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martedì 10 marzo 2015

Egitto: il complotto, i terroristi, la demonizzazione

Una delle teorie cui la presidenza Sisi dà gran fiato, usando un cospicuo contributo della massmediologia interna (un esempio è l’opinionista el-Menawy qui ospitato su Al-Arabiya http://english.alarabiya.net/en/views/news/middle-east/2015/02/07/Egypt-must-halt-spread-of-blind-terrorism-from-Sinai-.html), si basa sul grande complotto anti patriottico ordito da potenze straniere che avrebbe visto l’asse Doha-Washington supportare l’ascesa della Fratellanza Musulmana, e che continua a tramare contro l’Egitto. Un’ipotesi non accertata ma ammissibile, vista la smania geopolitica che fra le ricchissime petromonarchie del Golfo mostra la dinastia Al-Thani. Altrettanto si può supporre della più corposa monarchia Saud che, come e più dei regnanti di Doha, punta a sostenere un vicino ispirato da propri suggerimenti e petrodollari. E’ l’Egitto dei militari cui, anche in epoca del breve e contraddittorio governo islamico, gli Stati Uniti avevano sempre guardato con interesse, un interesse garantito dalle divise che per ogni politico d’Oltreoceano rappresentano sicurezza. Questa teoria fa molta presa sull’egiziano medio (l’abbiamo verificato di persona un anno fa parlando con diversi cairoti: tassisti, ambulanti, studenti) e continua a cercare capri espiatori.

Fra gli altri, li aveva trovati nei tre giornalisti di Al Jazeera (Greste, Fahmy, Mohamad) ultimamente rilasciati dopo circa 400 giorni di reclusione. L’emittente qatarina è stata al centro di polemiche perché accusata di orientare le tendenze della svolta elettorale pro islamica della ‘Primavera’ egiziana, che aveva prodotto il grande balzo elettorale di gruppi come il Partito della Libertà e Giustizia e di Al Nour,  vincitori delle elezioni tenutesi fra il 2011 e 2012. Sul potere dei grandi fratelli, non solo islamici, ma più ampiamente politico-mediatici si discute dai tempi di Orwell. La real politik ce li mostra attivi dovunque, sebbene in taluni villaggi dei governatorati di Qena o Sahag l’assenza di parabole sui tettini di povere dimore aveva, in ogni caso, portato gente a esprimere consenso per quelle componenti. Le consultazioni furono molto partecipate, il 52% di votanti non si vedeva da decenni. La polarizzazione è uno dei problemi cogenti dell’Egitto, passa per questioni che coinvolgono la vita urbana e rurale, zone abitate e desertiche con tutti gli annessi di popolazione ed economia dei luoghi. Dovrebbe essere superata dal confronto fra due progetti politici che, invece, hanno smesso di parlarsi e puntano a combattersi senza esclusione di colpi.

La demonizzazione dell’avversario è un comportamento incendiario al pari di quegli attentati che sembrano la via scelta da una parte dell’Islam ormai contiguo all’Isis (Ansar Beit Al Maqdis) oppure praticata da solitari del terrorismo. Che potranno anche essere ex attivisti d’una Confraternita ridotta al silenzio, ma che non sono la Brotherhood. La teoria del complotto appare come la versione vittimistica dello stesso disegno che accorpa ogni avversario e individua negli oppositori, magari anche chi sfila ricordando la rivolta 25 Gennaio, un soggetto pericoloso da incarcerare o eliminare. Per questo l’attivista socialista Shaimaa al-Sabbagh è caduta sotto i colpi di cecchini. E come lei migliaia di egiziani. Ultimo capo espiatorio additato da Sisi, è la fazione palestinese di Hamas accusata di fornire armi ai gruppi di beduini e attentatori del Sinai. Idea cara a Israele e all’Egitto dei generali, che ha coadiuvato l’Idf nella lotta contro i tunnel del contrabbando (attualmente il 95% di quei passaggi sono inutilizzati) e ha chiuso a più riprese il valico di Rafah a qualsiasi convoglio, compresi quelli delle forniture alimentari. Con la ferrea condizione imposta da mesi alla Striscia di Gaza, seguita all’ennesimo attacco distruttivo scagliato nella scorsa estate da Israele, la teoria dell’armamento jihadista da parte di Hamas è poco credibile.


Certamente solleva polveroni e cerca di conservare consenso di fronte a quello che inizia a profilarsi come un fallimento: il piano securitario che Sisi aveva propagandato per la sua elezione alla carica di Capo dello Stato. Più d’un analista, non tacciabile di simpatie jihadiste (sebbene coi maestri di pensiero prossimi a generale nulla sia scontato), afferma che anziché agitare il fantasma del complotto, il presidente dovrebbe riconoscere come la ribellione terrorista del Sinai si trascina dietro atavici problemi mai risolti dai tempi di Sadat e Mubarak riguardanti l’autonomia dello Stato, la marginalizzazione e l’abbandono d’una zona sì in gran parte desertica ma abbandonata a se stessa. Oppure usata per creare le enclavi dell’economia turistica (le famose località del Mar Rosso modello Sharm El-Sheikh). Lì si sviluppa il business a senso unico per società afferenti alle Forze Armate egiziane e l’imprenditoria straniera corsara, che utilizza le coste, però al di là dei propri alberghi non crea infrastrutture utili per il turismo medesimo. Su quest’economia puntano le banche saudite, assieme alla corte di Riyad, l’altro fantasma presente in Egitto occultamente imparentato a quel terrorismo che Sisi vuole combattere.

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