Mi sono
ricordata di te e ho pianto. Azad ha una bella voce. Anche lui ha pianto quando
stava cantando. Anche a lui manca sua madre che non vede da un anno.
Ieri
abbiamo aiutato un amico ferito. É stato ferito da due proiettili. Non sapeva
molto della seconda ferita quando stava indicando la prima pallottola nel
petto. Stava sanguinando troppo dai suoi fianchi. Abbiamo fasciato la ferita e
gli ho dato il mio sangue. Siamo nel lato est di Kobani, madre…A sole poche
miglia ci troviamo tra noi e loro. Vediamo le loro bandiere nere, sentiamo le
loro radio, qualche volta non capiamo cosa dicono quando parlano lingue
straniere, ma possiamo dire che sono spaventati.
Noi siamo
un gruppo di nove combattenti. Il più giovane Resho è di Afrin. Ha combattuto a
Tal Abyad è si unito a noi. Alan è di Qamishlo, la zona migliore ,ha combattuto
a Sere Kaniye e poi si è unito a noi. Ha qualche cicatrice sul suo corpo. Ci ha
detto che sono per Avin. Il più vecchio è Dersim, viene dalle montagne di
Kandil e sua moglie ha subito il martirio a Diyarbekir e lo ha lasciato con 2
bambini.
Siamo in
una casa alla periferia di Kobani. Non sappiamo molto dei suoi proprietari. Ci
sono foto di un uomo anziano e una di un giovane uomo con un nastro nero, un
martire… C’è una foto di Qazi Mohamad, Mulla Mustafa Barzani, Apo e una vecchia
mappa ottomana che cita il nome Kurdistan.
Non abbiamo
avuto il caffè per un po‘, abbiamo scoperto che la vita è bella anche senza
caffè. Onestamente non ho mai avuto un caffè buono come il vostro mamma. Siamo
qui per difendere una città pacifica. Non abbiamo mai preso parte all’uccisione
di nessuno, invece abbiamo ospitato molti feriti e rifugiati dei nostri
fratelli siriani. Stiamo difendendo una città musulmana che ha decine di
moschee. Le stiamo difendendo da forze barbare.
Mamma, io
vi verrò a trovare una volta che questi sporca guerra, che è calata su di noi,
sarà finita. Io sarò lì con il mio amico Dersim che andrà a Diyarbekir per
incontrare i suoi figli. A noi tutti manca casa e vogliamo tornare, ma questa
guerra non sa cosa significa mancare.
Forse non
tornerò madre. Allora sii certa che ho sognato di vederti per così tanto tempo
ma io non sono stata fortunata.
So che
visiterete Kobani un giorno e cercherete la casa che ha visto i miei ultimi
giorni… è sul lato est di Kobani. Parte di essa è danneggiata, ha una porta
verde che ha molti buchi da colpi da cecchino e vedrete tre finestre, su di una
sul lato est, vedrete il mio nome scritto in inchiostro rosso … Dietro quella
finestra madre, ho aspettato contando i miei ultimi momenti, guardando la luce
del sole mentre penetrava nella mia stanza dai fori di proiettile in quella
finestra... Dietro quella finestra, Azad ha cantato la sua ultima canzone su sua
madre, aveva una bella voce quando diceva “mamma mi manchi”.
tua figlia
Narin (da
Retekurdistan.it)
“Mi sono
ricordata di te e ho pianto” scrive alla propria madre una miliziana kurda delle
Unità di difesa del popolo asserragliata nella Kobanê assediata. E sembra di
vederla quella mamma simile alle donne incontrate sulla via d’un più antico
dolore.
Scempi che si rinnovano e trovano nuovi attori
nei jihadisti dell’Isis che assediano il
simbolo d’una speranza, mentre sono rinnegati da islamici pronti a rigettare
ogni presunzione di guerra santa. Una santificazione che appare malata e
percorre esaltazioni prodotte dall’imperialismo, quello arabo saudita da anni
suggeritore e finanziatore di certo fondamentalismo, quello occidentale cui
piace il fuoco della “pax romana”. Sembra la santificazione reazionaria della
guerra ‘igiene del mondo’ percorsa dai nazionalismi più biechi, anche quando a
cantarne le lodi erano aedi d’indubbie qualità letterarie come Ernst Jünger e Louis-Fernand
Céline. Diversamente da loro c’è chi non crede alle guerre come “il più potente incontro fra popoli”. C’è
chi come la guerriglia kurda le combatte, è costretta a combatterle, sia che si
ribelli cercando una società nuova, sia che si difenda opponendo dignità e
speranze, rincorrendo un futuro di vita, non di morte.
Non lanciamo manicheismi. Non si vuole
santificare una parte e mostrare gli avversari come demoni senz’anima. Fuori da
apriorismi ideologici, s’osserva un panorama fortemente ideologizzato che
espone chiaramente da un lato il senso di coesione e gestione armonica
dell’esistenza non inficiata da esasperazioni etniche, religiose, politiche,
all’opposto un desiderio d’imposizione, omologazione, pensiero unico. Due
tipologie di presente e futuro, una rivolta alla vita, la seconda oscura come i
propri vessilli. Vorremmo leggere, se mai verrà scritta, la missiva d’un
jihadista dell’Isis alla propria madre, per comprendere se al possibile lirismo
mostrato da altri esaltatori della sopraffazione s’unisce l’afflato del
sentimento. Ora abbiamo sotto gli occhi le descrizioni minute di chi ha un gran
cuore: un manipolo di nove combattenti asserragliati in una casa difesa con
armi leggere. Tutto mentre il nemico bombarda dalle colline e possibili
‘alleati’ sono fermi sul proprio confine. C’è speranza nella mente della
guerrigliera Narin, c’è anche l’ipotesi di non poter vedere cosa accadrà domani.
E lo strazio delle madri che sopravvivono ai figli è attenuato solo dall’ideale
di trovare nel loro sacrificio un percorso che continua. Salvare Kobanê è
l’impegno di Narin e dei guerriglieri dell’Ypg perché la vita prosegua.
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