La stazione metro Maelbeek, il quartier generale della
Commissione Europea, la sede del Consiglio d’Europa, l’ufficio regionale delle
Nazioni Unite formano un quadrilatero i cui angoli distano poche centinaia di
metri l’uno dall’altro. A Bruxelles centro, appena fuori l’Ilot sacré, il cuore del cuore della città simbolo della disunita
Europa dell’Unione. Chiunque abbia orchestrato e realizzato gli attentati di
stamane, che hanno pesantemente colpito
anche lo scalo aereo di Zaventen, continua a cercare luoghi affollati (stazioni
bus e metro) presso palazzi-simbolo, com’è accaduto di recente ad Ankara, dove
l’edificio che ospita la centrale della polizia diventava lo schermo su cui
proiettare l’esplosione. Luoghi simbolo, comunque non colpiti, perché la morte
che deve seminare paura, rapisce la gente negli spazi pubblici, chiusi come la
hall dell’aeroporto e la banchina o il vagone del metro. Oppure aperti: la fermata dei bus, la piazza
monumentale di Istanbul. Sangue innocente occidentale ricercato dagli
attentatori, siano probabili kamikaze del Daesh o altri jihadisti, oppure sangue
yazida e cristiano mediorientale, versato due anni addietro.
Ma anche sangue di altre etnie e
confessioni disseminato
con centinaia di migliaia di vittime civili nei conflitti locali, i parenti e gli
amici degli attuali profughi di isole greche, Idomeni e Calais. Qulle che
apertamente dicono: fuggiamo dalla morte! In quest’ultimo caso i macellai non
sono solo miliziani neri. Sono i tanti contendenti
di territori - quello siriano, ad
esempio – o i possessori dell’egemonia nelle province afghane e in molte terre
dove geopolitica fa rima con dominio. Sangue sparso, dunque, dalle più diverse
bandiere. Eserciti, paramilitari, mercenari, predoni che giustificano i propri
crimini con quelli del nemico. Un nemico, peraltro, nel tempo addirittura
cangiante. Se la guerra palese, che dalle nostre case vediamo solo nelle
immagini tv, destabilizza e rende irriconoscibile ogni territorio, devastandolo
e abbrutendone la sopravvivenza, la guerra strisciante, che ci può toccare e
uccidere, insinua terrore e paranoia. Come quegli angoli di strada infestati
dai cecchini, dove si può scamparla o farla finita perché si passa nel momento
sbagliato. Nelle nostre città trasformate in obiettivi d’attacco, dove si
rischia di più? Sarebbe fobico tracciare mappe del pericolo, che può materializzarsi
ovunque e in nessun luogo.
Se la logica dell’attentatore seguirà percorsi simbolici ciascuna capitale,
ogni città e finanche paese potranno
individuarne di propri e tracciare le ‘zone rosse’. Ma luoghi dove
quotidianamente si consuma il tran-tran del popolo minuto, fatto di trasporti
(malmessi), uffici (inefficienti), industrie (sempre più scarse), centri
commerciali (sempre più invadenti) e mercati, scuole, ospedali, tutti possono
diventare bersaglio. E non parliamo dei simboli civili per eccellenza: il
monumento frequentato da turisti, l’affollata via dello shopping, il luogo di
culto, il locale di svago. Già scelti dal ‘sistema della bomba e del kalashnikov’
per colpire, dalla Valle delle Regine vent’anni fa a Luxor, a Istikal Caddesi
qualche giorno addietro, dalla moschea di Najran nello scorso ottobre, al
Bataclan parigino un mese dopo; come un tempo si sceglievano le piazze
sindacali: la bresciana della Loggia nel 1974 e sei mesi fa s’è scelta la
stazione di Ankara. Il conflitto celato che il jihadismo impone al mondo occidentale, rendendo insicuri non solo i siti
vacanzieri dove fino a ieri ci si recava, ma lo stesso tragitto fra
l’abitazione e il posto di lavoro, rappresenta la guerra subdola con cui un
certo fondamentalismo del libro risponde al fondamentalismo del capitale e
della divisa, seminatore di “missioni di pace”. Dovremmo focalizzarci
maggiormente su come nelle guerre palesi, nascoste, mascherate agiscano gli
armigeri e i finanziatori, più gli ideologi di un’esistenza armata che ci viene
già spacciata come imprescindibile.
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