I
rivoluzionari afghani osservano la parata elettorale. Loro sono fuori dalla
corsa fin dalla presentazione dei candidati, un po’ per scelta e soprattutto
per emarginazione: ricevono l’ostilità e le minacce di signori della guerra
presenti nelle istituzioni; sono tenuti fuori gioco dal grande sponsor di
queste elezioni - la politica statunitense - che essi accusano di sfruttamento e
abuso d’una nazione sovrana; vengono ostacolati dalla burocrazia del presidente
uscente che non hanno mai esitato a definire fantoccio. Seppure minoritari
questi uomini e queste donne sono inseriti in molti gangli del territorio e
un’attivista di lungo corso come Malalai Joya può togliersi più d’un sassolino dalla
scarpa parlando delle presidenziali. Chi dopo l’espulsione dalla Loya Jirga la
voleva morta, e ha attentato alla sua esistenza, ne ha solo accresciuto impegno
e determinazione. Malalai nel pieno della maturità di politica e di donna
prosegue il percorso di lotta e denuncia e non si fa sfuggire l’occasione per
dire la sua sul quadro offerto dalla sfida presidenziale. Un pensiero fatto
circolare sul web con parole e immagini registrate perché nessuna delle pur
numerose emittenti afghane è disposta a rischiare ritorsioni per ospitarla. Non
c’è piazza o sala dove la sua vita sia sicura, dopo la scoperta due anni or
sono d’un piano per ucciderla durante un intervento pubblico in un edificio pur
controllato dalle proprie guardie del corpo.
Joya è al
solito esplicita e determinata, sostiene che in questi mesi i media afghani
sostenuti dagli Usa cercano di manipolare gli elettori illudendoli sul
passaggio alla democrazia attraverso le presidenziali “Si tratta d’una commedia che si ripete. In un Paese sotto occupazione,
guidato da anni da un presidente fantoccio, le elezioni non possono essere
libere, i candidati rispondono a interessi personali e ingannano i cittadini
con false promesse. La popolazione ha avuto di fronte una lista di nomi, non dei
progetti, tutti i candidati sono infami e non lasciano uno straccio di
speranza. Gli statunitensi, sostenitori di questa farsa, hanno incontrato i pretendenti
alla presidenza nella loro ambasciata di Kabul, a porte chiuse, e
influenzeranno il risultato. Ci ricordiamo del 2009 quando nonostante 1.5
milioni di voti truccati Karzai venne dichiarato vincitore. E lui anziché far
luce proseguì sulla via dell’intrigo nominando un boss della corruzione come
Dawood Najafizada ministro dei trasporti e Azizullah Ludin capo degli uffici anticorruzione
dei ministeri. L’attuale Commissione elettorale ha ammesso che 3000 suoi
dipendenti sono coinvolti in frodi, però continuano a lavorare lì”.
Malalai
ricorda l’avvicinamento a Ramazan Bashardost, sempre nel 2009, quando questi presentò
la candidatura alla presidenza del Paese “Avemmo
un confronto franco, gli espressi le mie simpatie, ma immaginavo che gli Usa
non avrebbero mai permesso a una figura patriottica e mossa da vero senso di
libertà di prevalere. Bashardost non mi ascoltò, diceva che se anche Obama
piangeva e strillava, lui avrebbe potuto ottenere voti dalla popolazione. Si
dovette ricredere, tantoché ora è passato a boicottare le consultazioni. Il suo
slogan odierno: - Tu voti, Obama decide – riflette una triste verità della
nostra condizione”. Joya propone valutazioni trancianti bollando le
elezioni come l’altra faccia della forza armata statunitense. Di fatto alimentano
un sistema che offre legittimità a governi che opprimono e praticano
corruzione, arricchimento per pochi e mantengono una povertà diffusa, un vero
insulto al concetto di democrazia. Secondo lei basta guardare le facce, i
curricula dei candidati e dei loro sostenitori: Adbullah, Sayyaf, Helal,
Mohaqqiq, Khan, Dostum, Danish sono i vecchi signori della guerra che
continuano a decidere le sorti della nazione, facendo compromessi con
l’Occidente pur di sopravvivere. Gli Stati Uniti hanno la gravissima responsabilità
di continuare a offrire copertura e patente democratica a costoro. Infine un
messaggio: “Le sofferenze del nostro
popolo avranno fine solo se esso sarà unito e lotterà contro gli occupanti
stranieri e i traditori nazionali per l’indipendenza, la libertà e la giustizia
sociale afghane”.
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