Un’auto-bomba dopo
l’altra e Beirut riprecipita nell’incubo d’una vita a misura d’esplosione, con
la paura, l’apprensione, la rabbia che tornano a dividere gli abitanti. La capitale
ne risulta segnata, chiudendosi in settori ancora più marcati di quelli d’appartenenza
etnico-confessionale: cristiano-maronita sulle colline centrosettentrionali,
sunnita nella fascia centrale e occidentale, sciita nella periferia sud. Alcuni
edifici di quest’ultima area, precisamente nel quartiere di Haret Hreik, sono
stati squarciati dall’esplosione di stamane. Cinque morti e una ventina di
feriti, alcuni gravi. Soldati in strada a prestare soccorso più che a ispezionare
una situazione che scivola sempre più nell’incontrollabile. La latitanza delle
istituzioni è ben incarnata dall’intervista di fine anno del presidente del
Parlamento Berry a un giornale locale. Nel commentare l’attentato mortale a Mohammad
Chatah del 27 dicembre scorso, Berry valutava che la futura bomba sarebbe
potuta toccare alla comunità sciita, come in effetti è avvenuto. Simili esplosioni
che colpiscono vertici politici di vari schieramenti - Chatah era stato
ministro ed era vicino allo schieramento di Saad Hariri, mentre l’auto-bomba di
oggi scoppia non lontano da un luogo simbolo della roccaforte sciita:
l’emittente Al-Manar - possono rappresentare una prosecuzione del conflitto in
corso oltre il confine siriano.
La rivendicazione di
taluni attentati (quello contro l’ambasciata iraniana a Beirut di novembre da
parte delle brigate jihadiste e filo qaediste Adballah Azzam e l’ipotizzata
risposta di ambienti vicini a Hezbollah per l’azione di cinque giorni or sono)
può essere una chiave di lettura. Però usare le strade della capitale libanese,
dove vive la propria gente, come dependance dello sporco conflitto siriano
risulterebbe piuttosto sconveniente al Partito di Dio. E’ più facile che i filo
qaedisti seminino terrore fra gli sciiti del Libano piuttosto che agenti Hez
attacchino in patria gli avversari scatenando rappresaglie nemiche. L’unica
certezza è l’immobilità dell’esercito libanese, ulteriormente confermata da
questi eventi. Certo il nemico armato di auto-bomba pare inafferrabile, agisce
nell’ombra oppure s’infila negli stessi organi di sicurezza. Quest’ultimi possono
aver rilanciato la pratica del terrore che accantona altri temi politici col
fattivo contributo di svariate Intelligence (saudita, iraniana, israeliana,
siriana) che operano nella piccola ma strategica nazione mediterranea a
copertura degli interessi economici, finanziari e geopolitici di tutti questi
soggetti. Le occupazioni militari israeliana e siriana di svariati tratti di
territorio sovrano, operate fra il 1978 e il 2005, rappresentano un passato vivo
nella memoria ormai di tre generazioni.
Ma la politica reale
riporta al presente della guerra per procura che kamikaze combattono a Beirut,
mentre i fratelli jihadisti sono impegnati da Aleppo a Damasco. Dove, sul
versate opposto a difesa di Asad, combattono
anche i miliziani di Hezbollah. I rinvenuti cadaveri di loro commilitoni e in
questi giorni quello mutilato d’un proprio comandante contribuiscono a
riaccendere odi. E se qualche politico per l’attentato a Chatah aveva indicato un
rude schiaffo alla ripresa del processo agli assassini di Rafiq Hariri, di cui
sono accusati in contumacia cinque miliziani di rango del Partito di Dio, negli
odierni commenti politici all’ennesima strage interna nessuno fa più cenno a
tale ipotesi. Ogni leader sembra tremare al pensiero della debolezza d’un Paese
senza governo (Miqati è da tempo dimissionario), addirittura anche i leader
nazionalisti Gemayel (Kataeb) e Geagea (Forze libanesi) parlano di pericolo e
del bisogno di far stringere tutti i partiti a difesa dell’unità della nazione.
L’ex premier Hariri jr, dal suo autoesilio diviso fra Parigi e Riyad, ha invece
tenuto a rimarcare che l’attentato agli abitanti dell’estrema periferia sud
della capitale è diretta conseguenza del coinvolgimento nella guerra siriana
delle milizie sciite. “Interesse dei
libanesi è tenersi fuori dai conflitti regionali”. Facile dirlo dalla
propria attuale posizione, più difficile viverlo a Beirut.
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