Il marchio di Sisi - L’Egitto, coi suoi oltre
cinquanta milioni di elettori, voterà nel mese di dicembre. Nel Paese i seggi
saranno aperti dal 10 al 12, i residenti
all’estero potranno esprimersi negli appositi uffici consolari dall’1 al 3. In
quanti voteranno e per chi? Alle elezioni del 2014 ufficialmente l’affluenza fu
del 47,4%. Sisi ottenne 23 milioni di preferenze (96,9%), l’avversario
dell’epoca Hamdeen Sabahi raccolse 750.000 schede (3,09%). Sabahi, residuato d’un
socialismo nasseriano forse più sognato che praticato, fu bollato da alcuni
commentatori con l’epiteto “l’utile idiota”, funzionale a offrire a un fresco dittatore
l’alibi del confronto democratico. Quelle elezioni seguivano e consolidavano:
il golpe bianco compiuto dal generale nel giugno 2013; la successiva strage della
moschea Rabaa al Adawiya col suo
migliaio di vittime; gli arresti di massa dell’attivismo della Fratellanza Musulmana, privata del
governo dal cosiddetto “Fronte di Salvezza Nazionale”. Dopo quattro anni (2018)
Sisi venne riconfermato alla presidenza con circa 22 milioni di voti (97%),
davanti a un candidato ancora più imbarazzante, tal Mostafa Moussa suo
ammiratore, che racimolò il 2,9%. Votava il 41% degli iscritti ai seggi.
Secondo talune Ong impegnate sul tema dei diritti, gli elettori reali non superavano
il 15% e la copiosa astensione era correlata al simbolo delle bocche incerottate
mostrate da giornalisti, sindacalisti, attivisti silenziati dal regime. Dopo il
criminale susseguirsi di omicidi - da Shaimaa al Sabbagh fino a Giulio Regeni -
di quelle proteste di strada rimasero solo testimonianze fotografiche. Oggi Abdel
Fattah al Sisi si presenta alle urne per la terza volta. Nel 2019 un
emendamento costituzionale ha adeguato i limiti del mandato presidenziale da
quattro a sei anni, una sua rielezione lo proporrà alla guida della nazione fino
al 2030. E forse oltre. A contrastarlo c’è un manipolo di candidati, sette per
la precisione. Per correre contro di lui ciascuno potrà scegliere se venir presentato da una ventina di parlamentari
oppure raccogliere il sostegno di 25.000 potenziali elettori di almeno quindici
governatorati. Opzioni tutt’altro che semplici.
Gli “anti” Sisi - Allo stato dell’arte i due
politici più strutturati risultano una donna e un uomo. Lei è Gameela Ismail
del Partito della Costituzione.
Cinquantasette anni, due figli, e soprattutto un volto noto ai telespettatori
della tivù di Stato che le conferisce popolarità. Ismail è impegnata per i
diritti delle donne, e ne avrà da dire, almeno sulla carta. Lui è Ahmed
Tantawi, si presenta come indipendente seppure il passato lo inserisce fra i
membri dell’Alleanza 25-30 (sigla apparsa
nel 2015 che si rifaceva alle proteste del 25 gennaio 2011 e del 30 giugno
2013). Nel febbraio 2019 Tantawi da parlamentare aveva votato contro la
modifica della Costituzione che portò al referendum e alla dilatazione della
presidenza Sisi. Il candidato Ahmed vuole “generare
un dialogo nazionale sui problemi economici e sociali del Paese”, ma non
dice con chi e fra chi, e chissà se potrà farlo. Da quanto s’è visto in avvìo
di campagna elettorale, non sarà facile. Ai primi d’ottobre è apparso su You Tube un video che lo mostra nelle
vie del Cairo contornato da fan. Presto gli si fanno incontro con atteggiamento
nient’affatto benevolo sostenitori di Sisi
che, veri o presunti, gridano slogan pro presidenziali. I più esagitati
sventolavano immagini del generale e le baciano. Tantawi è spintonato, alcuni
agenti in borghese osservano senza interporsi. Un clima furente, che sembra teso
a rendere inagibile la piazza per il candidato alternativo. Nella contestazione
inscenata mutano gli attori: dopo gli energumeni giungono donne urlanti, poi cittadini
dal fare civile, quindi qualcuno abbraccia Tantawi mentre i suoi sostenitori
sembrano riprendere fiato e, come fossero supporter calcistici, lanciano propri
slogan. Realtà o messa in scena, è l’odierno Egitto che si dà un tono
democratico senza averne la sostanza, e non certo per i cittadini o le comparse
che si susseguono nel filmato. A detta degli oppositori fuori dal coro
elettorale anche Tantawi è un fantoccio, come Moussa, o un utile idiota alla
Sabahi. Il Paese va alle urne con questo clima.
Diritti e abusi – Gameela Ismail e chi come lei
interviene sui diritti delle donne si troveranno a scalare montagne. Prendiamo
le recenti normative contro l’antica ma diffusissima pratica delle mutilazioni
genitali femminili, secondo quanto denunciano alcune associazioni le leggi
restano inapplicate sia per la scarsissima collaborazione delle amministrazioni
sanitarie, della burocrazia centrale e locale, sia per tradizione, oscurantismo
religioso, timori e ritrosie. Così la pratica di tale tortura inflitta alle
bambine prosegue imperterrita, non solo nei villaggi sperduti, ma nei centri
urbani e metropolitani. Egualmente nella gestione del quotidiano i soprusi e le
violenze familiari, gli ostacoli posti a un’emancipazione economica tramite il
lavoro, le difficoltà per le donne a ottenere il divorzio e gestire i figli
restano condanne di fatto in cui il malcostume machista si somma all’ordine patriarcale, per nulla ostacolati dal
vivere sociale. Certo, alcuni comportamenti sono simili in altre parti del
mondo e non hanno un colore partitico. Però la politica d’un governo
militarista, autoritario, che limita la libertà di associazione e finanche di
pensiero, non aiuta il genere femminile e le sue rivendicazioni. Se poi si
parla dei diritti della comunità Lgbtq allora le porte delle galere egiziane si
aprono e si serrano a lungo. Le persecuzioni poliziesche verso i ‘diversi’ sono
pari a quelle che colpiscono gli oppositori e nelle celle delle varie Tora
d’Egitto queste categorie risultano addirittura superiori ai detenuti comuni. Fra
l’altro le angherie non sono solo soggettive, condizionano i nuclei familiari,
com’è accaduto alla madre e alle sorelle d’uno dei dissidenti più noti: Alaa
Abdel Fatah. Se professionisti, giornalisti, accademici, ricercatori si
ritrovano licenziati, emarginati, vessati nelle sfere lavorativa e privata,
figurarsi cosa accade all’uomo della strada, al cittadino comune già emarginato
dal suo arrangiare l’esistenza davanti a un’economia straziata e a
un’inflazione incontrollabile. In più dieci anni di omicidi, sparizioni, sequestri
illegali, arresti, torture, prigionìe protratte con la tattica del rinvìo delle
udienze (Zaki ne sa qualcosa) fanno del grande Stato arabo uno dei luoghi al
mondo dove tutele e quieto vivere non esistono.
Affaire Regeni – La luce che ha riacceso lo
sguardo dell’indomita coppia dei genitori Regeni - Paola e Claudio - è il
pronunciamento della Corte Costituzionale italiana che accoglie la questione di
legittimità sollevata dal Gip del Tribunale di Roma verso i commi 2 e 3
dell’articolo 420 bis, che impedivano la procedura legale in assenza di
imputati. Che nella fattispecie sono i quattro agenti del Mukhabarat cairota: il generale Sabir Tariq, i
colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdelal
Sharif, finora aiutati dagli apparati militari e politici interni a evitare di
comparire davanti ai magistrati, di casa e italiani. Familiari e amici di
Giulio, più gli attivisti mobilitati da anni per conseguire il minimo
indispensabile davanti all’efferato assassinio: un processo per responsabili e
mandanti, sperano nell’avvìo delle udienze. Un procedimento definito
dall’avvocata dei Regeni: “una battaglia
che riguarda tutti, anche chi vive al Cairo e continua a contare sparizioni
forzate giornaliere”. Un processo
che mette a nudo un’evidenza conclamata: il clima repressivo con cui la lobby delle
stellette, di cui Sisi è espressione, schiaccia gran parte della popolazione, da
chi gli si oppone apertamente a chi disilluso alle urne non va più. Da parte
sua il regime premia chi gli è fedele, magari per parentela coi militari o
perché è inserito nell’ampia filiera lavorativa presieduta e controllata dalle
Forze Armate. Spesso a uso e consumo di chi ne fa parte anziché per un
benessere collettivo a vantaggio del Pil nazionale. Le testimonianze raccolte
dal 2014 su quelle che eufemisticamente si possono definire ‘forzature alla
parvenza di democrazia’ che proprio nelle elezioni e nel Parlamento ha due
simulacri svuotati, pesano come macigni. Perché tali forzature fanno rima con
torture, sparizioni, detenzioni illegali, processi iniqui dai quali gli
imputati non si possono difendere visto che vedono arrestare anche i propri
legali. La stessa diaspora non dorme sonni tranquilli: i colleghi della banda
dei quattro seviziatori di Regeni sono sguinzagliati in vari angoli del mondo a
caccia di dissidenti. La vecchia Europa è una casa accogliente per gli 007 del
Cairo e con la copertura di uffici consolari e ambasciate egiziane costoro cercano,
scrutano, pedinano gli antagonisti del regime. Le persecuzioni all’estero rappresentano
la recente novità di cui Sisi può farsi vanto, magari collaborando con alcuni
partner Ue per presunte “operazioni antiterroristiche”. Human Rights Watch senza peli sulla lingua parla di ‘tappeto rosso’
srotolato da molti premier europei a favore del tiranno del Cairo con cui si
vuole a ogni costo interloquire.
L’Energia delle
armi – “Nell’ultimo decennio l‘Italia non ha mai
interrotto la vendita di armamenti all’Egitto, neanche dopo
l’omicidio di Giulio Regeni, anzi ha venduto armi
leggere per un valore superiore ai 62 milioni di euro” scrive in un recente rapporto l’associazione
“EgyptWide for Human Rights”. Secondo la
“Rete per la pace e il disarmo” 30.000 revolver e pistole automatiche, 3.600
fucili, centinaia di carabine d’assalto e mitragliatrici leggere sono la base
dell’accordo armato che lega Roma e Il Cairo. Le vendite del 2022 sono quasi
raddoppiate rispetto all’anno precedente planando sui 72 milioni di euro, per
la gioia delle nostrane Beretta e Benelli i cui amministratori delegati gongolano.
Eppure la loro ‘merce’ ha prodotto stragi come la citata di Rabaa, alla faccia di norme nazionali (L.185/1990,
ma il governo Meloni è in procinto di modificarla) ed europee (2008/944 Pesc),
che vietano l’esportazione di materiale bellico ai Paesi responsabili di gravi
violazioni dei diritti umani. C’è naturalmente anche ‘merce’ più preziosa,
quella che fa salire a 5.3 miliardi di euro (dati 2022) il fatturato italiano.
Sono soprattutto gli aeromobili che quotano da soli quasi un miliardo di euro e
pure le navi da guerra (85 milioni, nei dati sempre dello scorso anno). Lo
scorso anno all’Egitto è andata una quota ridotta, sotto i 100 milioni di euro
di materiale bellico, però i dati del 2020 e 2019 erano di molto superiori. 991
e 871 milioni di euro che riguardavano gli elicotteri usati per operazioni
militari (il modello Aw149 di Leonardo) e le fregate da guerra. Su
quest’ultime, le famose Fremm
ordinate a Fincantieri, c’è stato un
contorno misterioso. Nell'aprile 2021 venivano consegnate
coi nuovi nomi: Al-Galala e Bernees anziché Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi,
iniziale denominazione per la nostra Marina. Un’inchiesta dell’epoca, documentata dall’Osservatorio Mil€X, faceva notare come il prezzo finale, che doveva aggirarsi sul
miliardo e 200 milioni di euro, riceveva uno sconto di 210 milioni dallo Stato
italiano. In più in un’intervista alla Rai,
Ayman Nour politico egiziano riparato all’estero per dissapori col regime,
dichiarava che il finanziamento, pur scontato, per pagare le navi da guerra
proveniva da alcune banche che avrebbero versato la metà della cifra. Il resto
andava a pesare sul debito nazionale. Le banche fanno favori alla politica?
Talvolta, ma con le ovvie contropartite. Nei trascorsi politico-affaristici
egiziani l’acquisto di armamenti arricchiva la stessa lobby militare o singoli graduati,
mentre indebitava la nazione. Non è provato che Sisi e la sua cerchia ricevano
dalle commesse belliche (oltre all’Italia fra i fornitori c’è la Francia)
percentuali di guadagno. Ma non ci sarebbe da stupirsi. Il nostro Paese risulta
“generoso” per alcuni servigi che l’uomo forte del Cairo procura agli esecutivi
romani (all’epoca era in ballo il Conte2) in fatto di contenimento dei flussi
migratori e per i pattugliamenti operati dalle stesse fregate nell’area dei
giacimenti Zohr che hanno la partnership dell’Ente Nazionale Idrocarburi.
La nostra ‘economia pesante’: Leonardo,
Fincantieri, Eni è assai presente nelle mosse dell’Egitto sisino.
Diplomazie – Se, come sostenevano
i contrari all’ipotesi quand’essa venne lanciata in merito al caso Regeni,
interrompere i rapporti diplomatici con l’Egitto può diventare un boomerang per
i menzionati interessi economici italiani, ora la situazione cambia. Dopo il
ricordato pronunciamento del Palazzo della Consulta ottenere giustizia e
difendere la memoria del nostro concittadino barbaramente trucidato è un dovere
morale e ci si attende da Palazzo Chigi un cambio di passo rispetto alle
posizioni mantenute finora. L’11 ottobre il viaggio del ministro degli Esteri Tajani
avrebbe potuto unire detti temi a tematiche culturali che s’apprestava a
discutere con l’omologo Shoukry e Sisi in persona. Invece il divampare della
nuova crisi nella Striscia di Gaza e dintorni ha catalizzato ogni dialogo. Il
ciclopico lancio di razzi su Israele, gli assalti, le efferate uccisioni, i
rapimenti di civili compiuti da Hamas,
cui hanno fatto da contraltare da parte di Israel
Defence Forces i bombardamenti sugli edifici di Gaza City zeppi di abitanti,
la chiusura dei valichi di Erez e Refah, l’interruzione di erogazione d’acqua
ed energia per incrudire gli effetti d’una controffensiva che prevede
l’ingresso via terra di reparti speciali, ha derubricato le tematiche culturali
rinviandole sine die. La nuova emergenza mediorientale ha tenuto il governo Meloni
silente su un punto nodale per i vertici egiziani: collaborare con la
magistratura italiana per accertare la verità sul macabro omicidio del 2016. Per
i genitori Regeni, gli attivisti e la staffetta mediatica che li supporta il
Capo del governo e i ministri italiani, hanno il dovere di condurre un
realistico percorso di vicinanza a uno dei poteri dello Stato democratico,
quella giustizia terza e indipendente che non può essere lasciata sola davanti
al boicottaggio espresso finora dal regime egiziano, pena lo scadimento dei
ruoli e la complicità col sopruso.
(articolo presente su Confronti di novembre)
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Nb Un aggiornamento dall'Egitto sulle candidature lancia alcuni nomi che vanno a sostituire quelli di Tantawi e della Ismail, entrambi ritiratisi nei giorni scorsi, ufficialmente senza motivo ma con ogni probabilità per le reiterate pressioni subìte. Tantawi ha anche ricevuto una notifica da un tribunale e sembra ci siano capi d'imputazione contro di lui.
Sanad Yamama, Hazem Omar e Faried Zahran sono gli ultimi sfidanti del presidente uscente. Il primo è il responsabile del partito Wafd, storico gruppo liberale, Omar rappresenta il Partito repubblicano popolare, mentre Zahran è esponente del Partito socialdemocratico, rimasto sempre all'opposizione. Le possibilità per ciascuno sono insignificanti, com'era già accaduto a chi si presentava nei precedenti due confronti elettorali cui s'è sottoposto al Sisi. Per non avallare un presunto confronto aperto davanti a urne in odore di manipolazione e disertate dalla maggioranza dell'elettorato, alcuni amici di Zahran gli consigliano un'anticipata defezione di protesta. Vedremo se lo farà.