Fra la ventina di morti registrati in Egitto nel
week end del ricordo (l’anniversario della Rivoluzione tradita) e
dell’ulteriore protesta (sollevata contro la legge e il presidente che
reprimono i manifestanti) c’è un po’ di tutto. Una dimostrante pacifica e
laicissima, qual era l’attivista socialista Shaimaa, spentasi nel centro del
Cairo fra le braccia d’un compagno di corteo, come mostrano drammatiche
immagini sfuggite alla censura e alla persecuzione giornalistica in atto nel
Paese. Una giovane studentessa colpita ad Alessandria; altri manifestanti
pacifici riuniti sotto la bandiera dell’Alleanza per la Legittimità, islamici e
non, che dall’agosto 2013 accusano i militari di colpo di stato. I caduti di
Matariya, un suburbio popolare a nord della capitale, sono quei giovani marginali
che avevano animato un’infinità di scontri anti polizieschi dalle gloriose
giornate del febbraio 2011 per oltre due anni, pagando un altissimo tributo di
sangue. Poi ci sono due bombaroli esplosi con l’ordigno che stavano innescando
e tre poliziotti, uno ucciso in strada, due colpiti in auto nell’area di Giza,
la popolosissima concentrazione abitativa orientale fra il centro del Cairo e
il deserto che circonda la zona delle famose Piramidi.
Nei giorni precedenti la scadenza del quarto
anno dalla caduta di Mubarak, l’opposizione rimasta a piede libero desiderosa
di mostrare la sua presenza, visto che la stessa voce sul web e sui social
network viene perseguitata, meditava sulla possibilità d’iniziative comuni. Lo
immaginavano gli attivisti del movimento 6 Aprile, gli unici del vecchio Fronte
di Salvezza Nazionale disposti a fare ammenda sulle marce anti Mursi che
avevano aperto la strada alla piena restaurazione attuata dall’esercito. Loro e
taluni tamarod di Tahrir, colpiti dalla repressione alla stregua dei non amati
militanti della Brotherhood, pensavano a proteste collettive. Il contatto
passava per “la gioventù della Fratellanza Musulmana” che però veniva smentita
dalla leadership adulta, così sabato e domenica scorsa l’ipotesi unitaria non
ha preso corpo. Comunque c’è stata una copiosa disobbedienza alla ferrea legge
del novembre 2013 con cui Al-Sisi, ministro della difesa prima d’essere eletto
presidente, colpiva la Confraternita con la messa al bando e la cittadinanza
ostile con divieti draconiani, pena la fucilazione in strada.
Nelle settimane che seguirono quel novembre era
giunto il bavaglio alla stampa con la sostituzione di molti giornalisti
scomodi, e non per questo sostenitori dell’Islam politico, nella tivù di Stato e
in noti media (Al-Ahram). Sino alla
carcerazione preventiva di tre corrispondenti di Al-Jazeera (il processo ai cronisti è in corso, come la loro
permanenza nella prigione di Tora) a causa di servizi che raccontavano la
“transizione” del Paese verso il buco nero d’una dittatura di fatto. Fra le
informazioni cercate dai tre c’era il numero delle vittime o dei desaparecidos
egiziani, notizie mai pervenute da fonte governative, su cui anche associazioni
per i diritti umani muovono esplicite accuse alla casta militare. Che secondo i
calcoli del “generale del destino” s’è consolidata col 90% di consensi
nell’urna presidenziale, l’azzeramento dell’opposizione imprigionata o
fortemente ridimensionata, l’ampio scambio diplomatico verso Paesi europei e
mediorientali che ne sostengono i piani reazionari, sorvolando sulle pratiche
sanguinarie. La chiamata di correo vale per tutti dalla Merkel al neo sovrano
Salman. Proprio Ue e Arabia Saudita hanno compiuto, e promettono di attuare,
passi di sostegno finanziario all’economia della grande nazione araba che resta
disastrosa.
Il popolo di Tahrir si trova tuttora orfano
delle tre parole d’ordine (pane, libertà, giustizia sociale) che
rappresentavano i primi passi d’un possibile cambiamento che non s’è mai
avviato. In verità per incentivare il consenso Sisi ha affrontato la prima
questione alla vecchia maniera, praticata già da Mubarak, riproponendo i
sussidi per quell’alimento di prima necessità (l’altro sussidio riguarda il
carburante e per risanare il disastroso bilancio statale nel 2012 era stato
molto limitato, provocando un crescente malcontento). Sulla libertà è inutile
dilungarsi. La comunità internazionale dovrebbe constatare che molti degli
oppositori laici riempiono le celle delle carceri speciali accusati anch’essi
di terrorismo. E se ripropongono un dissenso rischiano la vita, come e peggio
che ai tempi di Mubarak. Il regime, salvato e rimesso in libertà il raìs e la
sua prole corrotta, si rilancia imperterrito perché trova nella casta militare
un potere tuttora non aggirabile. Sul piano della forza, com’è facile
comprendere, e su quello della forza economica. L’abbiamo ripetuto a lungo: le
Forze armate continuano a essere lo Stato egiziano.
Posseggono gran parte della proprietà terriera e
continuano ad accaparrarne coi metodi truffaldini attuati da Shafiq e i Mubarak
juniores. Controllano produzione e commercio alimentari (cereali e approvvigionamento
d’acqua tramite i pozzi). Industrie di materiale edile, per non parlare dei proventi doganali di Suez
e di quelli, in realtà in anni recenti in ribasso, di buona parte dell’attività
turistica nazionale. Un potere che fa scaturire clientele d’ogni genere perché offre
la possibilità di vivere a una parte della popolazione. Tuttora un ampio
strato, le statistiche lo quantificano in oltre 20 milioni, vive sotto la
soglia di povertà ed è una bomba sociale, finora tenuta a metà strada fra l’assistenzialismo
straccione e la minaccia delle armi. E’
la società che stravede per l’esercito e lo sostiene col voto. C’è anche un
altro Egitto, negli ultimi anni orientato verso l’Islam politico (addirittura salafita)
e uno tuttora minoritario che guarda al jihad. Ma nel mondo arabo tutto è in
movimento, quattro anni dopo la prima ribellione le situazioni possono prendere
le vie più inattese. Quella del dialogo e della condivisione non è mai stata
presa in esame dalla lobby armata. Il Paese resta polarizzato e sempre
spaccato.
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