Prosegue
il matrimonio fra Erdoğan e la Turchia. Dopo 12 anni di premierato il politico che incarna
uno dei populismi più intensi presente in un’importante nazione non solo
mediorientale ha ricevuto l’investitura per un nuovo ruolo: la presidenza d’una
Repubblica in odore di presidenzialismo. Il 2% di consensi che si somma al 50%
necessario a battere i concorrenti: Ekmeleddin İhsanoğlu col 38.6 % e Selahattin
Demirtaş col 9.8%, pesa più di quello che gli avversari gülenisti tendono a
sottolineare. Giunge infatti in un momento difficile per il sessantenne che
negli ultimi due anni ha attraversato fasi convulse nella vita privata per
problemi di salute, in quella pubblica per gli scandali di corruzione che hanno
coinvolto suoi ministri e familiari. Con l’aggiunta della radicale
contestazione giovanile nella città-vetrina d’Istanbul, la più filoccidentale
del mondo anatolico, e per la ripercussione di tali contrasti anche in settori
produttivi durante il disastro nazionale di Soma che è costato la vita a ben
301 minatori. In esso è apparso chiaramente il volto speculativo di tanto turbocapitalismo
che ha fatto e sta facendo la fortuna di vari ceti anatolici attraverso un uso
spericolato del lavoro, in barba a misure di prevenzione e sicurezza per
ottimizzare al massimo i profitti.
Ma quegli
stessi imprenditori che non lo amano, perché schierati con l’altro fronte dell’islamismo
affaristico, quello gülenista, come il faccendiere Reza Zarrab considerato uno
dei manovratori delle prove di corruzione della famiglia Erdoğan, non sono
riusciti a impedirgli di proseguire il lungo cammino di potere. Che si dipana (a
meno di impeachment) per i prossimi cinque anni, con l’opzione di ripetere
l’elezione e occuparne altri cinque, così da conservare la guida della nazione
sino e oltre la data del centenario della repubblica turca (2023) in una veste
che l’affianca al mito per eccellenza: la figura di Atatürk. Cosciente della
delicatezza dell’altero progetto, realisticamente consapevole dei passi falsi
che nell’ultimo biennio l’ambizione gli ha giocato sia in politica estera sia
in quella interna, Erdoğan ha di fronte sfide comunque insidiosissime.
Apparentemente meno scottante, ma non di poco conto, sarà quella di scegliere il
volto del nuovo premier, trovando un politico disposto a fargli da spalla in un
ruolo doppiamente ridimensionato dalla sua figura che veste i panni del presidente
dai superpoteri, soprattutto esecutivi.
Dovrà
evitare anodini yes men, e contenere un’opposizione interna che potrebbe raccogliersi
attorno all’ex sodale e Capo di Stato uscente Abdullah Gül. Dovrà guardarsi da
qualche rampante pretendente, presente magari fra i suoi attuali collaboratori,
intenzionato a imitarlo nella scalata al vertice e possibilmente incentivato
dal forte e organizzato movimento dell’imam Fethullah. Sarà una mossa tutt’alto
che semplice. Per rilanciare un rapporto col Paese Erdoğan sceglie un approccio
non solo dialogante, nel quale è maestro, ma pacato, cosa che non gli riesce
granché. Dopo aver pregato nella moschea di Eyüp parla al popolo tutto, oltre i
21 milioni di suoi elettori. Dichiara di volersi occupare della nuova Turchia e
dell’intera popolazione coi suoi problemi e i suoi bisogni. Vuole che si superino
rancori vecchi e nuovi e anche certi errori. Ma per i costituzionalisti il
progetto di “nuova Turchia” ha un approdo preciso, significa spostamento dei
poteri dal Parlamento verso chi siede a palazzo Çankaya. Il piano è già avviato
e non s’attenderà nemmeno il 27 agosto, data in cui il predecessore Gül lascerà
la residenza. Il sultano-presidente freme, già parla di Gaza e guarda altrove, chissà
se con l’oculatezza che ruolo ed età imporrebbero.
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