Istituzioni e partiti turchi condannano la
strage di Ankara, avevano stigmatizzato anche quella di Suruç, ma dalle
indagini non era scaturito granché. Ipotesi d’infiltrazioni fra i manifestanti
di miliziani dello Stato Islamico o dei Servizi, il casalingo Mıt e non solo. Ma
chi vuole destabilizzare la Turchia? Con l’eccidio della capitale, che triplica
il numero delle vittime rispetto alla precedente tragedia di luglio,
l’obiettivo diretto sono: il partito della novità politica turca, l’Hdp, i suoi
attivisti che s’affratellano e travalicano gli steccati del solo gruppo filo
kurdo. E’ la fusione e il rinforzo che quella comunità e la sua questione
ricevono con la creatura politica che li ha portati al 13% e con cui hanno bloccato
il piano istituzional-autoritario della Repubblica presidenziale. Con la
pratica del terrore diffuso avanza anche il disegno di riportare indietro la
storia turca, farla riconvergere verso l’impossibilità di vivere la politica
alla luce del sole, manifestando, riunendosi nelle strade e nelle piazze. Come
accadeva all’epoca segnata dai golpe degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta
quando la vita collettiva doveva subire il giogo dello Stato armato. Questo
clima la Turchia, che il presidente Erdoğan stava plasmando a suo piacimento,
ha iniziato a riviverlo da un paio d’anni.
Prima con l’assalto alla gioia di vivere dei
ragazzi di Gezi park, anch’essi uccisi per via, schiacciati e umiliati. Quindi
con l’assillante e crescente bavaglio posto ai media, con la persecuzione
all’informazione cavalcata direttamente dal presidente-sultano che, nelle
valutazioni di tanti commentatori non solo interni, viene ormai dipinto come un
autocrate megalomane. Lo scricchiolìo della macchina politico-organizzativa
dell’Akp è sotto gli occhi di tutti, tanto che per tenere salda la propria base
il partito ha dato spazio alla militanza più verace e feroce che nelle
settimane scorse si sfogava rompendo teste e vetrine dell’opposizione politica
e informativa. Ma sembra non bastare. La politica del terrore, che la stessa
Intelligence interna non aveva mai dismesso, tranne che nei mesi dei colloqui
con Öcalan diretti dal suo responsabile Fidan, è ripresa in tono sanguinario
verso i militanti del Pkk e verso chiunque sia solo sospettato di aiuto o
simpatia alla guerriglia kurda. Non ci riferiamo allo scontro aperto fra
esercito e i suddetti combattenti, ripreso con l’asprezza degli anni Novanta,
bensì ai suoi risvolti più spietati contro la popolazione civile, che in
centinaia di casi torna a essere rapita e assassinata sul ciglio della strada
da bande paramilitari.
Magari vicine al presidente o formate da agenti
del Mıt attivi nell’ombra oppure dai mai morti Lupi Grigi. Questa rinata linea
del terrore è la carta con cui oggi si cerca di fermare l’avanzata popolare
della Turchia e della comunità kurda che non si piega ai diktat di Erdoğan,
definito a gran voce “assassino” dai parenti delle vittime di Ankara, così com’era
stato chiamato dalla gente di Soma durante la visita di pragmatica ai minatori
superstiti. Seminare morte, inzuppare il Paese di sangue è la formula scelta
dai manovratori della “Turchia oscura” che, con le elezioni del 1° novembre,
può assumere una fisionomia addirittura peggiore del disastrato panorama di
queste ore. Dietrologi vicini al potere sostengono che lo stesso governo è
sotto attacco, da parte di forze occulte, dell’islamico statunitense Fetullah
Gülen, nemico giurato dell’Islam erdoğaniano, da parte dell’Isis che si
vendicherebbe di attenzioni mancate d’un governo che l’ha protetto e vezzeggiato
o di potenze regionali avverse, a cominciare dai sauditi. Il quadro dell’intrigo
può essere ampio, le sue ipotesi varie, quel che resta e interessa è l’aggressione
alla democrazia e al popolo, un attacco presente ben prima la deflagrazione
delle bombe. E che ordigni politicamente diretti aiutano a rivolgere contro chi
si batte per un’emancipazione dall’autoritarismo, islamico o kemalista.
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