sabato 7 novembre 2020

Kabul, salta in aria il volto di Tolo tv

Per l’attentato di stamane a Kabul, non c’è stata rivendicazione. Almeno per ora. Ma l’uccisione di uno dei più noti volti di Tolo tv, Yama Siawash, fatto saltare in aria assieme a due persone da un ordigno piazzato sotto il suo camioncino di servizio, può far comodo a ogni componente bombarola, talebana o statoislamista. Ad accorrere verso il veicolo avvolto dalle fiamme  sotto la casa del giornalista sono stati il padre e il fratello, ma i soccorsi sono risultati vani, probabilmente il congiunto era deceduto con l’esplosione, prima che il fuoco avvolgesse l’abitacolo. Da poco tempo Siawash prestava servizio presso la Banca Centrale afghana in qualità di consigliere. La polizia sta indagando, ma come ogni inchiesta locale, sarà difficile chiarire se le cause dell’attentato possano essere riconducibili alla nota attività comunicativa dell’uomo o alla recente collocazione che inevitabilmente l’avvicinava ai palazzi del potere. Sia Abdullah, attualmente al vertice del gruppo di conciliazione nazionale che presiede i colloqui inter-afghani, sia il presidente Ghani hanno bollato il crimine come ‘imperdonabile’. Com’era già accaduto per l’attacco lanciato all’Università di Kabul, rivendicato dall’Isil e attribuito ai talebani da parte del vicepresidente Saleh, anche in questa circostanza un membro governativo accusa una fazione talebana. Il ministro dell’Interno sostiene che ci sia la mano del network di Haqqani, un clan dissidente dell’area taliban, poco propensa alle trattative in corso assunte dalla maggioranza della Shura di Quetta. 
 
Dopo un iniziale tentennamento, il gruppo di Haqqani, è parso accettare la posizione interlocutoria scelta dalla maggioranza dei turbanti, non è chiaro in base a quale informazioni e convincimenti il responsabile degli Interni sostenga la sua tesi. Rispetto a quanto s’è visto da un anno a questa parte, dopo un iniziale adesione al cessate il fuoco, i talebani in varie province hanno ripreso l’offensiva contro obiettivi militari afghani, sottolineando appunto la tipologia dei soggetti colpiti. Ed escludendo altri attacchi. A rigor del vero nei mesi scorsi anche l’Afghan Security Forces ha ripreso i combattimenti contro le milizie talebane. Fra loro la pacificazione non esiste neppure sulla carta. Mentre i gruppi jihadisti, quello del Khorasan risulta il più strutturato, nel proseguire agguati e attentati offrono la doppia dimostrazione di poter agire contro chiunque e beffano gli stessi talebani sulla scottante questione del controllo del territorio. Alcuni osservatori sostengono che le ipotesi di addebitare ai turbanti attentati come l’attuale a Siawash oppure il precedente all’università (lì le vittime sono salite a ventiquattro) sia opera propagandistica della componente governativa che disdegna l’accordo coi taliban. Una posizione incarnata in primo luogo dal presidente Ghani. Frattanto l’ufficio statistico delle Nazioni Unite ha calcolato nel Paese un aumento del 50% di violenze negli ultimi tre mesi. Fra le vendette trasversali consumate in questi giorni spicca quella verso Zarifa Ghafari, attivista che Ghani ha scelto come sindaco di Maidan Shahr, capitale del Wardak. Un paio di giorni fa le è stato ucciso il padre.


martedì 3 novembre 2020

Kabul come Vienna, insanguinate dal Daesh

Chi spara e uccide oggi a Kabul e lo rivendica con decisione e orgoglio è lo Stato Islamico del Levante. Il suo commando ha lasciato straziati a terra e sui banchi di studio ventidue ragazzi colpevoli di volersi laureare, per provare a uscire dalla spirale dell’ignoranza e del fanatismo da cui le milizie del terrore reclutano soprattutto i kamikaze. E mentre lo stesso terrore percorre le strade d’Europa - dove altre armi da guerra imbracciate da miliziani in bianco infondono paura seminando morte - il jihadismo d’Oriente sancisce in Afghanistan la ripresa della sfida interna coi titolati taliban. Questi, impegnati da oltre un anno nella defatigante trattativa prima con gli States, ora col governo di Kabul, patteggiavano e garantivano una tregua che di fatto non è mai esistita. Ma, un conto è violarla di propria iniziativa per condizionare gli interlocutori a Doha, altro diventa subirla da avversari interni (un pezzo del jihadismo dell’Isil proviene dalla dissidenza talebana) che li mettono in difficoltà sul controllo del territorio. In realtà la sicurezza della capitale sarebbe compito dell’esercito afghano. Ma la ridda di azioni sanguinarie succedutesi negli anni in centro città, dimostrano che quei reparti super armati non sono in grado di tutelare nulla. Così Kabul è da tempo terra di tutti e di nessuno. Certo, gli uomini di governo restano blindati nelle proprie roccaforti, si spostano blindati sugli Apache statunitensi e quando, raramente, viaggiano, più all’estero che in altre province del Paese lo fanno volando da una base aerea Usa a un’altra. Ne esistono undici nelle trentasei province e nessun accordo ha deciso di smantellarle. Secondo un copione consolidato e notissimo, vari attentati anche ad autorità o al cospetto di esse, com’è accaduto nell’autunno scorso, hanno mostrato terroristi inseriti nei reparti militari fedeli al regime.

Questo regime liquefatto
che gli stessi talebani incontrano per opportunismo diplomatico, poiché devono concordare con esso le cariche politiche che andranno ad acquisire, diventa l’obiettivo dello Stato Islamico del Khorasan che lancia assalti al sistema attuale per colpire anche la presunta stabilità dell’immediato futuro. Alcuni particolari relativi all’attacco possono suggerire ulteriori letture. Innanzitutto il già citato obiettivo studentesco, appena due settimane fa era stato colpito un istituto frequentato dalla comunità hazara, anche in quest’occasione c’è di mezzo un riferimento allo sciismo o meglio alla nazione dove questo culto impera: l’Iran. Nella struttura accademica si stava inaugurando un’iniziativa incentrata sui libri iraniani. E l’Iran, confinante ingombrante che come il Pakistan mira a condizionare le vicende afghane, è odiatissimo dal fondamentalismo salafita ispiratore della “umma jihadista”. Eppure una voce di peso nei palazzi di Kabul smonta questa versione. Il vicepresidente Saleh, scampato a diversi attentati, l’ultimo nello scorso settembre, sostiene che dietro l’agguato all’Università ci siano i talebani. Dice di ricavarne la prova dal tipo di armi utilizzate dai miliziani, tipiche dei turbanti. L’afferma dall’alto della sua competenza in materia di sicurezza. Poi ci sarebbe una frase tracciata sul muro in una classe, che recita “lunga vita ai talebani”. Dal sito Tolo-news gli risponde piccato il portavoce degli studenti coranici, sostenendo come Saleh lavori solo per diffamare i taliban.

mercoledì 28 ottobre 2020

Erdoğan e la benzina di Charlie

Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi recita un libretto del Belcanto, categoria occidentale che magari l'ultimo sultano, memore delle Tanzimat ottecentesche e della rincorsa ai modelli europei,  avrà, forse, apprezzato. La Turchia attuale, meno laica e nostalgicamente ottomana, ha forse poco senso dell’ironia rispetto ad altre fasi del suo passato. Però dell’Erdoğan sbracato in poltrona in mutande, che l’ultima vignetta di Charlie Hebdo definisce ‘molto buffo’ mentre drinka, solleva il chador d’una musulmana osservandole il posteriore nudo ed esclama “ouuuh! Il profeta!”, offre l’ennesima conferma del delirio di questo gruppo kamikaze della satira. Probabilmente il punto di non ritorno nella redazione del settimanale parigino è rappresentato dalla strage subìta dal suo nucleo storico barbaramente assassinato dal commando jihadista dei fratelli Kouachi. Cosicché incuranti di tutto e tutti, e soprattutto convinti che la satira debba colpire a 360°, i vignettisti ‘libertari’ si sfogano anche con strisce di dubbio gusto. Anche per i senzadio occidentali. Stavolta il bersaglio principale è l’odiatissimo, non solo da loro, presidente turco. Un fante, salito molto in alto, dunque passibile di presa in giro, perché lontano da misticismo, pur reputandosi ossequioso fedele dell’Islam. Peccato non sia l’unico colpito dalla striscia satireggiante. Ancora una volta viene derisa la figura del profeta islamico, lì metaforizzato come ciascuno può osservare. In aggiunta si schernisce una figura femminile, ben oltre l’abito che veste. L’uso della parte anatomica della donna propone un machismo becero che incredibile a dirsi, uscirebbe (sarà così?) dal pennarello di tal ‘Alice’. I più avveduti ribadiranno che la satira vola ben oltre i generi, dunque la vignettista-donna può scherzare sui tratti anatomici al di là dei sessi. Sarà, ma non è questo il punto. Restano, accanto alla questione del buon gusto, due fattori incredibilmente destabilizzanti. 
 
Quello della provocazione religiosa
, nuovamente contro Maometto, dell’offesa a un capo di Stato, che certo si può contestare e deridere poiché appartiene al mondo dei fanti, seppure d’alto rango. Per chi tiene al protocollo – e i caricaturisti ovviamente s’autoescludono – l’oltraggio alle alte cariche d’una nazione diventa vilipendio, come lo è quello a una confessione, considerato poi dai chierici e dagli stessi fedeli una blasfemia. Infine l’attacco di genere è sessismo. Nella vignetta firmata Alice c’è un po’ di tutto, e il bersaglio Erdoğan, trova pane per i suoi denti. Al leader turco che ha fatto della politica - interna ed estera - un terreno di accumulazione di potere, la strategia di cercare nemici per rafforzarsi piace da morire. In più abilmente utilizza la sua funzione nel proporsi difensore di qualcosa. Naturalmente del mondo islamico, della sua gente, di profughi e rifugiati, del popolo turco, dei valori di patria, ultimamente di ‘patria blu’, e della grandezza d’un passato nazionale e imperiale. Negli ultimi anni il suo discusso e discutibile ruolo politico è stato spregiudicato, alla stregua di altri autocrati che manipolano eventi e crisi, per giocare una cinica partita di potere. Eppure l’Occidente che gli si oppone ha commesso e commette errori di valutazione e peccati di vario genere soprattutto sul fronte geopolitico. La Francia in primis, da Sarkozy a Macron. Alcuni presidenti e premier sembrano goffi giocatori di scacchi costretti a subìre umiliazioni dal proprio pressappochismo tattico. Poi, a incrinare ulteriormente la linea dell’Eliseo interviene l’Hebdo con la sua irriverenza egotista, che chissà per quali ragioni viene difesa dalla politica francese come fosse l’étendard sanglant contro la tirannia. Quella di Erdoğan la conoscono in molti, ma la Francia della caricatura e della politica paiono dargli una mano. 

lunedì 26 ottobre 2020

Kabul, sangue studentesco

Il rito della morte esplosiva s’è ripetuto a Kabul. Copioni collaudati e mai frenati, per incapacità, mancanza di volontà, impossibilità. Il kamikaze che s’è fatto saltare in aria portando con sé una trentina di studenti e ferendone altrettanti nell’area ovest della capitale, presso l’Istituto Kawsae-e Danish, è un miliziano dell’Isil. Il gruppo fondamentalista ha rivendicato l’attentato senza fornire prove. I talebani hanno rigettato ogni responsabilità. Com’era accaduto nel maggio scorso, quando alcuni jihadisti del Khorasan avevano sparso sangue di neonati e madri hazara, a perdere la vita sono stati adolescenti sciiti fra i diciassette e diciotto anni che si recavano nel centro per prepararsi alla prova d’ammissione universitaria. Un dispaccio delle Forze di sicurezza afferma che l’attentatore aveva provato, senza esito, a entrare nell’edificio dove il numero dei giovani che avrebbe potuto colpire era decisamente superiore a quelli decimati fuori. Saltati in aria anche alcuni agenti di polizia che vigilavano l’ingresso, una protezione introdotta dal governo dopo un simile attentato che nell’agosto 2018 aveva sfregiato un’altra scuola nel quartiere di Dasht-e Barchi. Comunque la misura non ha preservato il luogo dall’ennesima esplosione. I filtri sarebbero dovuti essere molto più fitti, ma il sito non era certo d’importanza strategica come i palazzi governativi, ed era dotato solo d’un simulacro di sicurezza. A mescolare ancor più le carte – è già accaduto in molti attentati – è stato l’abbigliamento del kamikaze: non il turbante miliziano bensì una divisa militare che lo rendeva del tutto simile ai veri soldati posti a presidio. 
 
Alcuni testimoni hanno riferito che dopo l’esplosione, fra gli studenti e i passanti accorsi a prestare soccorso, qualcuno filmava la scena col proprio cellulare. I poliziotti intervenuti fermavano quei giovani, sequestrando i telefonini. “Non siete in grado di proteggerci e ci sequestrate” gridavano quegli studenti, non è servito a nulla. La morte violenta che da decenni straccia il Paese, nonostante le ultime sedicenti intenzioni di consolidare un futuro di coesistenza pacifica, vede altrove protagoniste le forze talebane. Nelle province dove i comandi dei turbanti contano molto più dei governatori di Ghani, i taliban hanno ripreso le offensive contro l’esercito afghano. Nei giorni scorsi era stata Emergency a lanciare un sos internazionale dalla provincia dell’Helmand, dov’è presente con un proprio centro chirurgico per vittime di guerra dal 2004. Il portavoce dell’ong sottolineava che dalla prima decade di ottobre avevano ricoverato e curato oltre cento pazienti, poi dal 19 del mese c’era stata un’impennata di arrivi. Una sequenza disperata, addirittura una cinquantina in un giorno, alcuni dei quali gravissimi e deceduti dopo poche ore. Nell’Helmand si registrano evacuazioni di decine di migliaia di persone che cercano riparo altrove. Ma anche le province di Farah, Kandahar, Kunduz e Badakhshan sono sconvolte da azioni di guerra più che di guerriglia. I tavoli aperti, non solo non annunciano la pace, non marcano neppure una tregua. 

sabato 24 ottobre 2020

Mufti libera: “Il Bjp demolisce la Costituzione, spacca l’India, ruba i diritti agli oppressi”

Dopo quattordici mesi di pesante detenzione Mehbooba Mufti, leader del Partito Democratico del Popolo ed ex primo ministro dello Stato indiano Jammu e Kashmir, ha parlato in una conferenza stampa dopo essere stata rilasciata una decina di giorni fa. Mantenendo fede alla fama di politica d’acciaio ha esordito denunciando le posizioni del Bharatiya Janata Party responsabile di “voler demolire la Costituzione nazionale” e di sostituirla con un manifesto di proprie volontà di partito animate dal fondamentalismo confessionale hindu. Mufti ha accusato anche tanti colleghi che minimizzano la situazione interna, mentre operazioni come l’abolizione dell’articolo 370 della Carta (sull’autonomia del suo Stato) e la norma denominata Citizenship Amendment Act (che ammette l’ingresso in India alle minoranze confessionali di nazioni confinanti a eccezione dei musulmani) puntano a polarizzare la già complessa situazione interna. “Penso che il governo stia rubando i diritti degli oppressi e della grande comunità dei dalits (storicamente la gente fuori dalle caste, ndr)” ha tuonato al microfono. Quindi: “La leadership del Bjp vuole scippare il territorio del Jammu e Kashmir alla popolazione, quella formazione non s’interessa dei bisogni delle persone, vuole solo annettere la regione e decidere in solitaria cosa farne”. 
 
Ha poi aggiunto:
Noi siamo incompatibili col ceto politico del Bjp che mira al saccheggio dei beni del Paese, disprezza le minoranze e chi ha fatto propria la storia indiana e la sua scelta liberale, democratica, secolare”. Gli strali volano su Modi e la sua cricca accusata d’aver fallito su ogni terreno da quello economico, disastroso ben oltre i problemi creati dalla pandemia, alla convivenza che viene tranciata cercando capri espiatori nei kashmiri (sottoposti dall’agosto 2019 a uno stato d’assedio militare), agli islamici e perfino ai dalits. Nel contraddittorio con la stampa è venuta fuori la questione dell’errore tattico compiuto nelle elezioni del 2014 dal suo partito che si accordò col Bjp. La leader ha sottolineato che ci può essere rammarico per essere finiti, in quella fase particolare, al fianco d’un partito che comprendeva soggetti come il vecchio capo Vajpayee, che fu anche primo ministro ma il cui spirito estremista era noto, per aver militato nei gruppi del fondamentalismo hindu come il Rashitriya Swayamsevak Sangh (formazioni paramilitari fascistoidi e razziste). “Il nostro partito proseguirà l’impegno per rilanciare l’autogoverno del Jammu e Kashmir, continueremo a farlo secondo la politica pacifica che ci caratterizza”. Se la caparbia opposizione a Modi le consentirà d’infiammare future conferenze e piazze è tutto da verificare.

martedì 20 ottobre 2020

Nagorno Karabakh, l’indesiderata guerra per procura

Le granate d’artiglieria pesante riprese a cadere copiose sulle abitazioni, a Stepanakert come a Ganja, che portano i vertici militari di Armenia e Azerbaijan a giustificare i morti civili – trecento, cinquecento? – come “danni collaterali”, neanche fossero le potenze padrine delle due comunità tornate a disputarsi il Nagorno Karabakh, hanno un comune fornitore: la Russia putiniana. Che ha fatto dire al ministro Lavrov: questa guerra non s’ha da fare, sebbene le tregue avviate il 10 e il 18 ottobre siano durate qualche giorno e poi poche ore. Baku ed Yerevan smaniano per azzuffarsi spargendo più sangue civile che militare. E la Russia pro armena (esiste un trattato di difesa militare che lega l’Armenia e altre nazioni caucasiche all’ex Urss, l’Azerbaijan non è fra queste), non ha usato nessun soldato in funzione del medesimo accordo. Perché pensa - e lo fa dire a Lavrov - che la diatriba si risolve sui tavoli di pace, non sui campi di battaglia. Invece gli armeni sostengono che Ankara, come già fece in Siria, stia infiltrando o favorendo l’accorrere di mercenari filo-azeri, filo-turchi e jihadisti. Le prove sono finora scarse. L’ipotesi plausibile, visto che dopo il confronto muscolare in Siria Erdoğan e Putin, avversari diventati amici, si sono misurati nel deserto libico, pur indirettamente a suon di mercenari (in questo caso russi) e tecnologia aerea (i droni da combattimento TB2 Bayraktar che hanno avuto la meglio). Ma l’eventuale scontro per procura, i due uomini forti sembra non vogliano realizzarlo, Mosca ancor più di Ankara. S’incrinerebbe un intreccio affaristico fra due Paesi e due autocrati che nell’ultimo triennio hanno gestito favorevolmente ed entrambi guadagnato dai musi duri e dalle strette di mano.

Come detto l’Azerbaijan non è legato da patti militari con Mosca ma è guidato da un ex militare, Ilham Alyev, succeduto a suo padre, un politico formatosi nel Kgb sovietico. Proprio come Putin. Nell’ultimo decennio il Paese ha ricevuto dalla Russia, comprandole, una gran quantità di forniture belliche, e speso addirittura 24 miliardi di dollari. Sarebbe più corretto definirli petrodollari, poiché le molte ricchezze azere provengono dalle sue riserve energetiche. Comunque Baku acquista armi da vari soggetti, dopo la Russia ci sono Turchia e Israele. Simili forniture irritano il governo Pashinyan che investe molto meno in materiale bellico (4 miliardi di dollari nello stesso periodo, secondo dati forniti dall’Istituto di pace di Stoccolma). Il Cremlino non si preoccupa degli altrui umori specie di quelli poco inclini ad accettare ‘suggerimenti’, come fa l’attuale premier armeno ben disposto verso il liberismo occidentale e critico al sostegno moscovita alle tendenze separatiste di taluni territori (Donbass, Abkhazia, ecc). Certo nella controversia, Putin (ed Erdoğan) si mostrano reciproci protettori delle confessioni armena e islamica, ma pare più una posizione imposta dal ruolo pubblico che l’uno e l’altro vestono in casa propria e sulla scena mondiale. Però talune conflittualità irrisolte possono creare strascichi proprio ai gestori dei grandi giochi internazionali; per questo il realistico Lavrov punta a spegnere la brace caucasica.

lunedì 19 ottobre 2020

Egitto, americani per i diritti


Tempo di elezioni a stellestrisce e i deputati statunitensi riscoprono il tema dei diritti in politica estera. Cinquantacinque democratici del Congresso hanno sottoscritto una lettera stilata da tre avvocati del proprio schieramento. La missiva è indirizzata al presidente egiziano al Sisi, senza mezzi termini gli si chiede di rilasciare attivisti, giornalisti, avvocati incarcerati per aver rivendicato l’applicazione dei diritti in quel Paese. “L’ingiusta detenzione in Egitto di difensori dei diritti umani, di attivisti e pacifisti è in netta opposizione alla tutela e alla libertà degli essseri umani custodite nella legge egiziana e in quella americana” afferma perentorio un passo della lettera. I deputati statunitensi esprimono timori anche per la complessa fase di pandemia che i luoghi affollati, come sono le celle delle prigioni cairote, rendono particolarmente pericolosa per la propagazione del virus. Un contagio che avviene fra i detenuti (ultimamente sono deceduti in carcere quattordici affetti da Covid-19) e fra gli stessi agenti di custodia. Sul punto c’è un attacco diretto a Sisi in persona cui è attribuita la volontà di tenere bloccati i prigionieri, con un’insensibilità senza pari attorno alla medesima questione della salute. Il testo fa un diretto riferimento ai finanziamenti militari degli Usa all’Egitto, che fra i Paesi armati da Washington occupa la seconda posizione assoluta. Ne deriva un esplicito avvertimento, anche in funzione del prossimo cambiamento d’indirizzo politico nell’amministrazione della Casa Bianca auspicato dai firmatari. Se in futuro Sisi vorrà ottenere le ‘preziose forniture’ dovrà addivenire a più miti consigli verso le decine di migliaia di cittadini bloccati in galera. Alcuni da anni, altri per anni come sancisce la norma del rinvio perpetuo del fermo e dello slittamento infinito dei processi subìto da molti di loro. La lettera ne ricorda i più noti: i militanti politici Ramy Shaath, Alaa Abdel Fattah, Zyad el Elaimy. Gli avvocati el Baqer ed el Massry; i giornalisti Solafa Magdy ed Esraa Abdel Fattah.