E’
sul ponte “12 maggio” del Cairo - osservate le immagini - che si delinea il
futuro dell’Egitto voluto dai laici democratici felicemente avvinti ai
generali. I mitra che sparano dai tetti e quelli che compaiono nelle mani di
qualche manifestante islamico sono il prodromo della guerra civile che si
prospetta. Nello scorso dicembre, davanti al palazzo presidenziale di Al-Ittihadiyyah
e poi ad Alessandria, s’era fatto fuoco con più rudimentali fucili da caccia,
ma la via delle armi è apertissima e vede tanti mercati cui accedere. S’è detto
- la certezza tutt’ora manca - che i cecchini di ieri non fossero agenti in
borghese bensì miliziani di un neonato “Comitato di difesa popolare”, un organismo
voluto dal Fronte di Salvezza Nazionale diretto dalla triade
Moussa-Sabbahi-ElBaradei, quest’ultimo ancora una volta dimissionario dal ruolo
di vicepremier dopo la mattanza del 14 agosto. Su tali apprendisti stregoni
della politica egiziana, a lungo accusatori dei vertici della Fratellanza per
gli oggettivi incerti passi di governo ma indisponibili a qualsiasi collaborazione
e pur anche a investiture ottenute solo grazie alla malleverìa militare, pesa
una buona parte della responsabilità della crisi nazionale. Perché su ogni
questione costoro hanno respinto confronto e dialogo, hanno estremizzato i
rapporti fra gli egiziani polarizzando al massimo ogni accento del quotidiano.
L’odierno
caos fa inchinare tutta la popolazione alla potente casta delle stellette,
anche i seguaci laici che l’applaude. Riconduce i cittadini al servaggio verso
la lobby militare che decide le sorti del Paese. “Incoronazione” del presidente
(per sessant’anni un ex adepto), sorti elettorali, aperture e chiusure del
Parlamento, finanziamenti internazionali e gestione degli stessi per l’enorme
quantità di attività economiche controllate dalle Forze Armate. Altro che
Rivoluzione, Tahrir, vento di libertà e democrazia e pur anche d’islamizzazione,
l’Egitto è dei generali come con re Farouk e col sogno nasseriano. Trascorsi
trasformati in vita densa dei vizi occidentali, corruzione in testa, e della disponibilità
agli interessi d’un colonialismo di ritorno ben oltre il lassismo autoctono
descritto nelle pagine di Mahfuz. L’importanza della rivolta egiziana del
gennaio 2011 consisteva nella rottura del cerchio della paura con cui i bisogni
di chi reclamava pane e libertà apparivano alla luce del sole, superando i
timori della repressione di Mubakharat e baltagheyah,
la falsità del paternalismo mubarakiano, l’immobilismo e l’incapacità d’un ceto
politico poltronista e autoreferenziale. I cairoti dei suburbi poveri laici,
islamici e copti trovavano questo comune denominatore che si fondeva col
desiderio del ripristino della dignità di tanti lavoratori e anche
professionisti dei ceti medi. Per mesi dietro al conflitto fra laicità e
islamizzazione è corso il vero leit-motiv di una Primavera rimasta incompiuta:
la lotta fra chi voleva cambiare e chi no. Guardando a fondo questo fronte
risulta trasversale: progressisti e conservatori vivono in entrambi gli
schieramenti perciò si è assistito a una lotta per il potere. Alla Fratellanza bisogna riconoscere che i suoi
seggi parlamentari e la presidenza della Repubblica erano frutto d’un voto
popolare non di mai verificate petizioni o peggio di smanie golpiste.
Tutto
questo è però il passato. La degenerazione sta nell’aver imboccato la via
dell’odio verso l’avversario contro cui riversare solo violenza; disquisire su chi abbia per primo acceso la
miccia risulta operazione di pura accademia. Il desiderio di polarizzazione e l’incrudirsi
dello scontro politico sono stati praticati da entrambi i fronti (laici che
boicottavano l’Assemblea Costituente e islamici che accelerarono la stesura
della Carta) ma gli assalti alle sedi della Fratellanza, gli scontri fisici e
le sparatorie hanno introdotto la via del non ritorno. Nonostante i mesi di
tregua in cui Qandil e Mursi, pur fra palesi pecche di conduzione, varavano un
nuovo gabinetto invitando personalità laiche a farne parte. Inutilmente.
ElBaradei scuoteva la testa e si prestava alla preparazione del golpe bianco di
Al-Sisi il cui epilogo sono state piazze tinte di rosso e moschee trasformate
in obitori. Mentre qualcuno, magari a insaputa dei leader “utili idioti” inizia
i preparativi paramilitari, più che per affiancare l’esercito alla maniera del
golpismo sudamericano d’altre epoche, per partecipare alla caccia al Fratello.
Ma è sul versante dei colpiti che il simbolo del martirio può non rimanere il
solo lenzuolo bianco e trasformarsi in kalashnikov qaedista e autobomba, come
in Siria, come sta riaccadendo a Beirut. Forse solo a quel punto si penserà che
il fondamentalismo è altra cosa e Mursi poteva essere sostituito semplicemente con
nuove elezioni. Elettorato permettendo.
Nessun commento:
Posta un commento