Notizie riprese dalla stampa turca
(Hurriyet) riguardo alla dinamica
dell’omicidio di Tahir Elçi rivelano il ritrovamento a terra d’una pistola, non
appartenente agli agenti in borghese in servizio di copertura della conferenza
stampa all’aperto tenuta dall’avvocato dei diritti civili in un punto storico
del rione di Sur: le quattro colonne del minareto della moschea Sheikh Matar. Quattro
giorni prima nel luogo il movimento patriottico giovanile (Ydg-H) aderente al Pkk
aveva innalzato barricate e ingaggiato scontri a fuoco con le forze di polizia
che impongono da mesi il coprifuoco a Diyarbakır e in molte città kurde del
sud-est. La scelta dell’associazione dei diritti presieduta da Elçi di tenere proprio
in quel punto dichiarazioni pubbliche alla stampa era simbolicamente voluta e
il suo discorso sottolineava il desiderio d’uscire dalla spirale
repressione-attacchi che aveva risucchiato la quotidianità della popolazione in
una guerra civile strisciante. Fra le note diffuse dai rapporti investigativi,
e riprese dai media turchi, appare quella del colpo che ha freddato l’avvocato
attivista sparato da circa 75 cm, un colpo che potrebbe essere stato esploso
dal killer che correndo ha poi fatto perdere le tracce oppure dai poliziotti
presenti che tiravano su questo soggetto. Le riprese della sparatoria, diffuse
anche in rete, mostrano gli agenti che rispondono al fuoco partito ad alcune
decine di metri di distanza (secondo ipotesi delle forze dell’ordine potrebbe
essere quello di giovani guerriglieri kurdi, ma potrebbe invece essere prodotto
da infiltrati o agenti provocatori).
Nella concitazione per un attimo
Elçi appare affiancato da colleghi e giornalisti, che si riparano contro un
muro e fra le vetture posteggiate lungo la stretta via che costeggia il
minareto. Quindi il suo corpo esanime s’intravede fra le quattro colonne. Nessun
fotogramma, almeno fra quelli circolanti sul web, mostra l’ipotetico passaggio
dello sparatore. Il leader del Partito Democratico del Popolo Demirtaş,
intervenendo al partecipatissimo funerale del quarantaseienne avvocato kurdo
(oltre 50.000 cittadini di Diyarbakır erano alle esequie) ha ricordato le
parole di pace che l’uomo aveva pronunciato prima di morire, e chi vuole
sostenere che i colpi sono stati portati da combattenti kurdi insinua una diatriba:
essere infastiditi da posizioni critiche che Elçi mostrava verso le barricate
dei giorni precedenti. Ma nel mese di ottobre l’avvocato era stato arrestato ed
era indagato da un procuratore per aver difeso davanti alle telecamere della
CNN turca il Partito dei lavoratori kurdi che, a suo dire, per l’impegno
socio-politico e l’ampio sostegno popolare non poteva essere considerato un gruppo
terroristico. Per tale presa di posizione aveva ricevuto reprimende pubbliche e
pesanti minacce private. Nell’infuocato clima politico che la Turchia sta vivendo
da mesi, se pensiamo solo alla triade degli ultimi giorni: abbattimento del
caccia russo, arresto dei giornalisti del quotidiano Cumhuriyet, assassinio di Elçi, non sarà facile giungere a una ricostruzione
fedele dell’omicidio che rischia di venire strumentalizzato a proprio vantaggio
dal governo. A più prudenti affermazioni di Davutoğlu, Erdoğan aveva opposto
sin dal giorno del crimine la sua litania: il Paese è sotto attacco
terroristico perciò occorre stroncare l’opera
di ogni disturbatore. E la comunità kurda, in tutte le sue vesti e componenti,
è considerata dal sultano disturbatrice e terrorista.
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