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giovedì 21 agosto 2025

Pakistan, diluviano attentati

 


Se il dramma periodico, incrementato dal cambiamento climatico, è tornato a essere la turbolenza delle inondazioni che in queste settimane mietono morti a centinaia e avevano provocato milioni di sfollati nell’ultimo triennio, l’inquietudine del potere pakistano resta l’impatto jihadista sulla società. Ci pensano e ne discutono i vertici politici e militari, in diverse circostanze scarsamente collaborativi fra loro, con uno strapotere di quest’ultimi capaci d’influenzare e imporre svolte clamorose pur sotto la maschera parlamentare. Ne sa qualcosa l’ex premier Khan ostracizzato dall’esercito e vittima di processi per corruzione, reale o presunta, da parte della magistratura. Ora i rapporti fra l’attuale capo del governo Shehbaz Sharif e il capo di Stato maggiore Asim Munir paiono filar lisci in funzione d’un fronte comune antiterrorista. Perché gli stranoti Tehreek-e Taliban, il gruppo Hafiz Gul Bahadur, i separatisti dell’Esercito di liberazione Baloch usano il precario equilibrio regionale per condurre attacchi e intensificare operazioni davanti a squilibri e crisi che pongono Islamabad in acerrima concorrenza con Delhi o nell’intento d’influenzare chi comanda a Kabul, solo per citare i confini prossimi. E’ un dato di fatto che con la guida talebana i fratelli e i gruppi jihadisti d’oltreconfine hanno goduto di tolleranza e aiuti in diverse province afghane, dove si sono rifugiati per ripararsi dalle retate delle Forze Armate prima del generale Bajwa poi di Munir, fino a potersi riorganizzare e addestrare per rilancare assalti a strutture militari e civili in Pakistan. La loro logica continua a essere destabilizzare la sicurezza, dimostrare l’impossibilità di controllo in territori che ribollono di contraddizioni sociali e una visione dell’islam differente dai canoni statali. Un attivismo attentatore non dissimile da quello praticato dall’Isis-K dentro dell’Emirato afghano. Secondo valutazioni di analisti del jihadismo globale l’odierno TTP rinvigorito in Afghanistan può contare su 6-7.000 miliziani capaci di combattere anche con armamenti tecnologicamente avanzati, acquisiti  dall’arsenale che l’Us Army ha abbandonato con la ritirata dell’agosto 2021. Armi in certi casi trasportabili in casa e utilizzate nelle località prescelte per gli assalti. 

 


La linea su cui s’è orientata la leadership di Islamabad d’ogni colore, i partiti dei clan Sharif, Bhutto e anche gli alternativi di Khan, punta a evitare sanguinose repressioni interne simili alla famigerata Zarb-e Azb di metà 2014, quando il Waziristan del Nord, area d’origine prediletta dai TTP, fu messa a ferro e fuoco, con esecuzioni sommarie di miliziani (ne vennero eliminati un migliaio) e uccisioni di oltre duemila civili fra loro familiari e coabitanti. Ne seguirono un’evacuazione forzata di circa un milione  di persone, squilibri sociali con ricadute politiche e confessionali. Insomma alla lunga il ‘terrorismo statale’ non ha pagato, sebbene avesse parzialmente tamponato la diffusione jihadista. Nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa partiti laici come l’Awami e la storica formazione islamica deobandi Jamiat-Ulema-e Hind s’oppongono fermamente al ritorno della forza bruta per inseguire una sicurezza sociale che poi oggettivamente sfugge. Certo, agenti dei Servizi interni sempre in odore di doppiogiochismo, certificano come nell’ultimo biennio i favori dei taliban afghani sono stati molti e hanno rivitalizzato varie formazioni, oltre alle citate sono ricomparse le sigle di Lashkar-i Islam, Inqilab-i Islami che sacrificano meno uomini d’un tempo servendosi per gli attentati di droni, quindi gli stessi strumenti o roba simile a quella che perseguita il jihadismo. Peraltro questi droni non sono autoprodotti, provengono dal mercanto internazionale della tecnologia di guerra. Sulla copiosa ricomparsa di tale  destabilizzazione intervengono anche le potenze mondiali. Il feldmaresciallo Munir ha avuto recenti incontri con gli omologhi statunitensi, e anche il colosso cinese si preoccupa delle turbolenze pensando, come al solito, alla sua pianificazione economica. Quella del corridoio sino-pakistano che ha per acronimo CPEC, lanciato nel 2015 quando a Islamabad sedeva Sharif major, il fratello dell’attuale premier. Gli effetti, arricchiti da sessantadue miliardi di dollari, tanto è il business che gira attorno a questo percorso avrebbero ricadute positive anche sul vicino Afghanistan. Perciò questa settimana i ministri degli Esteri Wang Yi e Ishaq Dar, provenienti da Pechino e Islamabad, e Amir Muttaqi, padrone di casa a Kabul si sono incontrati per rilanciare il piano in base a un clima politico esente da contrasti fra gli Stati e logoramenti terroristici. Le preoccupazioni cinesi sono d’ordine strutturale, riguardano la certezza di poter usare infrastrutture e manodopera senza incappare in attentati. I gruppi separatisti del Balochistan preoccupano più d’ogni altro, poiché non solo attivisti ma gli abitanti locali considerano le maestranze cinesi predoni delle loro risorse. Le statistiche del 2024 fornite dall’Istituto internazionale di studi sulla sicurezza sono esplicite: gli attacchi sono aumentati del 5%, i decessi del 121%, i ferimenti dell’84%. Ed è difficile che l’affarismo placherà il credo jihadista che si nutre d’altro e si finanzia per vie diverse.

lunedì 18 agosto 2025

Morti o profughi

 


Lasciare Gaza city “volontariamente” chiede un pezzo di Israele, il pezzo maggioritario, i nove milioni che attivamente o stando a guardare garantiscono a Netanyahu di proseguire gli eccidi contro il milione che chiede il rientro a casa di Tsahal. Chi non scende in strada sta col governo sterminatore? Beh sì, secondo una parte ulteriormente minoritaria dei manifestanti, la componente pacifista a prescindere, mentre gli altri contestatori del premier vogliono il recupero dei prigionieri tuttora detenuti da Hamas. Poi della Striscia rasa al suolo, per loro, sarà quel che sarà. Invece, al Kiryat Hameem pensano al futuro secondo il mai archiviato piano di evacuazione di chi abita da millenni quella terra, un termine dai contorni chiari e storicamente tragici per molte etnìe, compresa quella ebraica: deportazione. Per la ritrosia dei vicini Egitto e Giordania -  che comunque in base alle logiche del compenso economico, militare, geopolitico non restano esclusi a priori dall’ingrato compito di carcerieri per delega - si rincorrono le alternative africane e asiatiche. Sì, si pensa di collocare migliaia di famiglie, oltre due milioni di persone, per salvarle, proprio così, da bombe e fame, in Libia, Sud Sudan, Somalia. E poi in alcune delle migliaia di isole indonesiane. Migliaia e migliaia di chilometri dalla terra natìa, lontano dalla propria storia, cultura, tradizione. Al desiderio di cancellarne il rapporto ancestrale col passato che fa dei palestinesi un ceppo semita lavorano i sostenitori del disegno politico del Grande Israele, che non nasce certo con Netanyahu, ma che lui sposa e sostiene col sollazzo degli alleati ultraortodossi di governo. E’ un moto che si trascina l’idea della totale sottrazione della Cisgiordania agli abitanti di quei territori, occupati nell’ultimo sessantennio per mano militare dall’Idf, e da oltre trent’anni dalle armi dei coloni messianici e non. Eguale strategìa riguarda la fascia meridionale del Libano, l’occidente siriano, tutto rimescolato dai venti di guerra regionali e interni rinfocolati da vari attori, con vantaggi strategici solo per alcuni e disastri umanitari per milioni di cittadini ridotti a profughi. 

 

La condizione di fuggiasco ed esule, consigliata e imposta, ai gazawi in alternativa alla morte certa sulla propria terra, segue la persecuzione stabilita con fasi periodiche nelle quali il ceto politico d’Israele meditava l’espulsione o la galera di fatto per la gente della Striscia, impossibilitata ad allontanarsi, tenuta in uno spazio limitato con privazioni esistenziali crescenti viste le periodiche e sempre più atroci operazioni belliche e inumane. Così, per rassicurare la società ebraica raccolta in Medioriente i gazawi dovrebbero finire in situazioni geopolitiche ulteriormente turbolente, in Stati falliti come l’attuale Libia, dove sette milioni di abitanti prevalentemente islamici si barcamenano fra il governo sedicente unitario di Hamid Dbeibah, che controlla il nord-ovest, e le milizie del generale Haftar padrone del Levante. Un luogo dove sono reclusi decine di migliaia di migranti subsahariani, dove spiccano centri di detenzione e tortura come la tripolina Shara al-Zawiya, dove s’aggirano criminali stupratori di nome Almasri, beneamati da governi occidentali come quello italiano perché gli contiene gli sbarchi di migranti. Oppure il Sud Sudan, in cui dieci milioni di locali che seguono riti animisti e cristiani e attualmente rispondono al presidente ex generale Kiir Mayardit, potrebbero riprendere il conflitto geopolitico e tribale con lo Stato del nord interrotto un quindicennio addietro. Per tacere della Somalia, un territorio di bande e signori della guerra che annovera disastrosi interventi di sostegno economico, ma anche militare, da parte dell’Occidente ex coloniale, capaci di offrire fiato al jihadismo di al-Shabab. Attualmente su dodici milioni di abitanti si contano quasi due milioni di sfollati interni, mentre l’esecutivo di Sheikh Mohamud, in carica dal 2012 e legato ad al-Islah (Fratellanza Musulmana), non offre la stabilità sperata a fazioni federali, unioniste, separatiste ciascuna padrona d’un pezzo della nazione macchiata da aree fuori da qualsiasi controllo ben trentun’anni dopo l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Quindi il gigante indonesiano: 290 milioni di abitanti, Islam maggioritario e altre sei fedi, Prabowo Subianto come neo premier, legato comunque alla lobby militare che col colpo di mano di Suharto (al potere dal 1967 al 1998) oscurò il nazionalismo di Sukarno emancipatore dai Paesi Bassi nel Secondo dopoguerra. Siamo ancora nell’era di trapiantare le afflizione d’un popolo sulle altrui cicatrici?

sabato 16 agosto 2025

La visita del boia

 


Non sono un terrorista, non sono neppure un pacifista. Sono semplicemente un normale uomo della strada palestinese che difende la causa difesa da ogni oppresso: il diritto di difendermi in assenza d’ogni altro aiuto che possa venirmi da altre parti”.  Lo dichiarava Marwan Barghouti in occasione del suo arresto il 15 aprile 2002, quand’era in corso la Seconda Intifada, e lo statunitense Washington Post ne diffuse il concetto. Marwan è un palestinese di Ramallah e basta già questo per farlo odiare da gran parte degli israeliani, ma è molto di più d’un uomo della strada. Certo, per via s’è forgiato, ha acquisito coscienza umana e politica entrando quindicenne fra le file di Fatah. Una coscienza e un’adesione alla causa del suo popolo per le quali viene perseguitato già a diciott’anni con un primo arresto. In prigione impara la lingua ebraica, liberato ottiene da studente una laurea in Storia e una in Scienze politiche. Diventa un leader, partecipa alla Prima Intifada ed è eletto nel Consiglio legislativo palestinese finendo Segretario generale di Fatah per la Cisgiordania. Un’adesione alla linea laica del partito di Arafat, ma un distinguo sempre più marcato sancito durante la Seconda Intifada, alla quale partecipa con la componente delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, che continuano a praticare ogni tipo di resistenza all’occupazione israeliana dell’Idf e degli insediamenti coloniali, distinguendosi totalmente dal resto del partito. Per questo viene definitivamente arrestato nel 2002 e accusato d’essere il mandante di azioni svolte dalle suddette Brigate durante la rivolta. I pluri ergastoli inflittigli da un Tribunale di Tel Aviv in assenza di prove rappresentano una condanna ideologica a un politico di spicco che, nella fase della rinuncia alla lotta da parte dei vertici di Fatah, proclamava una linea di difesa della popolazione palestinese e del proprio futuro. Visti la vacuità degli Accordi di Oslo e il ben chiaro disegno d’Israele di stravolgerli a suo unico vantaggio. 

 

Barghouti ha sempre rappresentato l’esempio del palestinese, uomo della strada o militante, che non si piega ai voleri della linea ebraica - sionista o religiosa o l’attuale tendenza di sionismo-religioso - non pratica compromessi a svantaggio della questione palestinese, come fa da oltre due decenni l’Autorità Nazionale di Abu Mazen. I punti fermi della creazione d’un vero Stato in terra di Palestina e l’intesa per un diritto al ritorno su quel territorio per la consistente diaspora lo pongono fra i teorici della resistenza, dei diritti e del diritto alla resistenza, alla stregua di Hamas e della Jihad palestinese, e ne hanno serbato popolarità e stima fra la gente. Tutto questo è temuto da Israele ed è perseguitato con le operazioni d’attacco e progressivo sterminio iniziate col “Piombo fuso” del 2009 e proseguite fra la Striscia e la Cisgiordania con cadenza periodica, sino al palese piano genocidiario praticato negli ultimi mesi. E per chi sopravvive a bombe, denutrizione e malattie scientemente scagliate e incentivate, si prospetta una deportazione di massa degna della peggiore memoria storica. Ventitré anni di detenzione durissima hanno trasformato più del normale trascorrere del tempo i tratti somatici del prigioniero Marwan. Al fiero sorriso con le dita a vù che lo ritraeva al momento dell’arresto in alcuni scatti rimasti a lungo l’unica immagine disponibile d’un uomo murato vivo, irraggiungibile dagli stessi parenti e avvocati per il feroce accanimento praticato dalla “giustizia” israeliana, si contrappone il fotogramma che lo ritrae emaciato, quasi imbarazzato davanti al volto d’un tronfio e tormentatore ministro della Sicurezza d’Israele Ben Gvir. Che s’è recato nel luogo di coercizione a schernire il nemico, a provocarlo come fa con gli islamici quando passeggia sulla spianata di Al-Aqsa, a spargere sale sulle ferite fisiche e morali d’un detenuto negli ultimi tempi picchiato e torturato, questo hanno dichiarato gli avvocati. Nel silenzio di tanta libera informazione che delle condizioni di Barghouti e di troppi prigionieri si dimenticava. Mentre i familiari ormai temono per la sua incolumità. “Non ci sconfiggerai” gli ha sputato in faccia il ministro, eppure di quel volto scarno ha paura. Come dei bimbi che affama e dei cronisti che fa assassinare. 

lunedì 11 agosto 2025

Affossare taccuini oltre ai bambini

 


Chiamata ‘guerra di Gaza’ dai servizi, non quelli segreti ma dagli afferenti a una servile informazione mainstream restìa a usare il linguaggio della professione secondo il reale significato, la mattanza dei gazawi della Striscia cumula giorno dopo giorno, da seicentosettantaquattro giorni, cadaveri e dati e affianca alle 62.000 vittime 270 giornalisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Perché tutti in odio al governo Netanyahu e pure a gran parte della gente d’Israele, nonostante i distinguo di locali minoranze d’intellettuali, pacifisti e pure soldati fino ai gradi più elevati. Ma il loro dissenso poco conta, visto che perpetuare la via della morte, per bombe o per fame, è il conforto imposto dalla maggioranza ebraica e lo stato delle cose su cui un mondo, al più gemente, s’è accasciato. Gemente e di fatto impotente o volutamente indolente, che non sono solo assonanze di scrittura bensì tragica scelta geopolitica reiterata nei decenni e negli ultimi ventidue mesi giunta al fosco capolinea di un’asettica disumanità. Anche parole e immagini utili alla denuncia di quanto si riesce a sapere e vedere sull’angosciante condizione di ammassi scheletrici confusi fra terra e sacchi di poca roba giunta dal suolo o dal cielo, che sfama e schiaccia una massa ridotta all’abbrutimento, diventano scioccanti ripetizioni. Eppure il non ripetuto mai abbastanza della violenza che Israele dona all’etnìa nemica, tenuta terrorizzata per il suo presunto o voluto terrorismo, trova sempre più microfoni silenziati, penne e computer affossati assieme ai loro cronisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Anas al-Sharif di Al Jazeera, l’ennesimo colpito,  secondo i suoi esecutori che si compiacciono dell’omicidio era una gola profonda di Hamas. “Il modello di Israele di etichettare i giornalisti come militanti senza fornire prove credibili solleva seri interrogativi sul suo intento e sul rispetto della libertà di stampa” ha dichiarato Sara Qudah, direttrice regionale del Comitato per la protezione dei giornalisti. Ah già libertà di stampa, libertà di pasto, libertà di stenti, libertà di vita davanti alla certezza della morte.    

domenica 3 agosto 2025

L’Afghanistan fuori dal mondo

 


Hibatullah Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il quarto anno da guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani. Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo Emirato Afghano risorto il 15 agosto 2021. Quattro anni trascorsi e sembrano molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975). Uniche eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati su poltrone vellutate e dorate, fra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato celebre: Zabihullah Mujahid.  Quasi subito partiva la cortina di ferro, informativa innanzitutto, perché dalla Casa Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il blocco dei fondi nazionali, oltre nove miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio che ‘niqabava’ le poche donne mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata tivù di Stato. Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti: nessuna presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di lì), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo… 

 

Eccessi d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali, su cui però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del nuovo potere. Eppure anno per anno si scopre che i mullah dell’Emirato così isolati non restano. Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro) non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima, di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e soprattutto strutture (le varie Intelligence) il ‘Cavallo di Troia’ per dialoghi a tutto tondo. Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create. Presenti sul territorio anche le agenzie delle Nazioni Unite, ormai snobbate e soffocate nel vicino Medio Oriente finito sotto il tacco d’Israele e che altrove risultano vive e attive, seppure con fondi e finanziamenti ridimensionati dalle imposizioni degli uomini soli al comando, come il quarantasettesimo inquilino dello Studio Ovale che dispone e indispone a suo piacimento in faccia al Congresso e pure alla Costituzione americana. Comunque l’Unama - istituita nel marzo 2002 con la risoluzione Onu 1401 - forse a parziale conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente Usa, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7 milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e dalle più recenti contrizioni: dei tre miliardi di dollari necessari erano giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati gestiti da taliban e accoliti. 

 

Per quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare, escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che coinvolgono le famiglie locali con ricaduta sulla comunità internazionale è la migrazione forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la grande fuga verso un loro occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia. Sebbene la Fortezza Europa abbia innalzato muri visibili e impercettibili fatti di doganieri armati e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei Signori della Guerra. Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori. Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i ‘corridoi umanitari’ italiani progettati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui, tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla meno peggio. Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per il benestare prima che dei turbanti dei ‘signori della guerra Nato’. Salire sui C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato. 

 

Successivamente un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani, invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army - come rivela in questi giorni il quotidiano britannico The Times - da una parte metteva a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di cittadini.  Oggi l’Unama gestisce altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità di bocche. “Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento, traumi e profonda incertezza” ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam Qala. Ci sono già state altre grida di dolore, Naseer Ahmad Andisha, rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo della Comunità Internazionale. Un bel busillis. Andisha è un uomo d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione Economica nel lasso temporale delle ‘sperimentazioni di democratizzazione’ del suo Paese, quando i chiacchierati esecutivi Karzai e Ghani hanno inanellato mancanze, ruberie e poi inciuci con fondamentalisti del calibro di Fahim, Khalili, Hekmatyar, Dostum fatti ministri e vicepresidenti. Forse anche per questo mister Andisha sa che in Afghanistan non c’è un prima e un dopo, e che meschinità e soprusi trovavano alloggio nelle stanze d’un potere imposto dalle missioni Nato e dai suoi propagandisti, le stanze ora occupate dai talebani. 

 

I fedeli che continuano a pregare in moschea, chi va al mercato a vendere e comprare povere cose, chi sente scorrere il tempo nelle casupole avvinghiate sulle colline d’una capitale soffocata e assetata (oltre sei milioni gli abitanti e pozzi di pescaggio dell’acqua sempre più invasivi a fronte di scarse precipitazioni), intravvede nel raggiunto biancore della propria chioma un abbandono costante, ultimamente accresciuto dal volere mondiale. Ma la mano tesa è contestata da altre realtà, radicate o effimere. Potenti o rappresentative solo sulla carta. Gli esempi vengono dall’ex mujaheddin a lungo governatore della regione di Balk, Atta Muhammad Noor, già sodale di criminali di guerra come Dostum e Massud e ora all’opposizione col gruppo Jamiat-e Islami, e da un ‘Movimento per la libertà delle donne’ i cui contorni risultano vaghi oltreché soffocati da minacce e repressione. Entrambi hanno espresso contrarietà al piano Unama, denominato ‘Mosaico’, sostenendo che fornirebbe all’Emirato un sollievo e un riconoscimento in linea coi colloqui in corso a Doha fra venticinque nazioni interessate a normalizzare i rapporti coi talebani. Una mossa, affermano i detrattori, che non aiuta la popolazione ma solo chi controlla oggi Kabul e le province. In aggiunta, quella parte di mondo che continua a voltare le spalle all’ipotesi d’apertura ai sodali di Akhundzada ricorda che costoro hanno tradito ogni buona intenzione in fatto di diritti civili e di genere, hanno accresciuto le discriminazioni verso le donne d’ogni età prospettando un oscuro ritorno alle pratiche del mullah Omar. Così alcune storiche attiviste provenienti dall’humus politico del Revolutionary Association Women of Afghanistan, come le ex parlamentari Malalai Joya e Belqis Roshan, per ragioni d’incolumità sono da tempo riparate all’estero. Le loro sorelle di lotta proseguono forme d’aggregazione con scuole e rifugi per donne, tutti clandestini e ad altissimo rischio di repressione. Dal canto suo la settantasettenne Mahmouba Seraj, fondatrice dell’Afghan women’s network e di recente in odore di candidatura al Nobel per la pace, è convinta che coi taliban bisogna parlare. Per non restare in bilico e in sostanza fermi, come nella prima fase del cambio di regime, i partecipanti agli incontri di Doha (fra cui spiccano sauditi, emiratini, i padroni di casa qatarioti, ma anche le potenze regionali turca e pakistana) assieme ai funzionari Onu seguono un percorso a tappe, cadenzato punto su punto attorno a particolari tematiche, ad esempio narcotraffico e terrorismo. 

 

Nel 2020 s’era iniziato a discorrere di droghe, rispetto alle punte di produzione afghane d’oppio e metanfetamina in un mercato immenso che proprio in Occidente mostra una richiesta copiosissima. Nel 2022 la produzione risultava crollata del 90% per poi risalire in base agli interessi dei cartelli del narcotraffico che, a detta dell’agenzia Unodoc, mette in relazione territori di produzione come l’Afghanistan e il Myanmar con aree di trasformazione (Messico), peraltro specializzata in ogni genere come accade con la coca e gli oppiacei sintetici, fentanyl e simili. Sarebbe interessante mettere a confronto il purismo moraleggiante dei turbanti, contrari (a parole) a sostenere il lucrosissimo mercato con le posizioni dei giganti del mondo capitalistico, Stati Uniti e la stessa Cina, solo teoricamente impegnati a stroncare tale commercio che invece galoppa nonostante i buoni propositi di tutti. Perciò sul narcotraffico i dialoghi vivono una schizofrenica scissione fra teoria e realtà. Tendenza presente anche attorno alla questione del rifugio territoriale al terrorismo internazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (ennesima struttura creata dal 2002 attorno a politiche estere, militari e affaristiche statunitensi) in diverse province afghane covano covi del jihadismo mondiale da Qaeda all’Isis-K. Leggendo il documento datato marzo 2025, indubbiamente dettagliato, viene da sorridere, poiché quando il Pentagono spingeva sulla Casa Bianca per eclissarsi da Kabul, portando a casa il grosso delle truppe lì impegnate e avviando la dismissione con la Resolute Support Mission, iniziava la battaglia interna fra talebani ortodossi e talebani scissionisti che avrebbero dato corpo alle milizie dello Stato Islamico del Khorasan. Che aggregava i primi elementi nella provincia di Nangarhar per poi espandersi a sud e ovest nell’Helmand e Farah. L’Isis-K cresceva in relazione al graduale tramonto del sedicente Daesh, sorto fra Siria e Iraq. E se per la cronaca dell’epoca, il triennio 2016-2019 è risultato il periodo più buio con stragi nelle moschee, nei mercati, fra la comunità hazara e indiscriminatamente per le strade della capitale quando brillavano auto e camion bomba, i due blocchi del jihadismo locale si combattevano a distanza per evidenziare chi controllava cosa da Kabul ai tradizionali territori della patria talebana, compresa Kandahar.  

 

L’hanno spuntata gli ‘ortodossi’. Occupata la città-simbolo e il suo Palazzo la famiglia tradizionale talebana facente capo alla Shura di Quetta, dove sono accasati turbanti duri e puri ma considerati pragmatici, come l’economista Abdul Barader, hanno ratificato il compromesso con la rete Haqqani, figli e parenti del capostipite Jalaluddin, un fondamentalista vicino alla Shura di Peshawar e spesso in dissidio con le direttive centrali, comunque sempre indipendente per affari economici e azioni militari. Nel Secondo Emirato il suo erede Sirajuddin è diventato ministro dell’Interno, il fratello Khalil ministro dei Rifugiati (fino al 2024 quand’è morto in un attentato), il figlio minore e poeta Anas responsabile dell’Ufficio Politico. Appartiene alla famiglia anche il sessantottenne sceicco Hakim, oggi ministro della Giustizia. I rabbiosi Haqqani, dunque, sembrano placati dal dominio, sicuramente istituzionalizzati  controllano punti nodali del governo e possono guardare dall’alto anche l’erede del mullah padre-fondatore, il trentacinquenne Mohammad Yaqoob che guida il ministero della Difesa. Ora dibattere a Doha se il clan talebano più organico al deobandismo (la madrasa Darul Uloom Haqqania dove alcuni di loro hanno studiato e si sono formati, sugellando anche la propria denominazione) lasci spazi o addirittura copra il terrorismo jihadista sul territorio afghano, è domanda da trilioni di dollari. Peraltro i membri Haqqani negherebbero ogni evidenza che del resto appare fittizia. Alle trascorse taglie sulla cattura di Sirajuddin (dieci milioni di biglietti verdi) da un anno il ministro oppone, e ostenta, visibilità estera. Se ne va negli Emirati Arabi, vede funzionari Onu e pure quegli statunitensi che gli pongono sulla testa il corposo riscatto senza che nulla accada. Incarna anch’egli quella geopolitica degli interessi che vince su quella dei buoni propositi. Del resto per incontrarsi in Qatar altri esponenti dell’Emirato (mullah Haq Whatiq, Muhammad Saqib) viaggiano, incrociano omologhi e dialogano. Sono il volto d’una normalizzazione strisciante. Mentre sulla vicenda di basi d’addestramento jihadista denunciato dall’Onu nelle province di Gazni, Zabul, oltreché in Nuristan, Kunar, Nangarhar, i corridoi d’infiltrazioni nelle incontrollabili Aree Tribali Federali e nel Waziristan hanno conosciuto per decenni un corposo scambio di visite. Il governo kabuliota vorrà tamponare quegli storici confini porosi? Forse. O invece no. Dipende dalle convenienze, da quel che accade a Islamabad. All’epoca del governo di Imran Khan (autunno 2021) che discorreva col leader pur incarcerato dei Tehreek-i Labbaik, che assieme ai Tehreek-i Taliban e ai Lashkar-i Taiba sono i più sanguinari jihadisti pakistani benvoluti dagli Haqqani, uno scambio di ‘vedute’ e favori con questi fratelli era possibile. Chi provava a squassare il neonato Emirato erano i ribelli del Khorasan, che ancora preoccupano i turbanti di Kabul. Bisognerà vedere chi i registi dell’instabilità occulta vorranno foraggiare e a chi la Comunità Internazionale vorrà tendere la mano.