“Come si chiama questo?” domanda il maestro
mostrando un fucile d’assalto. “Kalashnikov”
risponde l’allievo. “E in Pashto?” “Machine” è il riscontro, rapido ma a
mezza voce. “A cosa serve?” “A punire gli infedeli”. “E questa cos’è?” “Una bomba a mano”. “Perché
usarla?” “Per autodifesa”. La
classe della jihad si trova in un villaggio sperduto della provincia di Kunar
nel nord-est afghano. E’ povera, come tutto attorno, ci sono panche e una
lavagna dove si potrebbero offrire rudimenti di materie normali. Invece
l’insegnante, un bel giovane barbuto, dopo aver introdotto una generica
riflessione su cosa sia la jihad passa a mostrare armi e spiegarne l’utilità.
Teoricamente e praticamente. Quello che non si fa, almeno in quel luogo, è un
uso delle medesime, anche perché alcuni allievi sono davvero piccini (quattro,
cinque anni) e inadatti a sparare. Per ora. Sono scene raccolte in un
documentario che i registi Najibullah Quraishi e Jamie Doran hanno girato mesi
addietro e costituiscono una testimonianza viva della nuova fase che l’Afghanistan
sta attraversando con la presenza di gruppi armati affiliati allo Stato
Islamico. In molti casi si tratta di talebani dissidenti che, diversamente
dalla tradizionale linea rivolta allo studio quasi ossessivo del Corano,
pensano a spingere al combattimento i bambini fin dalla più tenera età, non
escludendo sacrifici da kamikaze.
Gli
“insegnanti” teorizzano che la legge islamica indichi di sviluppare le abilità dei
bambini, preparando corpo e mente per la funzione militare del caso. Di minori
il Paese dell’Hindu Kush, ne ha un’infinità. Nonostante la mortalità prodotta
dalle infezioni della povertà e quella per morte violenta causata da raid di
aerei e droni. Quest’ultimi, poi, costituiscono un meraviglioso alibi per i
‘maestri del kalashnikov’ nel proseguire con simili lezioni che parlano
dell’occupazione statunitense. I talebani dissidenti covano il sogno di creare
una generazione combattente che dia corpo a una nuova creatura geopolitica: il
Khorasan. In realtà Wilayat Khorasan,
che in persiano significa ‘dove origina il sole’, è un’amplissima antica regione
che comprendeva tre province centro-orientali iraniane, buona parte
dell’Afghanistan e dell’Uzbekistan, alcune zone del Turkmenistan e del Pakistan
nord occidentale. Attualmente interessa sette province afghane, alcune delle
quali (Herat) sono storiche roccaforti talebane. L’immensa area potrebbe
rientrare nel Califfato di Al Baghdadi che correrebbe dal medioriente siriano addirittura
sino ai confini indiani, sebbene per ora si punti a sradicare l’influenza
talebana e quella del governo Ghani. Nei mesi scorsi nella zona di Nangarhar si
sono registrati duri scontri fra combattenti talib e miliziani del Khorasan con
decine di morti da ambo le parti; mentre l’infiltrazione più prolifica per il
Daesh appare proprio attorno Kunar, che dista circa 40 chilometri da Jalalabad
e non è lontana neppure da Kabul (poco
più di 100 km).
Da mesi
miliziani stranieri
provenienti dai campi di battaglia siriani e iracheni s’affollano in diverse
aree per fare proselitismo fra i giovani e anche fra i bambini, insegnargli a
combattere e dedicare la vita alla causa del Califfato. Più d’un analista,
sostiene come l’Intelligence pakistana sia totalmente al corrente degli
ingressi di foreign fighteirs
attraverso i suoi confini e non faccia nulla per impedirli, anzi. L’ISI (Inter
Service Intelligence) è presente nelle dispute interne ai talebani, come lo è
il Daesh coi suoi emissari in loco. Dopo un conflitto fra le parti la scelta
del mullah Mansour quale successore di Omar è stata rifiutata dai dissidenti
che considerano la candidatura manovrata dai Servizi segreti pakistani. Fra
costoro c’è il figlio di Omar. Oggi leader d’opposizione, come Khan, collocano
fra gli infedeli che la jihad dovrà sconfiggere, quei Taliban diventati organici alle strategie dell’Intelligence
pakistana che ostacolano il progetto del Califfato. La competizione fra
talebani risale a più d’un anno fa e fece leva su alcune spaccature esistenti all’interno
della componente dei turbanti pakistani; ci sono state impiccagioni di capi
nella provincia del Nuristan. Scene crudeli, filmate e mostrate nei mesi scorsi
a vantaggio della lugubre propaganda di
terrore e sottomissione (esecuzioni tramite sgozzamento, impiccagione,
esplosione su mine antiuomo di questi nemici o soggetti refrattari al proprio
volere). Riprese che hanno previsto un meticoloso impegno tecnico (tre telecamere,
mixaggio d’immagini e musica) dirette da una tetra regìa ideologica. Come
l’Isis ci ha abituato a osservare.
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