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martedì 31 maggio 2016

Mostruosità sociale


In queste pagine ci occupiamo di Medio Oriente, trattando purtroppo anche violenza e morte. Ma certe tare maschiliste e patriarcali che opprimono e assassinano le donne sono ben radicate nelle strade occidentali che percorriamo ogni giorno, con l'aggravante ormai di non farci più caso.  

Cronaca nera, antropologia criminale, psicosociologia s’interrogano se quel cannibalismo che vive nei replicanti seriali che siamo diventati - servili coi forti, spietati coi deboli, menefreghisti quanto basta - sia peggiore nella versione “l’amo troppo, vado e l’uccido” oppure “passo, guardo la scena (magari del delitto) faccio clic e tiro dritto”. L’uno e l’altro, due volti del soggetto mostruoso che si definisce ancora umano. In genere di genere maschile, che sa essere più disgustoso per quei vizi sedimentati nei millenni: brutalità e violenza, supremazia e possesso, narcisismo ed egoismo. Ma anche: superficialità e indifferenza, opportunismo e convenienza, viltà e delega. Di cui la misera esistenza d’oggigiorno è piena. Se all’elenco (solo parziale) delle abiezioni nostre, quelle soggettive, s’aggiungono le depravazioni d’un sistema che le coltiva e le nutre, le divulga e le esalta con una pratica quotidiana vicina all’abisso e senza capacità di vivere diversamente, il gorgo s’ingigantisce. Però prosegue, i valori risultano schiacciati dai disvalori, ben mascherati, da casualità, tendenze, pressappochismo, modi di fare. Non si tratta d’inseguire manicheismi ma di salvare le vittime e, potendo, i carnefici inducendoli a non esserlo. Indicandogli altri percorsi, se riescono, e comunque impedendogli di nuocere. Conosciamo, invece, come unica via, sempre quella del dolore e della sua ripetizione. Con criminali che riproducono efferatezze di cui “non si rendono conto”, confusi e dissociati in un mondo distratto e abituato a ogni aberrazione. Così c’è chi pensa di recuperare Caino attenuandogli la pena, che è l’altra faccia di chi lo vuole squartare sulla pubblica piazza, facendogli patire ciò che ha riservato ad altri. Pseudo soluzioni del permessivismo o del fascismo che ci lasciano infantili, irregolari ed ebeti. Irresponsabili e assassini. Recuperare il senso di come e perché esistere può essere obiettivo religioso oppure laicissimo, certamente ragionevole di fronte al nulla riempito di merce, false passioni, amori straparlati di cui c’ingozzano. Di cui siamo scippati senza accorgerci di crepare.

venerdì 27 maggio 2016

Haibatullah, l’uomo della fede

Di lui dicono sia un uomo saggio (alem) e religioso che sfiora un rigore cenobitico. E’ stato insegnante di Ḥadīth e Corano con cui ha guadagnato il titolo di sheikh-ul Ḥadīth. E’ inoltre un profondo conoscitore dei vincoli giurisprudenziali da applicare alle leggi coraniche. Per volere del mullah Omar ha diretto i tribunali che il movimento talebano stabilisce non solo nelle aree controllate da anni, da Kandahar a Logar, ma anche nelle province dove i turbanti setacciano il territorio, si rapportano alla gente, tenendo continuamente sotto tiro l’esercito afghano. Di Haibatullah Akhundzada, così si chiama il nuovo capo attorno al quale si sono stretti tutti i clan Taliban, ci son poche immagini. La più nota – turbante bianco, barba folta, che qualcuno ha confuso con quella di Haqqani jr – pare anche essere una delle poche e di fonte ufficiale. La fornisce il social media dei cosiddetti Emirati Islamici, perché il chierico rifiuta di farsi ritrarre, un po’ per i costumi austeri, ma anche per garantirsi sicurezza, stesso motivo per il quale non usa telefoni cellulari. L’esempio del tiro a bersaglio accaduto al predecessore Mansour ne avvalora la scelta: le Intelligence riservano ai leader nemici trattamenti esplosivi letali, e quest’ultimi cercano ogni precauzione per allungarsi la vita. Finché gli è possibile.
La Shura di Quetta, consultata subito dopo il colpo con cui un drone statunitense aveva eliminato Mansour, ha scelto come leader il chierico che il mullah Omar aveva voluto a guida della Corte militare di Kabul durante il dominio talebano per controllare i costumi e le potenziali violazioni della Shari’a. A lui hanno detto sì anche Yaqub, figlio del mullah Omar, e Siraj Haqqani, gli intransigentissimi del casato talebano. Questo ha evitato l’impasse delle divisioni dell’estate precedente, quando s’è dovuta ufficializzare la guida del movimento che aveva avuto comunque in Mansour un protagonista in tutta la fase in cui Omar era deceduto, ma non si divulgava la notizia. La coppia dissidente mirava ad accaparrarsi una leadership che ha prima premiato uno spregiudicato tattico militare, e ora un intransigente religioso e dei costumi, due mosse che voltano totalmente le spalle alle avances colloquiali della presidenza Ghani. Eppure fra Mansour e Haibatullah le differenze sono sostanziali. Di Mansour si dice fosse un uomo forte, poco propenso ad accettare il dissenso (Haqqani e Yaqub lo sapevano e per questo l’osteggiavano) ma abile nell’organizzare e nell’amministrare ogni cosa. Talmente abile nel ritagliarsi, come qualsiasi signore della guerra, un campo d’affari personali col traffico della droga e altri arricchimenti.
Il successore sembra politicamente più debole, ma il carattere calmo e riflessivo e la propensione all’ascolto lo mettono in buona luce con tutti i membri della Shura. Per lui una garanzia di buona conduzione risiede nel rigore con cui affronta la vita che deve servire da monito e insegnamento ai seguaci. Differentemente da Mansour, attorniato dal clan tribale, Haibatullah è scevro da nepotismo e non è un caso che la sua tribù, i Nurzai, sia stata fra gli oppositori del dibattuto precedente leader e di quella che gli oppositori definivano la sua cricca. Eppure diversi esperti del movimento talebano non credono che il cambio della guida produrrà una diminuzione della linea iper offensiva mostrata negli ultimi mesi che ha esaltato il senso d’appartenenza dei turbanti e la convinzione di poter tornare al potere. Comunque di Haibatullah si conosce un passato senso morale severo contro quei comandanti talib che facevano di testa propria, percuotendo immotivatamente i prigionieri o provocando un alto numero di vittime fra i civili. A costoro la Corte di Kabul comminava pene. Il tema della morte diffusa fra la popolazione è tornato alla ribalta coi dati Unama del 2015 che evidenziano il più alto numero di vittime civili dai tempi dell’Enduring Freedom. Sono state 11.000, uno su quattro era un bambino.
Forse possono essere più temute le restrizioni in fatto di abbigliamento e costumi: lunghezza delle barbe, divieto di ascolto della musica, rispetto alla tolleranza (i duri e puri lo considerano lassismo) avvenuta negli ultimi anni. Però certi editti, su cui ci sarà stata l’approvazione di Haibatullah quale autorevole chierico, avevano consentito l’educazione scolastica femminile, seppure sotto il controllo degli studenti coranici. Sorprende conoscere - ne parla la rete dei ricercatori geopolitici afghani - che finora Haibatullah non rientrava nella lista dei terroristi stilata dalla Cia. Sappiamo come i Servizi statunitensi diano patenti di terrorismo assolutamente soggettive, forse era una dimenticanza o forse non trattandosi d’un soggetto impegnato sul versante militare adottavano una qualche tolleranza. Chissà se il barbuto resterà fuori dal mirino, perché magari i tessitori del disegno dei colloqui di pace lo testeranno, prima d’inserirlo nell’elenco dei target. Certo è che la nuova fase della diplomazia armata in quel Paese riprende immediatamente il suo corso. Perché lanciare e sostenere una strategia della pace e incrementare la guerra selettiva mirata, sebbene sia una tattica consolidata dell’imperialismo non porta normalmente buoni frutti. Anche quelli propagandistici verso le popolazioni che s’intende controllare. Interrogati tuttora molti afghani guardano all’Us Army come nemici e occupanti e ai talib come resistenti e questo è frutto della continuità della dottrina Bush, datata appunto 2001.  

mercoledì 25 maggio 2016

Taliban nelle mani di Haibatullah Akhundzada

Stavolta i taliban afghani non si son persi in chiacchiere e contrasti e hanno eletto velocemente e unanimemente a leader Mawlawi Haibatullah Akhundzada. L’afferma un annuncio emanato ore fa. Del resto il colpo sferrato dal drone statunitense, che nel fine settimana ha fatto fuori Akhtar Mansour, capo per nemmeno un anno, è duro e rischia di sminuire la forza e la spavalderia con cui i turbanti afghani turbano il desiderio di controllo del territorio di Ashraf Ghani e dei tutor statunitensi. Costoro hanno scelto di eliminare Mansour perché si stava dimostrando un elemento addirittura più risoluto del predecessore. Con quest’ultimo gli americani avevano approntato nel 2009 una certa trattativa, poi fallita, mentre l’epigono non aveva accettato nessuno degli inviti lanciati da ottobre a oggi dagli esecutivi afghano e pakistano. In più aveva incrementato gli assalti nelle maggiori città, evidenziando come dietro alla propaganda dell’amministrazione Ghani e delle missioni proseguite da Washington in quel Paese gli sbandierati 350.000 militari dell’Afghan National Force non reggano né assalti guerriglieri né battaglie. Sull’uccisione di Mansour, di cui fra i rottami dell’auto in cui viaggiava nel Belucistan è stato trovato un passaporto pakistano col nome falso di Wali Mohammad, s’ipotizza l’uso d’informazioni provenienti dai servizi di Islamabad.
Ma il governo Sharif, invece, ha sollevato proteste verso gli Stati Uniti per non essere stato avvertito dell’operazione che ha violato (sic) lo spazio aereo pakistano. Comunque di Mansour occorre parlare con tempo verbale passato. Il presente introduce la realtà del nuovo leader: età inferiore ai cinquanta, etnìa pashtun collocato fra i clan Eshaqzai e Alokozai, più intrigato da questioni religiose che da tattiche militari. Di Haibatullah Akhundzada si dice sia vicino alla Shura di Quetta, dunque agli orientamenti che hanno caratterizzato il mullah Omar. Sull’investitura sembra essere d’accordo anche l’integerrimo Sirajuddin Haqqani che, inizialmente aveva contrastato l’elezione di Mansour, accettandone poi la gestione forse proprio per la conduzione offensiva del movimento. La rete di Haqqani risulta assieme ai Tahreek una delle componenti più oltranziste della famiglia talebana che oggi intralcia ogni genere di colloqui col nemico. Intanto alcuni grossi media (Bbc) riferiscono sull’operazione Mansour. Già negli anni passati il mullah era solito viaggiare, ovviamente con passaporto taroccato, verso Dubai. Sarebbero stati viaggi d’affari politico-finanziari con cui esportava denaro proveniente dai traffici dell’eroina cui, come abbiamo ampiamente visto, non è estranea la leadership governativa di Kabul.
Desta però sospetto la notizia, probabilmente di fonte spionistica, che Mansour in questo periodo alcuni viaggi avesse intrapreso tragitti in territorio iraniano. Ipotesi non impossibile, ma che secondo certi analisti sarebbe accreditata ad arte per rinfocolare tensione fra Iran e Pakistan, attori-rivali sul panorama del Grande Medio Oriente. C’è poi l’immagine, fatta immediatamente girare su molti social media, del passaporto col nome falso e la foto di Mansour. Un documento rimasto integro a fronte dell’ammasso di rottami bruciacchiati dai quali sono stati estratti due cadaveri condotti all’ospedale di Quetta. Un reporter della Bbc s’è messo sulle sue tracce dell’uomo con quel nome che risulta aver affittato un appartamento a Karaki, i suoi vicini affermano fosse vestito all’afghana e venisse sempre scortato da guardie del corpo armate. Ma non è stato più visto da alcune settimane. Mentre nell’ospedale pakistano a riconoscere gli uomini deceduti sono giunti un parente dell’autista e un sedicente nipote del sedicente Wali Mohammad. Questo nipote si sarebbe fatto consegnare il corpo per seppellirlo, firmando un documento a nome di Mohammad Rafiq. Così ciò che restava delle presunte spoglie di Mansour si sarebbero volatilizzate, e non sarebbero state mostrate a nessun giornalista. Come quelle di bin Laden; morti sì ma gestiti dalle Intelligence che li hanno uccisi.

lunedì 23 maggio 2016

Erdoğan, l’ora dell’apoteosi

E’ Binali Yıldırım, finora ministro dei Trasporti, il nuovo premier turco. Uomo della velocità per l’esecuzione dei progetti Marmay, il canale ferroviario sotto il Bosforo, di Eurasia, tunnel automobilistico sempre sotto il livello marino, del ponte Sultan Selism fra le sponde europea e asiatica, un fedele applicatore della frenesia tecnologica e commerciale con cui  Erdoğan esalta Istanbul, la città che lo lanciò in politica. Ora Yıldırım orienterà il suo zelo all’attuazione dei desideri presidenziali e già annuncia che per chiudere la fase di confusione occorre trasformare immediatamente il sistema costituzionale in senso presidenzialista. Ciò che  Erdoğan pensava al momento della sua elezione (agosto 2014) diventa praticabile grazie all’asse avviato dall’Akp islamista col nazionalismo kemalista del Mhp. Un accordo giocato sull’iniziativa di cancellare l’immunità parlamentare per gli onorevoli che hanno problemi con la giustizia, norma approvata in Parlamento nello scorso fine settimana con 376 voti scaturiti dai due schieramenti.
Tale voto spiana la strada alla repressione legale con cui il partito-regime punta a liberarsi dell’opposizione critica di deputati kurdi e della sinistra eletti nelle liste del partito Democratico dei Popoli. Molti di loro a breve rischiano di comparire davanti alla magistratura con l’accusa di fiancheggiamento o diretta partecipazione a cosiddetto terrorismo del Pkk. Ma l’intesa non finisce lì, può produrre il più importante effetto di decretare la Repubblica presidenziale ritoccando la Carta Costituzionale. Occorrono 367 voti, il panorama attuale ne offre nove in più. E’ indubbio che il governo procederà come un rullo compressore per incamerare quel che il grande architetto dell’operazione ‘dittatura parlamentare’ ha preparato da tempo con l’utilizzo di una selezionata cerchia di sodali. A giugno la metamorfosi sarà completata. Yıldırım assieme all’incarico di primo ministro ha assunto la direzione del partito di maggioranza (Akp), ma le cronache dalla Turchia narrano dell’ennesima parata che esalta l’eminenza grigia della grande giostra delle cariche. L’uomo che con occhio scrutante tutto osserva e ogni cosa comanda: partito, leadership, premierato, presidenza, Stato, popolo intero. Per tacere di magistratura, esercito, informazione.

Lo stesso congresso straordinario dell’Adalet ve Kalkınma Partisi, resosi necessario dopo le dimissioni del primo ministro e leader Davutoğlu, assumeva contorni e sostanza di una pura formalità necessaria per mascherare decisioni prese in altra sede. Il neo segretario (e capo dell’esecutivo) Yıldırım non aveva alcun concorrente con cui competere, l’unanimità con cui è stato designato ha l’aria stantìa dell’unanimismo che l’apparato cuce addosso alle comparse d’una meschina rappresentazione di democrazia. Nuovi leader e ministri recitano la propria particina, fungono da replicanti stretti attorno all’Atatürk islamista celebrato come il motore d’una luminosa rinascita nazionale. Ma il sistema oltre ai sudditi trova compari pronti a ratificare la giustezza della via prescelta. Così alcuni think tank della politica mondiale, anticipando il voto parlamentare che incoronerà Erdoğan signore assoluto, gli confermano questo ruolo. Angela Merkel che lo incontra stamane a Istanbul è una degli statisti che dovrebbe avanzare dubbi sui passi autoritari del sultano, ma il tema centrale del colloquio è ancora una volta la questione profughi, la carta con cui il politico che vuol essere tutto può praticare doppiezza e ricatto.

domenica 22 maggio 2016

Strike Mansour, talebani nuovamente senza leader

Il Pentagono afferma euforicamente che il colpo inferto da un proprio drone all’altezza della cittadina di Ahmal Wal, sudovest pakistano vicino al confine afghano, sia l’azione più importante messa a segno dai tempi di Abboddabad, dove fra il 1° e 2 maggio 2011 venne fatto fuori Osama bin Laden. Il missile andato a segno stanotte è stato lanciato contro il mullah Mansour, dall’estate scorsa eletto nuovo capo dei Taliban afghani. Una successione sofferta, con l’ingrato compito di rimpiazzare la mitica leadership del mullah Omar, il combattente monocolo che gravava come un totem sulla rissosa galassia dei turbanti afghani. La sua dipartita, avvenuta nel 2013 per malattia, era stata volutamente tenuta segreta perché la guerriglia evitasse una disgregante lotta per il potere. Che pure c’è stata fra i sostenitori appunto di Mansour e chi voleva come guida Yaqub, il figlio di Omar. Ma ai primi dell’agosto scorso, un’esplosione a Quetta si portò via Yaqub, così l’investitura di Mansour non ebbe ostacoli avvicinandogli anche Siraj Haqqani, l’epigono del terribile Jalaluddin, defunto patriarca dell’omonimo network. Clan di nuovo compatti? Solo in parte. Per farsi accettare da clan in ampio fermento, che avevano visto l’alzata di testa degli irriducibili Tehreek-e Taliban, attivi a suon di stragi di bambini (scuola militare di Peshawar e parco giochi di Lahore), e la presenza reclutativa dell’Isis nell’Area tribale federale, Mansour aveva compiuto un’operazione diplomatica. S’era recato nella provincia di Kandahar a parlare con tre figure guida della spiritualità locale. Fra questi il mullah Razzaq, che ne aveva osteggiato la candidatura, si presentava come l’ostacolo maggiore.

Durante quel viaggio c’era anche stato un attentato andato a vuoto. Alla fine, compromesso dopo compromesso, la situazione sembrava stabilizzata a suo favore. Ma indubbiamente l’ala oltranzista dei Talib gli aveva imposto la linea dura. Perché da settembre a Kunduz e per tutto l’inverso e nuovamente a primavera a Kabul, i turbanti neri non avevano minimamente fatto scemare l’offensiva contro l’esercito di Ghani e le truppe americane del Resolute Support. Le trattative a lungo cercate dal governo afghano, ora in sintonia col pakistano Sharif, verso le quali in passati scenari la stessa Shura di Quetta e il mullah Omar s’erano mostrati disponibili, hanno trovato una netta chiusura nell’attuale establishment talebano. Del resto i successi militari, l’espansione della presenza in moltissime province da loro direttamente controllate, dalla fortezza Kandahar all’oppiacea Helmand oppure soggette a continue scorribande, peraltro vincenti e umilianti su AFN e Us Army, portano l’ala intransigente a valutare tutta la debolezza dello stato fantoccio di Kabul sostenuto dall’amministrazione statunitense. L’attuale operazione che fa sorridere il Pentagono, ordinata proprio da un uscente Obama, sembra più un’azione di propaganda per le prossime presidenziali, che non lo riguardano ma coinvolgono i Democratici a sostegno di Hillary. Nella lotta coi Repubblicani di Trump a chi è più duro ed efficace dice all’elettore: sappiamo piegare il fondamentalismo, dopo bin Laden, Mansour. Ma tutto ritorna a quel passato di guerra, lanciato da George W. Bush che dal 2001 ha solo infiammato maggiormente il piccolo e grande Medio Oriente. E come i precedenti mostrano, dopo un capo ne arriva un altro.  

venerdì 20 maggio 2016

Egyptair, il fantasma dell’attentato

Bomba o non bomba, dell’aereo dell’Egyptair esploso in volo dopo una repentina perdita di quota (questa in un primo tempo è stata l’interpretazione di immagini satellitari poi rimessa in discussione) si sa per certo solo che è scomparso dai contatti radar alle 2:30 di ieri notte. A bordo c’erano 56 passeggeri più dieci membri d’equipaggio, tutti dati per dispersi. Il velivolo era a 240 km a sud dall’isola di Kárpathos e stava lasciando lo spazio aereo greco, sarebbe dovuto atterrare al Cairo verso le 3:15. Gli stessi avvistamenti di rottami di sedili e giubbotti di salvataggio in tratti di mare non lontani dall’isola meridionale del Dodecaneso, annunciati dal vicepresidente della compagnia aerea egiziana, sono stati considerati dal ministero della Difesa greco non appartenenti al velivolo inabissatosi. Dunque c’è ancora vaghezza e mistero sulle cause dell’incidente ed è aperta ogni ipotesi. Coinvolti nelle indagini l’Egitto per l’appartenenza del velivolo, la Grecia per l’area dell’incidente, la Francia perché il volo MS804 era partito da Parigi, e per questioni di antiterrorismo varie Intelligence, statunitense in testa. Allo scatenamento di notizie false stanno contribuendo anche frequentatori di social network che hanno postato la foto del recupero dei rottami d’un velivolo finito in mare nel golfo del Bengala, nel marzo scorso, e altre immagini d’altra provenienza.
Si registra anche una rivendicazione, falsa anch’essa, dell’attentato da parte dello Stato Islamico. Gli esperti di volo, interrogati attorno alla scomparsa sottolineano che l’assenza di anomalie a motori e altre apparecchiature può far pensare a un atto di sabotaggio o agguato con esplosivo. Così le ipotesi ruotano attorno a: un ordigno le cui componenti siano state fatte filtrare separatamente e poi assemblate nello spazio dell’aeroporto parigino, al posizionamento d’una bomba nei precedenti scali di Asmara e Tunisi dove si presume che i controlli fossero meno elevati. Però indagini compiute sugli addetti in servizio agli aeroporti francesi hanno evidenziato due fattori di rischio: la possibilità d’introdurre materiale d’ogni genere in aree non accessibili al pubblico e solitamente scarsamente o per nulla controllate. E una cospicua rete di simpatizzanti del Daesh che, da perquisizioni di locali dove hanno accesso inservienti e personale di terra che lavorano negli scali, contenevano materiale di propaganda del fondamentalismo islamico. La connessione fra questo genere di diffusione non legata esplicitamente all’Isis o Qaeda, ma in senso lato al radicalismo salafita e wahhabita, e atti terroristici non è automatica, però è seguita con attenzione dagli inquirenti. E mostra un altro punto debole della quotidianità nella società globale.

Gli esperti di terrorismo ritengono che ulteriori possibili obiettivi potranno essere attaccati tramite attentati, il caso di Bruxelles è ancora sotto gli occhi, così ogni manifestazione di massa (si pensa ai prossimi Europei di calcio in programma in Francia) producono attenzione massima ma non sicurezza assoluta. Il terrore seminato con deflagrazioni aeree o ferroviarie, già usate in passato, continua a rappresentare l’inquietante presenza con cui fare i conti. C’è chi fa notare che l’attentato, in quel caso rivendicato e certo, all’airbus russo dell’ottobre scorso nel Sinai con 224 vittime, è stato un deterrente per viaggi e spostamenti turistici. Le vacanze sul Mar Rosso negli ultimi mesi sono in caduta libera e con un meno 48% le prenotazioni precipitano come gli aerei colpiti. Questo, come prevedibile, è un colpo durissimo per la precaria economia egiziana. E rende il presidente Sisi sempre più nervoso, ma non isolato. I Paesi alleati e amici, a cominciare dalla Francia, gli hanno teso la mano con commesse soprattutto belliche che il duro del Cairo apprezza, ma non può rivolgere contro il Jihad interno. Colpiti restano i cittadini e la vita normale, in Egitto come in ogni angolo del mondo nel quale l’attentatore vive e può celarsi. E quand’è scovato, come Abdeslam, ha già compiuto la missione stragista.