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martedì 29 aprile 2014

L’Egitto della pena di morte


Il pianto disperato di madri, mogli, sorelle sembra non potere nulla di fronte alla decisione della Corte di Minya che sentenzia morte. Seicentottantatre volte. Oppure sì, perché magari dopo la condanna capitale seguirà la tramutazione in ergastolo, com’è accaduto al precedente gruppo d’imputati della Fratellanza. Delle 529 condanne, “solo” 37 dovrebbero vedere la forca. Ma dietro questa crudele rappresentazione della giustizia, dei processi che li precedono, con una sorta di pantomima della magistratura che più che valutare i fatti emana un verdetto già scritto c’è il volto dell’Egitto a una dimensione votato a ribadire la statica immutabilità del potere. Chi decide l’ennesima condanna di massa per 683 egiziani, colpevoli (tutti?) di aver ucciso uno o dieci agenti di polizia, durante la carneficina subìta il 14 agosto 2013 da parte delle forze della repressione, segue un preciso copione politico. Un programma stilato e pattuito da mesi che va a incasellarsi negli eventi precedenti e in quelli che seguiranno. Questi processi al capro espiatorio di ogni male, delle sciagure, delle molte carenze dell’attuale Egitto hanno un nome unico: fratello musulmano. Tale nome, il credo politico che lo circonda, gli ideali e gli errori, le contraddizioni e le sue storture devono scomparire dall’orizzonte del Paese che militari e tradizionalisti vogliono rilanciare. Coi petrodollari di Riyad e il benestare dell’ondivaga Washington che abbraccia e soffoca alleati a ritmi schizofrenici.

E’ il modello d’Egitto dell’ultimo trentennio che torna potente, riproponendo l’ingombrante bagaglio di terrore interiore, seminato nella misera vita dei sobborghi rurali che si rincorrono fin dentro al cuore del Cairo. E’ il sorriso bonario e falso di istituzioni avvizzite nel vizio di corruzione e malaffare definiti interesse nazionale. E’ un Paese - la più grande nazione araba - che sotterra ogni afflato di libertà e dignità, che assieme alla richiesta di pane e lavoro, aveva scatenato la rabbia e le speranze di Tahrir. Tutto, ormai da tempo, disperso nel vento, assieme alle migliaia di martiri, alle decine di migliaia di arrestati, ai divieti e alle minacce tornati imperiosi per il bene della patria. Che s’allargano, avvinghiano nella rete giornalisti, oppositori d’ogni sorta, non risparmiando quelli della prim’ora come il movimento “6 Aprile”, ferreo avversario della Fratellanza, finito anche lui fuorilegge. Della legge che la magistratura sta scrivendo per nostalgici desideri d’un passato a misura d’imperialismo. Alla faccia del balbettante panarabismo delle compiacenti comparse d’un post-post nasserismo. E se Badie, il leader spirituale della Confraternita, senza aspettare il parere del Grand Mufti (che la Corte può ignorare) raccomanda l’anima ad Allah felice del sacrificio, il partito di Abol-Fotouh (Strong Egypt) si scaglia contro le sentenze di morte. Incurante di quel che seguirà. Lo fanno anche i salafiti di Al-Nour, solitamente attenti al calcolo delle opportunità. Mentre un pezzetto di mondo si risveglia dal torpore: s’uniscono alla protesta verbale anche le associazioni per i Diritti Umani e il segretario delle Nazioni Unite, scioccati dall’anomalia in cui versa il Paese che a breve darà ad Al-Sisi la legittimità dell’urna. E il nuovo raìs da neopresidente, magari dispenserà grazie ai condannati, portando la pacificazione in un Egitto politicamente desertificato.  

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