Scatta l’ora della verità fra i pretendenti alla presidenza della
Repubblica Islamica Afghana, i signori del regime Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani,
il primo è favorito e già avanti nel primo turno elettorale. I due si sono
divisi la benevolenza della comunità internazionale rendendosi disponibili e
interessati al ruolo che fu di Karzai, non certo un campione di
autodeterminazione. Assai determinato però nel sostenere gli affari di famiglia
e clan secondo il diffusissimo manuale che non ha collocazioni geografiche
est-ovest. Vale per tutti i punti cardinali del mondo. L’oliato meccanismo
prevede una disponibilità a non ostacolare i grandi manovratori dello scacchiere
internazionale, ovvero sottomettersi a uno di loro e gestire coi potentati
locali ogni oscillazione fra guerra e pace, fra aiuti “umanitari” e affarismo
più o meno lecito. In Afghanistan dopo l’invasione sovietica di fine Settanta,
la resistenza, la devastante guerra civile, il periodo talebano è in corso da
circa un quindicennio questo modello che anche gli attuali pretendenti
all’amministrazione futura manterranno in vita. Perché conviene a tutti: ai
poteri forti della geo-strategia che vedono tuttora gli Stati Uniti e i più
fedeli alleati Nato dell’Unione Europea perseguire il piano di presenza
militare sul territorio. Si consolida una permanenza sino a tutto il 2016 (non
più 2014) e s’attende il benestare locale per una proiezione sino al 2022 e
oltre. Questo avverrà con la firma del Bilateral
Security Agreement che Karzai ha lasciato in eredità al successore.
Con tale patto l’Occidente, soprattutto statunitense, conserverà e amplierà
le basi aeree militari dalle quali esercitare controllo, osservazione e attacco
nella regione. Il predisposto piano che utilizza l’alta tecnologia spaziale e
quella d’applicazione robotica attraverso i droni costituisce la frontiera
delle guerre latenti e di quelle palesi che s’intendono lanciare. Il suolo iracheno,
nuovamente infiammato da fazioni di parte, s’appresta a ridiventare un
laboratorio per nuove strategie d’intervento. L’altro fronte su cui si troverà
ad agire il prossimo presidente afghano è quello della gestione di affari e
fondi internazionali. In entrambi mettono bocca, il doppio senso è esplicito,
gli ex signori della guerra diventati tutti, direttamente o indirettamente,
businessmen. Le commesse più golose vengono dallo sfruttamento del sottosuolo soprattutto
dei distretti del nord (Faryab, Balkh, Konduz, Badakhshan) dove già operano e
apriranno sempre più ampie perforazioni e miniere la China Metallurgical Group,
e la China Petroleum Corporation, quest’ultima concessionaria principale del
bacino di Amu Darya, vicino alla città di Termiz, sul confine uzbeko. Quindi lo sfruttamento del suolo per
edificazioni dove già pullulano società che afferiscono a warlords e affini
(Mohaqqeq uno dei due vice di Abdullah, oppure Mahmoud Karzai, soprannominato
caterpillar per i suoi modi a dir poco irruenti, proprietario dell’Afghan Friend&Cooperation
Organization) come del resto certe attività di servizio: compagnìe aree di
trasporto interno, ovviamente non per gente comune.
L’altra grande entrata nazionale derivante dall’oppio vede sempre i
signorotti di varie province accordarsi con gli amministratori locali e
nazionali sui piani di coltivazione, e difesa armata dei contadini che coltivano
il papavero, e l’ampliamento della raffinazione locale. La favola secondo cui
erano i talebani a incentivarne produzione e commercio sono da tempo smentiti
da fatti e rapporti. Ufficialissimi, come le relazioni dell’Unodc, struttura
delle Nazioni Unite che studia questa piaga. Da tre anni alcuni clan si
contendono il vuoto lasciato da Ahmed Wali Karzai, il grande signore della
droga che faceva sorridere tante uniformi occidentali. Non semplici marines,
bensì gli ufficiali che arrotondavano con un personale commercio (mostrato da
un accurato scoop di The Guardian) di
pani d’eroina infilati nelle bare che avrebbero dovuto riportare le spoglie dei
caduti a casa. In cambio di tali donazioni il più potente dei Karzai jr non
voleva ostacoli per il suo affarismo. La mafia della droga s’è data sicuramente
nuovi padrini, ma dopo la faida su Wali la tattica usata sembra quella di lasciare
nell’ombra i grandi pescecani e usare i pesci piccoli, maschera dei traffici
gestiti direttamente dagli uomini che siedono nelle istituzioni. L’arma
vincente che dovrebbe portare al potere Abdullah è l’ampia campagna acquisti di
warlords. La sua squadra è una vera nazionale del crimine che lo blinda per
quella gestione corrotta su cui la comunità internazionale chiude entrambe gli
occhi, intenta com’è a divulgare la favola della democratizzazione del Paese. E
raccontando che in queste ore nei seggi c’è più personale e gli osservatori
possono acutamente osservare in tutta tranquillità.
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