Saranno le due anime militari d’un Iran passato, quello della guerra con l’Iraq, a contendersi la presidenza della Repubblica Islamica. Quella gentile del medico che salvava le vite, Mosoud Pezeshkian, la spunta su quella rude del basij Saeed Jalili. Gli dà quasi un milione di voti di distacco: 10.4 contro 9.5. In un Paese dove prevale l’astensionismo che affossa ancor più delle ultime consultazioni la fiducia nell’urna: 48% di votanti alle presidenziali del 2021, 41% alle politiche del marzo scorso, un 40% scarso ieri. Khamenei alla vigilia aveva detto: “Prego Dio Onnipotente per i giorni e gli anni migliori e per le più grandi benedizioni per la nostra amata nazione… la partecipazione del popolo è necessaria e obbligatoria per dimostrare la validità e l'onestà del sistema della Repubblica islamica”. Ma convincere l’ala intransigente dell’ultimo movimento di protesta Donna, vita, libertà (2022) è praticamente impossibile e dello stesso parere è la vecchia guardia della contestazione dell’Onda verde (2009) con un uomo simbolo come Mousavi che è rimasto a casa, non solo per il fermo domiciliare poliziesco. Una corposa maggioranza non va ai seggi per non legittimare un regime cui è ostile e non crede più neppure alle favole riformiste, come ai tempi di Rohani che pure aveva fatto il pieno dei voti dell’attivismo femminile e giovanile. Ora l’incognita è quanto gli elettori del riformista morbido Pezeshkian vorranno fare per eleggerlo. Quanto lui potrà essere attrattivo per chi ha finora scelto di disertare l’urna, quanto potrà calamitare il suffragio del terzo candidato, il principalista Ghalibaf, il perdente bocciato per la terza volta nella corsa alla presidenza nonostante il sostegno dei Guardiani della Rivoluzione. Teoricamente i voti di chi l’ha sostenuto dovrebbero orientarsi su Jalili, ma già il fatto che i due conservatori si siano misurati nei preliminari senza trovare l’accordo per un’unica candidatura che poteva conseguire un successo al primo turno, dimostra la spaccatura fra le varie anime del principalismo iraniano. Come, e forse più, dell’epoca di Ahmadinejad.
Sostenere un ‘riformista’ per l’entourage dei Pasdaran sa di eresia, anche perché durante la campagna elettorale Pezeshkian ha espresso concetti simili: “Chi sono quelli che scalano le pareti dell'ambasciata britannica, spingendo la sua chiusura? Erano i riformisti? Chi sono stati quelli che hanno dato fuoco all'ambasciata saudita, le cui azioni sono state applaudite come un successo dai giornali della linea dura? E tutto ciò ha spinto così tanti altri Paesi a chiudere le loro ambasciate. Le stesse persone che hanno preso d'assalto le ambasciate e hanno scalato le mura sono ora state nominate a posti di governo." Frasi sferzanti verso chi tiene alta la tensione non solo contro ‘il Grande e il Piccolo Satana’. Intanto il clima infuocato, non solo metaforicamente, d’uno scontro diretto con Israele non è mai stato così vicino, e non solo per volontà dell’ala dura del conservatorismo politico iraniano. Pertanto se venerdì prossimo il terzo uomo, ora diventato primo, dovesse spuntarcela con voti di più varia provenienza: dai convinti dell’ultim’ora a rinunciare all’astensionismo ai fedeli di Ghalibaf infedeli però al basij Jaalili, il mare in cui dovrà nuotare l’Iran affidato a Pezeshkian sarà comunque burrascoso. L’alleato d’acciaio Hezbollah è già in guerra strisciante con Israele che non rinuncia all’apertura d’un fronte settentrionale. Riuscire a smarcarsi da un conflitto che minaccia le radici nazionali non è facile, anche perché l’orgoglio patrio appartiene allo stesso riformista gentile e pure a molti dei suoi sostenitori. Disastroso presagio quello d’un coinvolgimento militare ancora più intenso, ma l’uomo che s’è affidato a Khamenei, pur avendo il sostegno dei Khatami e Zarif, degli ambienti politici più aperti al dialogo, alla distensione, dal nucleare alla questione dei diritti, dovrebbe rispondere da neo presidente della Repubblica Islamica ai princìpi su cui essa si basa. La sfida del 5 luglio è apertissima e non sarà un momento di trasformazione ma di conservazione. Di quello che l’Iran è costretto a fare anche per volontà non sua: conflitti militari ed economici, chiusure anziché aperture. Lo zampino di quanto accade a Teheran e dintorni non è solo determinato dal clero militante e dal militarismo interno, che in ogni caso restano un potere non scalfito.