Maschere
per nuove insorgenze - Se l’Isis trova nella propaganda uno dei suoi più potenti
cardini c’è chi usa questo marchio e la sua maschera per accreditare un’antica
presenza nel sistema di potere afghano. Perciò la nuova vocazione di alcuni
leader talebani ‘folgorati’ dal Daesh non sarebbe altro che una metamorfosi
tattica. Almeno così la spiega il locale
ministro della difesa Enayatullah Nazai: “Certi
comandanti trasformano le loro apparenze, addirittura mostrando una fede
salafita, ma restano attaccati alla tradizione talebana”. Una posizione
diversa se non opposta da quella sostenuta da taluni politologi che monitorano l’Asia
centrale evidenziando fratture e defezioni nella galassia dei turbanti. Entrambe
le tesi necessitano di verifiche, però certamente il combattentismo
fondamentalista a cavallo del confine afghano-pachistano è in subbuglio. Il
recente avvicinamento fra gli apparati di due nazioni che non si amano
scaturisce da questa crisi; alle crepe talebane guardano anche gli uomini del
Califfato per sondare alleanze e inserimenti possibili. Un punto a sfavore del loro
programma, oltre al diverso credo islamico, è l’integralismo della propria
visione di jihad, considerata superiore a qualunque altra. Essa entra in
conflitto col senso di appartenenza di clan talebani poco inclini a rinunciare
alle radici d’un localismo atavico.
Infiltrazioni
dei Servizi -
Un politico sempre attento al peso tribale come l’ex presidente Karzai non ha
dubbi e taglia corto, affermando: “Chi
solleva la bandiera del Daesh in territorio afghano sono soggetti legati ai
Servizi stranieri”. Idea sostenuta anche dal responsabile dell’Intelligence
afghana Nabil che, nonostante le aperture e i crediti offerti dal presidente
Ghani al potente vicino, non nasconde espliciti riferimenti all’Isi pakistana
come struttura destabilizzante sempre pronta a mestare nel torbido. L’ipotesi,
pur dettata dall’orientamento nazionale anti pakistano, può essere oggettiva,
ma la stessa Islamabad è messa sotto pressione da quel ramo intransigente dei
Tehreek-e Taliban nelle cui file si sono registrate defezioni in odor di Isis. Perciò
una collaborazione che sta stretta ad afghani e pakistani diventa un atto di
realtà politica. Fra le Intelligence anche la russa tiene l’occhio rivolto a
quanto accade nelle aree a ridosso di Tajikistan e Turkmenistan, dove
potrebbero crearsi sacche di adesione a quel piano e dove potrebbero addestrarsi
combattenti locali o stranieri che vanno a rafforzare le milizie dello Stato
Islamico. Per ora quelli conosciuti appartengono ai talebani che ospitano gli
uzkebi del Movimento islamico, già attivi nella provincia di Faryab. Invece il
reclutamento nelle province di Helmand e Farah ha a che fare con certe
insoddisfazioni di capi talebani riguardo ai rapporti fra gruppi tribali.
Conflitti
tribali –
Una valutazione lanciata da alcuni ricercatori di questioni politiche afghane, che
avevano esaminato e studiato il caso Khadem (il comandante talebano
avvicinatosi al Califfato e caduto recentemente sotto il fuoco d’un drone
americano), rileva un contrasto intestino a gruppi etnici locali come concreto motivo
del suo allontanamento. Gli Ishqzai, uno dei maggiori clan del meridione
afghano, già dal 2010 con due elementi minavano l’autorità del capo talebano.
Il logorante conflitto avrebbe spinto Khadem ad allontanarsi con alcuni
fedelissimi per cercare nuove sponde politico-militari e la prima occasione
utile era diventata quella dello Stato Islamico. Comunque il leader taliban teneva
a sottolineare che il suo gruppo non predicava il wahhabismo né pratiche
devianti che potevano offendere la sensibilità del popolo e che non c’era alcun
messaggio settario nel proprio orizzonte. Attorno a talune applicazioni della
Sharia (amputazioni per furti, esecuzioni capitali per taluni crimini) ci
sarebbero differenti interpretazioni fra talebani della vecchia guardia e
miliziani del Daesh, quest’ultimi molto più radicali nelle punizioni e nei
gesti estremi. Per tacere della facilità con cui utilizzano il termine takfir (empio) con un’accezione estrema
che implica la pena di morte.
Oro bianco
e cyber-jihadisti -
Un ulteriore distinguo fra vecchi talebani e nuovi fondamentalisti è il
rapporto con la droga. Il business dell’oppio rappresenta la maggiore entrata
della “economia” afghana, assieme ai cosiddetti “aiuti” internazionali. Il
mercato dell’eroina coinvolge clan tribali, familiari, politici, istituzionali.
Tutte le fazioni islamiste e dei warlords accumulano proventi derivanti da
questo smercio che prende la via dell’Occidente, e finanziano così le proprie
attività e le bande armate. Gli stessi talebani, dopo un’iniziale contrarietà,
si sono convinti della bontà del ricco bottino che ogni anno viene diviso.
Quest’introiti possono far gola agli uomini dello Stato Islamico che da un
punto di vista religioso dovrebbero opporsi a tale commercio. Però, valutati
gli interessi in atto, i jihadisti potrebbero trattare questa come qualunque
altra mercanzia, molto ma molto più vantaggiosa dell’oro nero dei pozzi
occupati in Iraq. In fatto di finanziamenti anche i ricercatori afghani
riferiscono i sospetti sulle donazioni provenienti da nazioni islamiche verso i
talebani marchiati Isis. Poi c’è il web. La campagna comunicativa che vede
l’Isis mutuare tecnologie e costruzione dell’informazione-propaganda dal
proprio nemico occidentale crea fra i ragazzi afghani aperti alla rete un
sentito appeal. Si può parlare di cyber-jihadisti, addirittura con presenze
ufficiali sui social network e pagine su Facebook.
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