A poco più di una settimana dall’avvio del ballottaggio per la presidenza
afghana Adbullah Abdullah, il candidato favorito che nei preliminari ha
ottenuto più voti (45%) e che raccoglie la maggior parte degli alleati politici
(soprattutto signori della guerra) è stato oggetto di un attentato in cui sono
decedute sei persone e ventidue sono rimaste ferite nella località di Mirwais
Khan. Inizialmente si pensava a vittime nel suo entourage ma sia Abdullah sia
la scorta sono rimasti illesi. Secondo lanci d’agenzia testimoni oculari parlano
di due esplosioni succedutesi a breve distanza con l’impressione di attacchi
suicidi. La polizia indaga e forse per questo l’incertezza resta. Il presidente
uscente Karzai e l’altro candidato alla carica di Capo della Repubblica
Islamica Ghani hanno condannato l’attentato quale “intimidazione per il consolidamento della democrazia nel Paese di cui
le elezioni sono un importante passo“. Qualcuno vuol far fuori Abdullah? Non
è escluso. Ma la sequenza di ipotesi è articolata e destinata a restare irrisolta.
La componente talebana che più d’un anno fa voleva porsi in concreta
alternativa alla presidenza Karzai, aprendo un proprio ufficio in Qatar
(peraltro tollerato dalla politica statunitense) può voler sostenere la linea
del boicottaggio elettorale fino alle estreme conseguenze di assassinare il
personaggio più accreditato.
Oppure l’iniziativa bombarola parte da qualche riottoso
alleato
fra i tanti fondamentalisti imbarcati nella campagna acquisti dello sprint
presidenziale. In queste settimane Abdullah ha ottenuto l’appoggio di alcuni
candidati al primo turno come Rassoul, ha riscosso l’adesione di Sayyaf e
Sherzai figure di spicco del passato che non tramonta in fatto di violento controllo
di territori e voti, e d’un altro potentato della forza come Hekmatyar che ha
fatto schierare l’Hezb-i Islami a sostegno del medico che vuol subentrare a
Karzai. Completa il quadro della schiera dei signori della guerra favorevoli ad
Abdullah la coppia dei suoi vice: Mohammad Khan e Mohammad Mohaqqeq,
quest’ultimo impegnato, a suo dire, “a migliorare
i rapporti col mondo occidentale”, sicuramente attraverso la rete degli
appalti pubblici e privati che intende controllare, sostiene chi ne conosce le
malefatte. La logica vuole che nella nuova veste di padrini del business tutti
costoro dovrebbero avvantaggiarsi dall’elezione di Abdullah alla presidenza
proprio per consolidare accaparramenti e speculazioni sugli aiuti occidentali
(negli ultimi tempi 15,7 miliardi l’anno, ma si sono toccate punte di 36
miliardi, cooperazione compresa). Un giro enorme d’affari per politici e
mafiosi locali e per le stesse nazioni “benefattrici” cui ritornano copiose
quote sotto forma di pagamenti per servizi forniti.
Nella sfera dei sospetti esplosivi potrebbero rientrare
anche azioni di disturbo delle potentissime Intelligence regionali: l’Isi
pakistana, la Vevak iraniana, che contendono la piazza alla Cia. Quest’ultima deve
proteggere quella che gli oppositori extraparlamentari definiscono la grande
farsa elettorale. Non trova molto credito l’idea che a usare le maniere forti
sia stato Dostum, duro sì ma non folle da far rischiare ritorsioni sul suo
protetto Ghani. Il cerchio si può chiudere sulla congettura più inquietante: un
attentato autoprodotto dallo stesso Abdullah per vittimizzarsi e accaparrare
preferenze. Ovviamente con tutte le precauzioni per non farsi male davvero e
fomentare un mito di sé pari agli “eroi patri” che hanno subìto attentati -
Massoud e Rabbani - nei loro casi letali. Tutto questo in attesa della nuova
grande mascherata politica che dovrà risultare funzionale agli interessi
geostrategici principalmente statunitensi, ma non solo, e allo sfruttamento del
sottosuolo (terre rare, litio, cobalto, rame e pure idrocarburi) dove le
aziende di Cina e India vogliono farla da padrone. Archiviato il gioco
elettorale, magari senza cadaveri eccellenti, potrà riprendere il tran-tran del
business fra guerra e pace che nel Paese dura da decenni.
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