che hanno problemi con la
giustizia, norma approvata in Parlamento nello scorso fine settimana con 376
voti scaturiti dai due schieramenti.
Tale voto spiana la strada alla repressione
legale con cui il partito-regime punta a liberarsi dell’opposizione critica di
deputati kurdi e della sinistra eletti nelle liste del partito Democratico dei
Popoli. Molti di loro a breve rischiano di comparire davanti alla magistratura
con l’accusa di fiancheggiamento o diretta partecipazione a cosiddetto
terrorismo del Pkk. Ma l’intesa non finisce lì, può produrre il più importante
effetto di decretare la Repubblica presidenziale ritoccando la Carta
Costituzionale. Occorrono 367 voti, il panorama attuale ne offre nove in più. E’
indubbio che il governo procederà come un rullo compressore per incamerare quel
che il grande architetto dell’operazione ‘dittatura parlamentare’ ha preparato
da tempo con l’utilizzo di una selezionata cerchia di sodali. A giugno la
metamorfosi sarà completata. Yıldırım assieme
all’incarico di primo ministro ha assunto la direzione del partito di
maggioranza (Akp), ma le cronache dalla Turchia narrano dell’ennesima parata
che esalta l’eminenza grigia della grande giostra delle cariche. L’uomo che con
occhio scrutante tutto osserva e ogni cosa comanda: partito, leadership,
premierato, presidenza, Stato, popolo intero. Per tacere di magistratura,
esercito, informazione.
Lo stesso congresso straordinario
dell’Adalet ve Kalkınma Partisi, resosi necessario dopo le
dimissioni del primo ministro e leader Davutoğlu, assumeva contorni e sostanza
di una pura formalità necessaria per mascherare decisioni prese in altra sede.
Il neo segretario (e capo dell’esecutivo) Yıldırım non aveva alcun concorrente
con cui competere, l’unanimità con cui è stato designato ha l’aria stantìa
dell’unanimismo che l’apparato cuce addosso alle comparse d’una meschina
rappresentazione di democrazia. Nuovi leader e ministri recitano la propria
particina, fungono da replicanti stretti attorno all’Atatürk islamista celebrato
come il motore d’una luminosa rinascita nazionale. Ma il sistema oltre ai
sudditi trova compari pronti a ratificare la giustezza della via prescelta. Così
alcuni think tank della politica mondiale, anticipando il voto parlamentare che
incoronerà Erdoğan
signore assoluto, gli confermano questo ruolo. Angela Merkel che lo incontra
stamane a Istanbul è una degli statisti che dovrebbe avanzare dubbi sui passi
autoritari del sultano, ma il tema centrale del colloquio è ancora una volta la
questione profughi, la carta con cui il politico che vuol essere tutto può
praticare doppiezza e ricatto.
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