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lunedì 16 novembre 2015

Khorasan, i figli della jihad


Come si chiama questo? domanda il maestro mostrando un fucile d’assalto. “Kalashnikov” risponde l’allievo. “E in Pashto?” “Machine” è il riscontro, rapido ma a mezza voce. “A cosa serve?” “A punire gli infedeli”. “E questa cos’è?” “Una bomba a mano”. “Perché usarla?” “Per autodifesa”. La classe della jihad si trova in un villaggio sperduto della provincia di Kunar nel nord-est afghano. E’ povera, come tutto attorno, ci sono panche e una lavagna dove si potrebbero offrire rudimenti di materie normali. Invece l’insegnante, un bel giovane barbuto, dopo aver introdotto una generica riflessione su cosa sia la jihad passa a mostrare armi e spiegarne l’utilità. Teoricamente e praticamente. Quello che non si fa, almeno in quel luogo, è un uso delle medesime, anche perché alcuni allievi sono davvero piccini (quattro, cinque anni) e inadatti a sparare. Per ora. Sono scene raccolte in un documentario che i registi Najibullah Quraishi e Jamie Doran hanno girato mesi addietro e costituiscono una testimonianza viva della nuova fase che l’Afghanistan sta attraversando con la presenza di gruppi armati affiliati allo Stato Islamico. In molti casi si tratta di talebani dissidenti che, diversamente dalla tradizionale linea rivolta allo studio quasi ossessivo del Corano, pensano a spingere al combattimento i bambini fin dalla più tenera età, non escludendo sacrifici da kamikaze.
Gli “insegnanti” teorizzano che la legge islamica indichi di sviluppare le abilità dei bambini, preparando corpo e mente per la funzione militare del caso. Di minori il Paese dell’Hindu Kush, ne ha un’infinità. Nonostante la mortalità prodotta dalle infezioni della povertà e quella per morte violenta causata da raid di aerei e droni. Quest’ultimi, poi, costituiscono un meraviglioso alibi per i ‘maestri del kalashnikov’ nel proseguire con simili lezioni che parlano dell’occupazione statunitense. I talebani dissidenti covano il sogno di creare una generazione combattente che dia corpo a una nuova creatura geopolitica: il Khorasan. In realtà Wilayat Khorasan, che in persiano significa ‘dove origina il sole’, è un’amplissima antica regione che comprendeva tre province centro-orientali iraniane, buona parte dell’Afghanistan e dell’Uzbekistan, alcune zone del Turkmenistan e del Pakistan nord occidentale. Attualmente interessa sette province afghane, alcune delle quali (Herat) sono storiche roccaforti talebane. L’immensa area potrebbe rientrare nel Califfato di Al Baghdadi che correrebbe dal medioriente siriano addirittura sino ai confini indiani, sebbene per ora si punti a sradicare l’influenza talebana e quella del governo Ghani. Nei mesi scorsi nella zona di Nangarhar si sono registrati duri scontri fra combattenti talib e miliziani del Khorasan con decine di morti da ambo le parti; mentre l’infiltrazione più prolifica per il Daesh appare proprio attorno Kunar, che dista circa 40 chilometri da Jalalabad e non è lontana  neppure da Kabul (poco più di 100 km).
Da mesi miliziani stranieri provenienti dai campi di battaglia siriani e iracheni s’affollano in diverse aree per fare proselitismo fra i giovani e anche fra i bambini, insegnargli a combattere e dedicare la vita alla causa del Califfato. Più d’un analista, sostiene come l’Intelligence pakistana sia totalmente al corrente degli ingressi di foreign fighteirs attraverso i suoi confini e non faccia nulla per impedirli, anzi. L’ISI (Inter Service Intelligence) è presente nelle dispute interne ai talebani, come lo è il Daesh coi suoi emissari in loco. Dopo un conflitto fra le parti la scelta del mullah Mansour quale successore di Omar è stata rifiutata dai dissidenti che considerano la candidatura manovrata dai Servizi segreti pakistani. Fra costoro c’è il figlio di Omar. Oggi leader d’opposizione, come Khan, collocano fra gli infedeli che la jihad dovrà sconfiggere, quei Taliban  diventati organici alle strategie dell’Intelligence pakistana che ostacolano il progetto del Califfato. La competizione fra talebani risale a più d’un anno fa e fece leva su alcune spaccature esistenti all’interno della componente dei turbanti pakistani; ci sono state impiccagioni di capi nella provincia del Nuristan. Scene crudeli, filmate e mostrate nei mesi scorsi a  vantaggio della lugubre propaganda di terrore e sottomissione (esecuzioni tramite sgozzamento, impiccagione, esplosione su mine antiuomo di questi nemici o soggetti refrattari al proprio volere). Riprese che hanno previsto un meticoloso impegno tecnico (tre telecamere, mixaggio d’immagini e musica) dirette da una tetra regìa ideologica. Come l’Isis ci ha abituato a osservare.


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