Stavolta non è la telecamera di Cumhuriyet a svelare le magagne del
sultano, ma una sequela d’immagini satellitari che il ministero della Difesa russo
mostra in pompa magna al proprio Stato maggiore e a giornalisti convocati per
una conferenza stampa a Mosca. I fotogrammi evidenziano quello che tutti
sapevano - a cominciare dal Pentagono intervenuto a palese difesa di Erdoğan -
e si teneva celato: autobotti e cisterne turche fanno il pieno di petrolio nei territori
occupati dal Daesh. Il presidente dalla dimora-reggia di Ankara tuona,
affermando che qualora l’accusa venisse provata si dimetterebbe. Ma il servizio
compiuto dagli apparati tecnologici della difesa russa sono molto più che una
prova. Anzi, nella battaglia personale in corso fra Putin, che ha chiesto scuse
mai arrivate per l’abbattimento del caccia sul confine siriano, ed Erdoğan la
stoccata che colpisce quest’ultimo è doppia.
Lo coinvolge come presidente, fino
a poco tempo addietro amico, d’uno Stato strategico in espansione, col suo
orientamento islamico ma per una fase aperto al dialogo, interrottosi e
aggravatosi con la crisi siriana. Lo atterra personalmente come affarista di
famiglia assieme al figlio Bilal, che, a capo della maggiore azienda
petrolifera del Paese (BMZ), sta arricchendosi coi traffici di cui immagini e
mappe esibite dai generali russi mostrano le porte d’ingresso in patria: Azaz,
Al- Qamshili, Siljopi. Con le ultime nomine sancite dal premier Davutoğlu il
clan erdoğaniano ha acquisito un’altra pedina in un posto chiave: Berat
Albayrak, marito di una delle due figlie del presidente, passato alla holding
Calik direttamente al dicastero dell’Energia. Comportamenti simili ai raìs caduti
con le primavere arabe (Ben Ali, Mubarak) o posti in bilico (Asad) da una
contestazione diventata guerra di frantumazione e spartizione del territorio. A
cui concorre la stessa Turchia con gli aiuti a vari gruppi miliziani islamici.
A pensarla male quei traffici non
riguardano solo la famiglia Erdoğan (che ovviamente resta responsabile di
quest’intrigo e di altre corruzioni su cui indagano dal 2013 alcuni magistrati)
perché il doppio binario con cui l’Occidente si rapporta allo Stato Islamico:
guerra (è di ieri l’ennesimo impegno sul fronte militare col via libera della
Camera dei Comuni ai bombardamenti britannici nelle aree controllate dall’Isis)
e mercato potrebbe rivelare altri passaggi d’oro nero a basso costo anche verso
l’Europa e Oltreoceano. Non con
transazioni ufficiali, ma usando mediatori. Informatori affermano come il
petrolio del Califfo sia posto sul mercato a 15-20 dollari al barile, quanti
petrolieri possono essere attratti da quest’affarone visto che tuttora il barile
può essere venduto, nei canali ufficiali, a 40-45 dollari? E come altri
business legati allo sconquasso che le guerre diffuse producono: armi da
vendere, emergenza profughi da finanziare (domenica scorsa l’Unione Europea ha
promesso alla Turchia tre miliardi di euro per il mantenimento dei campi di
accoglienza), potenze e potentati impostano la propria real-politik
aggiungendoci “operazioni” e anche contrasti personali. Quest’ultimo potrebbe
durare, ma anche sgonfiarsi a breve, perché ai due uomini forti i nemici non
mancano.
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