Ci son volute 125 interviste di Human Rights
Watch per confermare quello che strutture democratiche afghane, come la Social
Association Afghan Justice Seeks, denunciano da un decennio: nel Paese
uccisioni, torture, terrore proseguono come ai tempi della guerra civile sotto lo
sguardo assente, e spesso complice, del governo. La chiamata di correo per l’ex
presidente Karzai, introdotto assieme all’Enduring
Freedom da Pentagono e Casa Bianca, è totale. Diversi degli otto “uomini
forti” dell’apparato afghano (Shujoyi, Timur, Karwan, Noor, Kapisa, Alam,
Khalid, Razziq) denunciati dalle cento pagine di rapporto, erano suoi uomini.
Voluti e incaricati per la politica sporca e sanguinolenta, su cui il capo
della Cia Panetta e il presidente statunitense Obama annuivano. Nelle
testimonianze rese, non senza timore, da parte di superstiti e familiari delle
vittime ce n’è per ciascuno degli otto.
Ma i
curricula di Asadullah Khakid, Abdul Razziq, Atta Mohammad Noor superano ampiamente
quelli dei compari. Khalid è un politico della provincia Ghazni, aderente al
partito Ittihad, gli islamici fondamentalisti di uno dei più coriacei signori
della guerra: Rasul Sayyaf, che un anno fa correva per la presidenza. Khalid, dopo
aver lavorato per il National Directorate
of Security (motivo per cui subì un primo attentato nel 2007), dopo essere
stato ministro degli affari tribali, è assurto alla direzione dell’Intelligence
interna, beneficiandone del potere e della prossimità coi consiglieri della
Cia. Per questo la componente talebana più intransigente gliel’ha giurata e nel
2011 e 2012 ha cercato di ucciderlo con altri agguati, tutti falliti. Il
rapporto si dilunga sui trattamenti che gli agenti del NDS riservano anche ai
semplici sospettati di prossimità al fronte talebano, sospettati
unilateralmente e pescati fra la popolazione civile. Come e più di lui in fatto
di macabri dettagli, che descrivono anche le tipologie delle violenze sui
prigionieri, è l’attuale capo della polizia Abdul Razziq. Dietro la faccia di
eterno ragazzo cela una sorta di adorazione per la brutalità. E’ accusato del rapimento e dell’uccisione di
sedici persone come vendetta per l’assassinio di suo fratello. Lui si
giustifica sostenendo che quelle morti avvennero a seguito d’un agguato anti
talebano, ma è smentito da testimoni e da parenti di alcune vittime.
Da quando nel
2011 Razziq ha assunto la dirigenza della polizia si sono verificati sistematiche torture verso gli
arrestati e anche solo sospettati di azioni d’insorgenza. I cadaveri di
cittadini sospetti - fermati, seviziati e mutilati presumibilmente nei posti di
polizia - stati trovati e denunciati da varie fonti (da HRW a Ong afghane che
si sono occupate di violenze sui e fra i civili). Razziq aveva sempre negato
addebiti, sostenendo che il suo “buon lavoro” veniva infangato da tanti nemici.
Sicuramente quelli che potevano ancora parlare… Ultimo, ma non certo di
truculenza inferiore, Atta Mohammad Noor, governatore di Balkh, considerato fra
gli altri crimini un profittatore. E’ responsabile di reiterati accaparramenti
di fondi del piano Nato per l’addestramento e l’implemento di ufficiali e soldati
di truppa afghani. Con quel denaro era solito pagare le sue milizie private,
perorandone l’utilizzo per le carenze d’organico nella polizia della provincia
addebitate a Karzai. L’ex presidente per anni ha sorriso e protetto tutto ciò,
a Kabul dicono perché ne condivideva le ruberie. Al malcontento e ai timori
popolari riguardanti le proprie bande armate Noor rispondeva a tono: “Chi li teme ha legami coi Taliban”. In
realtà la vicinanza a certi talebani era sua: più che combatterli li corrompeva
proponendogli di pagarli in cambio di tregue. Un comportamento tollerato e in
varie circostanze praticato dagli stessi eserciti occidentali, timorosi di
attentati.
Queste mani
insanguinate e menti criminali non salvano le istituzioni passate e lasciano
le attuali davanti a un imbarazzato bivio, visto che in fatto di tortura le
strutture della Nato non temono confronti. Ricordiamo che solo due mesi or
sono, nel dicembre 2014, in piena campagna propagandistica sul “ritiro” militare,
venne alla luce il famoso documento sulle sevizie ai prigionieri che ha fatto
indignare taluni politici d’Oltreoceano. Davanti al report, fortemente voluto
dalla senatrice californiana Feinstein, il presidente Ghani più che uno scatto
d’orgoglio attuò uno scarto d’ostacolo. Condannò ciò che accadeva nel super
lager di Bagram, evitando però di commentare il lungo operato del predecessore
Karzai che anno dopo anno, cattura dopo cattura, sevizia dopo sevizia praticata
dagli occupanti-amici nulla faceva e niente diceva o soltanto pensava. Oggi
sappiamo perché: con le sue squadrette del terrore era in perfetta sintonìa con
quella prassi. A dicembre la forza delle cinquecento pagine di dossier fece
passare con un paio di settimane d’anticipo sui tempi previsti la gestione
della base Nato al governo di Kabul, mentre il raffinato lager di Bagram, che
aziende italiane nel 2010 avevano contribuito ad ampliare, avrebbe dovuto chiudere.
Non sembra sia accaduto. Conoscendo le linee guida del Pentagono pochi credono
al totale allontanamento dei supervisori statunitensi dall’attività di
sicurezza globale. Lecita e illecita.
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