Una delle
teorie cui la presidenza Sisi dà gran fiato, usando un cospicuo contributo della
massmediologia interna (un esempio è l’opinionista el-Menawy qui ospitato su
Al-Arabiya http://english.alarabiya.net/en/views/news/middle-east/2015/02/07/Egypt-must-halt-spread-of-blind-terrorism-from-Sinai-.html),
si basa sul grande complotto anti patriottico ordito da potenze straniere che
avrebbe visto l’asse Doha-Washington supportare l’ascesa della Fratellanza
Musulmana, e che continua a tramare contro l’Egitto. Un’ipotesi non accertata
ma ammissibile, vista la smania geopolitica che fra le ricchissime
petromonarchie del Golfo mostra la dinastia Al-Thani. Altrettanto si può
supporre della più corposa monarchia Saud che, come e più dei regnanti di Doha,
punta a sostenere un vicino ispirato da propri suggerimenti e petrodollari. E’
l’Egitto dei militari cui, anche in epoca del breve e contraddittorio governo
islamico, gli Stati Uniti avevano sempre guardato con interesse, un interesse garantito
dalle divise che per ogni politico d’Oltreoceano rappresentano sicurezza. Questa
teoria fa molta presa sull’egiziano medio (l’abbiamo verificato di persona un
anno fa parlando con diversi cairoti: tassisti, ambulanti, studenti) e continua
a cercare capri espiatori.
Fra gli altri,
li aveva trovati nei tre giornalisti di Al
Jazeera (Greste, Fahmy, Mohamad) ultimamente rilasciati dopo circa 400
giorni di reclusione. L’emittente qatarina è stata al centro di polemiche
perché accusata di orientare le tendenze della svolta elettorale pro islamica della
‘Primavera’ egiziana, che aveva prodotto il grande balzo elettorale di gruppi
come il Partito della Libertà e Giustizia e di Al Nour, vincitori delle elezioni tenutesi fra il 2011
e 2012. Sul potere dei grandi fratelli, non solo islamici, ma più ampiamente
politico-mediatici si discute dai tempi di Orwell. La real politik ce li mostra
attivi dovunque, sebbene in taluni villaggi dei governatorati di Qena o Sahag
l’assenza di parabole sui tettini di povere dimore aveva, in ogni caso, portato
gente a esprimere consenso per quelle componenti. Le consultazioni furono molto
partecipate, il 52% di votanti non si vedeva da decenni. La polarizzazione è
uno dei problemi cogenti dell’Egitto, passa per questioni che coinvolgono la
vita urbana e rurale, zone abitate e desertiche con tutti gli annessi di
popolazione ed economia dei luoghi. Dovrebbe essere superata dal confronto fra
due progetti politici che, invece, hanno smesso di parlarsi e puntano a
combattersi senza esclusione di colpi.
La
demonizzazione dell’avversario è un comportamento incendiario al pari di quegli
attentati che sembrano la via scelta da una parte dell’Islam ormai contiguo all’Isis
(Ansar Beit Al Maqdis) oppure praticata da solitari del terrorismo. Che
potranno anche essere ex attivisti d’una Confraternita ridotta al silenzio, ma
che non sono la Brotherhood. La teoria del complotto appare come la versione
vittimistica dello stesso disegno che accorpa ogni avversario e individua negli
oppositori, magari anche chi sfila ricordando la rivolta 25 Gennaio, un
soggetto pericoloso da incarcerare o eliminare. Per questo l’attivista socialista
Shaimaa
al-Sabbagh è caduta sotto i colpi di cecchini. E come lei migliaia di egiziani.
Ultimo capo espiatorio additato da Sisi, è la fazione palestinese di
Hamas accusata di fornire armi ai gruppi di beduini e attentatori del Sinai. Idea
cara a Israele e all’Egitto dei generali, che ha coadiuvato l’Idf nella lotta
contro i tunnel del contrabbando (attualmente il 95% di quei passaggi sono
inutilizzati) e ha chiuso a più riprese il valico di Rafah a qualsiasi
convoglio, compresi quelli delle forniture alimentari. Con la ferrea condizione
imposta da mesi alla Striscia di Gaza, seguita all’ennesimo attacco distruttivo
scagliato nella scorsa estate da Israele, la teoria dell’armamento jihadista da
parte di Hamas è poco credibile.
Certamente
solleva polveroni e cerca di conservare consenso di fronte a quello che inizia
a profilarsi come un fallimento: il piano securitario che Sisi aveva
propagandato per la sua elezione alla carica di Capo dello Stato. Più d’un
analista, non tacciabile di simpatie jihadiste (sebbene coi maestri di pensiero
prossimi a generale nulla sia scontato), afferma che anziché agitare il
fantasma del complotto, il presidente dovrebbe riconoscere come la ribellione
terrorista del Sinai si trascina dietro atavici problemi mai risolti dai tempi
di Sadat e Mubarak riguardanti l’autonomia dello Stato, la marginalizzazione e
l’abbandono d’una zona sì in gran parte desertica ma abbandonata a se stessa.
Oppure usata per creare le enclavi dell’economia turistica (le famose località
del Mar Rosso modello Sharm El-Sheikh). Lì si sviluppa il business a senso
unico per società afferenti alle Forze Armate egiziane e l’imprenditoria
straniera corsara, che utilizza le coste, però al di là dei propri alberghi non
crea infrastrutture utili per il turismo medesimo. Su quest’economia puntano le
banche saudite, assieme alla corte di Riyad, l’altro fantasma presente in
Egitto occultamente imparentato a quel terrorismo che Sisi vuole combattere.
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