Pagine

giovedì 30 giugno 2022

L’Emirato della virtù

 

Nelle opinioni contro riportate dal quotidiano Le Monde sull’odierno panorama afghano spiccano le indignate dichiarazioni d’un diplomatico occidentale di cui non si rivelano generalità e nazionalità: “Loro (i taliban, nda) non governano affatto. La sola cosa che hanno messo in piazza dopo dieci mesi è la polizia religiosa, incaricata di far rispettare la Shari’a. Essi dispongono solo d’un quarto dei fondi del precedente governo, ma non hanno scusanti: non hanno nulla da lanciare riguardo a fiscalità, agricoltura, trasporti, infrastrutture, energia”. Agli occhi di qualsiasi abitante locale l’affermazione appare senza tempo, visto che questo è il quadro del Paese non da dieci mesi ma da decenni. Nel pur indiretto dialogo fra sordi il portavoce del famigerato Khalid Hanafi, ministro per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio dice: “Il nostro ministero è il più importante insieme a quelli dell’Interno e della Difesa (per la cronaca rispettivamente guidati da due uomini duri e puri dell’Emirato: il capo dell’omonimo clan Sirajuddin Haqqani e Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, nda). La lotta per la Shari’a era già uno dei pilastri durante il ventennio di guerra. Noi siamo stati invasi anche culturalmente e bisogna ristabilire il valore di certi princìpi, soprattutto nelle città”. Avanguardie di questa “campagna” che i turbanti considerano una guerra “morale” sono settemila addetti del ministero, quasi sempre miliziani e guerriglieri e dunque elementi più votati all’azione che a riflessione e insegnamento. Certo, nei pattugliamenti sono accompagnati da qualche ‘dottore spirituale’ che calza il turbate nero simbolo della saggezza d’un rango superiore. Dalla sede dell’ex ministero degli Affari Femminili dove si sono installati dallo scorso settembre, i controllori della purezza perlustrano strade, piazze e altri luoghi, ammonendo e, in vari casi, punendo peccatrici e peccatori poiché trovano parecchie situazioni “irregolari”. 

 

Al di là della vestizione del burqa, al quale da qualche mese  sfuggono ben poche donne afghane, diverse di loro fermate per strada non riescono a giustificare l’uscita di casa senza un uomo al fianco. Quando la motivazione viene enunciata da una vedova la contraddizione stride, ma lei anche se va al mercato si sente rispondere che la sua condizione non la esime dall’essere accompagnata da un uomo di famiglia. Se quest’ultimo non fosse disponibile, la donna può tranquillamente restare in casa… Non c’è angolo che sfugge a verifiche, le scuole godono del privilegio di simili “visite”. Nel marzo scorso prima della mancata riapertura degli istituti femminili, “spiegato” col ritardo del confezionamento di uniformi per le studentesse peraltro mai consegnate, questi luoghi venivano setacciati periodicamente. Ora si continua con gli istituti maschili. Incursioni anche nelle sale per i ricevimenti matrimoniali. I gestori lamentano autorizzazioni più restrittive che riducono il numero dei clienti, riduzioni addirittura dimezzate e non per distanziamenti preventivi ai contagi da Covid. Nelle sale dei festeggiamenti sono obbligatori ambienti separati per uomini e donne, una situazione che si ripete nei luoghi pubblici, dai parchi agli spazi all’aperto. In alcuni casi c’è turnazione, ma il giorno santo del venerdì, la preghiera in moschea è riservata ai fedeli di sesso maschile. Eppure nella contraddittorietà di quanto oggi si dice e si fa, trapela qualche passo meno restrittivo: i taliban stanno impedendo la radicata forma tribale della pacificazione fra clan nemici col matrimonio, ovviamente forzato, d’una giovane sposa. Gli studenti coranici dicono non è contemplato dalla Shari’a. Inoltre un decreto del mullah Akhunndzada prevede che una vedova possa ereditare il diritto di una donna della famiglia di scegliere il marito. Non c’è da stupirsi, al ministero della Virtù sostengono che l’Emirato non è più quello del 1996. Ma certe attiviste afghane scuotono la testa: è propaganda – ammoniscono – come quella sotto i regimi Karzai e Ghani che proclamavano la difesa delle donne, ma lasciavano campo libero ai fondamentalisti. Eppure i funzionari occidentali, sopravvissuti all’occupazione Nato, pensano che in quegli anni si stesse benone.   

lunedì 27 giugno 2022

Egitto, fame di grano e mobilità avveniristica

Occorrono nove milioni di tonnellate di frumento all’anno per produrre il pane che sfama 70 milioni di egiziani. Così i due-terzi della popolazione che mangia tanti aish, continuerà ad avere cinque pani sovvenzionati al prezzo politico di 1.5 cent, anziché 4 cent cadauno. Da tempo il grande Paese arabo importa cereali, accade da decenni,  molto prima che il conflitto russo-ucraino bloccasse esportazioni e rifornimenti e che la conseguente speculazione dei grandi distributori e delle Borse mondiali facesse lievitare il prezzo del grano, come sta accadendo da mesi. Per quest’immissione di derrate il governo del Cairo è passato da una spesa di tre miliardi di dollari annui a quasi il doppio, una zavorra per il suo indebitamento. Nell’eventualità che le scorte russe e ucraine, costituenti il 62% degli approvvigionamenti nazionali, scarseggiassero, s’è aperto anche un fronte d’importazione dall’India. La quale nell’ultimo mese ha bloccato le cessioni per timore di carenze alimentari interne. Al Sisi cerca prestiti dal FMI, e vista la disponibilità a bloccare le migrazioni che partono dalle sue coste mediterranee verso l’Europa, la Ue metterà una buona parola affinché la direttrice del Fondo Georgieva elargisca contributi. Su un altro fronte politico le petromonarchie continuano a venire in soccorso al generale-presidente, è recente una loro tranche di 22 miliardi di dollari da cui dovranno scaturire contropartite. La più corposa è l’avvicinamento dell’Egitto alla ‘ricomposizione’ mediorientale prevista dagli ‘Accordi di Abramo’. C’è da star certi che quasi nulla dei finanziamenti del Golfo sarà impiegato in servizi di pubblica utilità. 

 

Quei capitali continueranno a finanziare il mercato immobiliare, modello cattedrali nel deserto come la New Cairo, che agli emiri tanto ricorda la recente storia con cui hanno plasmato villaggi di pescatori trasformandoli in Abu Dhabi, Dubai, Manama, Doha col loro sfolgorio di grattacieli in vetrocemento. Invece una notizia ha fatto colpo il mese scorso: Siemens, la storica marca tedesca, s’è accordata col governo egiziano per creare d’una rete ferroviaria di 2000 chilometri di Alta Velocità. Un appalto storico per la stessa società di Monaco che vanta 175 anni di attività industriale: oltre otto miliardi di euro. Il contratto comprende accanto alla struttura viaria, 41 treni che raggiungono 230/km orari, 94 treni regionali e 41 per il trasporto merci, più otto depositi e stazioni. Saranno collegate ben sessanta località del Paese. La manutenzione dell’opera risulterà a carico dell’azienda tedesca per un quindicennio. Le strette di mano fra Sisi e Busch, l’amministratore delegato di Siemens, facevano dire ai due che il grande Stato arabo avrà uno dei maggiori servizi veloci del mondo, e che sta per iniziare una nuova era per il sistema ferroviario non solo egiziano e africano, ma dell’intero Medio Oriente. La prima tratta di 660 km si svilupperà lungo l’asse Mar Rosso-Mediterraneo da Ain Sochhna fino ad Alessandria. La seconda, 1.100 km dal Cairo scenderà ad Abu Simbel, ai confini del Sudan, passando lungo il Nilo. Una terza partirà da Luxor puntando su Hurgada per 225 km. Nei piani di Siemens ci sono 40.000 posti di lavoro, più 6.700 nell’indotto. 

 

Poi, fra chi spera di muoversi diversamente in area urbana, sono comparsi i sognatori in bici. E’ chi vagheggia di diffondere coscienza ecologica contro un inquinamento segnato dalla perenne cappa di smog che soffoca una capitale di cui non si conoscono statisticamente le cifre: il numero degli abitanti oscilla fra i 15 e i 21 milioni, le auto attorno ai 6-7 milioni. Agganciato al desiderio ecologista c’è il pragmatismo di chi ambisce a un potenziale mercato di noleggio bici. Una clientela di nicchia esiste già, sono i giovani fedeli all’ambiente. Certo, garantire loro una sicurezza sulle strade è un fattore che sfugge a qualunque previsione per quanto risulti caotico, irregolare, incontrollato il flusso veicolare nella ciclopica metropoli. Non solo perché le piste ciclabili restano un’utopia, ma perché l’assedio quotidiano del traffico, rilancia l’idea di ampliare ulteriormente la rete stradale per sole autovetture in ogni angolo del Cairo, sbancando anche zone abitate. Accade da tempo a catapecchie e abitazioni della vecchia Cairo nella cosiddetta ‘Città dei morti’. Tombe e cimiteri soffocati e avviluppati a una stratificazione urbana millenaria, che rischiano d’essere tutti abbattuti per far posto alla superstrada che non risparmia neppure la collina di Muqattam. Nei punti dove la troneggiante moschea di Mehmet Ali convive da secoli con reperti cristiani, e ospita anche i tristemente noti, per abbandono e arretratezza sociale, copti zabbalin raccoglitori d’immondizia da generazioni. L’altra Cairo destinata a scomparire è quella galleggiante lungo le Corniche, fra Zamalek e El Warraq. Da domani le case galleggianti sul Nilo, apparse in tanta cinematografia esotica o vagamente tale e da anni trasformate in b&b per turisti, verranno trainate via. L’ordinanza della polizia non ammette deroghe, nonostante una petizione dei gestori cerchi di bloccare l’iniziativa. “La scelta” di Sisi, immortalata in una fiction, sembra non avere ostacoli. 


 

venerdì 24 giugno 2022

Afghanistan, terremoto socio-economico e geologico

A osservarle in foto le poche case di fango e pietra, miracolosamente scampate alle scosse dell’ultimo terremoto afghano nell’area sismica di Paktika, non differiscono da quelle viste di persona un decennio fa dentro Kabul. Sì, in una zona neppure tanto periferica della capitale c’era un accampamento di sfollati dalla provincia di Parvan che viveva in case di fango e pietra. Stamberghe simili ai tuguri squassati due giorni fa da un terribile sisma. Erano profughi interni scappati dai bombardamenti a tappeto della Nato. Ora – scrivono i pochi corrispondenti di agenzie giunti sul posto – chi scava con le mani fra le macerie con gli occhi colmi di lacrime per il dolore, la disperazione, la polvere teme due immediati spettri: la fame e il colera. Con le carenze alimentari la popolazione afghana sta facendo i conti da mesi, visto che gli aiuti internazionali con cui l’Occidente, prima dei talebani, hanno pelosamente condizionato quel popolo sono stati interrotti. Il motivo è noto: bisognava punire l’Emirato fondamentalista e misogeno. Di fatto si sta colpendo un popolo, comprese le madri e i tanti figli da sfamare. Tutto ciò segue il soffocante ventennio di occupazione militare che ha pianificato, in compagnìa d’un ceto politico locale imbelle e corrotto, l’agonia della nazione. Per rendere schiavo un popolo basta farlo sopravvivere di “aiuti” che vanno e vengono secondo come si voglia condizionarlo. L’imperialismo lo fa in molte aree del mondo, in Afghanistan di più. I numeri del disastro crescono: più di 1.000 i morti, più di 3.000 i feriti e se non si farà in tempo a estrarne altri da sotto travi, pietre e polvere le vittime son destinate a salire. I talebani hanno mosso qualche elicottero, pochi, viste le loro incompetenze tecniche, fino a un anno fa gli elicotteri Nato e dell’Afghan National Forces al più li bersagliavano coi razzi. Si sono mosse sette ambulanze di Emergency, ma le strade già impercorribili sono anch’esse spaccate come le case. Racconta un servizio della Bbc che ha intervistato familiari rientrati dal confine pakistano dopo il cataclisma: hanno constatato solo dolore, morti sorelle e parenti prossimi. 

 

Al lutto stretto tanti afghani sono abituati, tre generazioni hanno conosciuto lo strazio delle bombe dal cielo e da terra, quelle americane, dei warlords, dei talebani, ultime dell’Isis Khorasan. La bomba che viene dal cuore della Terra è l’insidia imprevedibile, che certo lacera maggiormente poiché slabbrata e abbandonata è la vita in quelle latitudini. Le scarse carovane di soccorso trovano in ogni villaggio, persone disperate che mostrano la devastazione, e non sanno come proseguire. Senza aiuti, piuttosto che morire lì, varcheranno le montagne fisiche e di una sedimentata disperazione. Migreranno in tanti. Più di coloro che nello scorso agosto volevano fuggire dai taliban. Quest’ultimi, coi ministri preposti a quel che non sanno né possono fare hanno scoperto le nudità, chiedendo ogni sorta d’aiuto umanitario. Loro non sono in grado a fornirne uno degno di questo nome. Certamente sono inadatti a governare, ma non ascoltarne le necessità vorrebbe dire peccare di cinismo in misura maggiore della loro sete di potere e della presunzione che li hanno finora contraddistinti. Chi aiuta chi? può chiedersi l’evanescente comunità internazionale azzerata dalla geopolitica che da mesi sta praticando l’embargo a un Paese che soffre la fame. Ieri le Nazioni Unite hanno messo su una riunione straordinaria per quest’emergenza, Ramiz Alakbarov, responsabile locale dell’Unama ha lanciato il suo grido: “Gli attori umanitari si mobilitino, serve tutto: equipaggiamento di trasporto e scavo, ambulanze,  nuclei medici, medicine”. I mesi scorsi hanno conosciuto restrizioni continue di materiale e fondi, una ritorsione contro la politica coercitiva verso le donne praticata dall’Emirato. Voci raccolte da Tolo Tv, che ha subìto anch’essa l’obbligo di velo alle conduttrici, ribadiscono l’oppressione di diritti femminili e all’istruzione ma per salvare vite umane invitano a mettere da parte ostracismi e fornire i soccorsi primari.  Qualcuno ascolterà?

giovedì 23 giugno 2022

Tunisia, gli effetti speciali della nuova Costituzione

Nel clima da uomo forte instaurato da un anno, nel disprezzo del Parlamento, sospeso e sciolto, l’autocrate mascherato da tecnico che gestisce col piglio poliziesco insito nel nomignolo che si trascina dietro - Robocop - ha studiato come apparire ‘democratico’ facendosi cucire una Costituzione conforme al presidenzialismo duro che sta già praticando. E’ Sadok Belaïd, ex docente della facoltà di Scienze giuridiche di Tunisi, a fornirla a Kaïs Saïed, gli ha consegnato la bozza il 20 giugno e il presidente la sottoporrà a referendum il prossimo 25 luglio, anniversario del colpo di mano con cui ha piegato al suo volere le Istituzioni tunisine. Dalle indiscrezioni provenienti dalla stessa commissione estenditrice delle nuove norme il percorso va in direzione diametralmente opposta dalle indicazioni scaturite dal pur travagliato percorso nazionale dell’ultimo decennio, scaturito dalla Rivoluzione dei gelsomini. Così la riscrittura della Carta offre il ‘la’ ai desideri dell’uomo che non deve chiedere, ma ha già ottenuto tutto. Dunque una subordinazione del governo al Capo di Stato, un inquadramento delle caratteristiche del Parlamento, l’introduzione di assemblee regionali elette a suffragio diretto e interessate allo sviluppo economico.  In un’intervista al quotidiano Le Monde il ‘pensatore’ delle nuove leggi fondative tunisine compie un triplo salto giro  scomodando i princìpi della separazione dei poteri di Montesquieu per considerarli superatissimi. Questi, dice l’ex docente, si fermavano ad arginare il potere per il potere, al nostro Paese serve altro: uscire dalla miseria e realizzare un piano di sviluppo.

 

Forse dimentica che il potere per il potere e il potere per l’arricchimento personale avevano condotto la nazione allo stato d’indigenza da cui partivano i moti di Sidi Bouzid e Kasserine, dopo i cinque lustri di spolpamento compiuto dal clan Ben Ali-Trabelsi. Della Costituzione del 2014 Belaïd dice che è stata una rovina e ha bloccato il sistema, mentre lui e l’attuale presidente pensano di arginare il “regime parlamentare” che condivide coi governi che si sono succeduti il potere. Ora, che gli esecutivi di Ennahda e gli esperimenti liberisti di Nidaa Tounes non abbiano brillato per trasparenza, né abbiano rilanciato l’economia è una tragica realtà sotto gli occhi di tutti, che la svolta autoritaria di Robocop potetto dall’esercito possa compiere il miracolo è una boutade, che però piace all’Occidente amante di certo autoritarismo. Eppure il monopotere viene giustificato anche da altre voci, come chi all’interno della commissione preposta alla riscrittura costituzionale vira decisamente contro ‘l’esecutivo bicefalo’ che frena le azioni del governo. Perciò il rappresentante di quest’ultimo dev’essere coeso con l’azione del presidente, cioè deve obbedirgli. Se passa la nuova riforma il premier verrà scelto dal Capo di Stato senza bisogno dell’Assemblea nazionale. Quest’ultimo passaggio rappresenterebbe il “rischio” da evitare. Se i deputati non gradiranno la ‘scelta governativa’ presidenziale possono censurarla, ma solo una volta, al secondo giro deciderà l’uomo forte: il presidente. Anche il Capo di Stato può revocare una sola volta il governo nominato da lui stesso, pena la decadenza dal ruolo. Ma gli esperti di diritto, e appunto l’estensore Belaïd, sanno che tale circostanza risulta difficile.

Dal cilindro della sua riscrittura spunta un organismo, il Consiglio economico, che affianca l’Assemblea nazionale con un ruolo non legislativo ma consultivo. Belaïd gli affida l’attivo compito di produrre avvisi, i deputati dovranno prendere in seria considerazione questi avvertimenti. L’altra creazione sono quattro Assemblee regionali - nord, sud e due al centro - direttamente elette che sostituiranno quelle comunali giudicate poco incisive per impulsi economici. Misteriosi quest’ultimi davanti a una finora inesistente strategia centrale. Lo slogan con cui si cerca di trascinare la riforma è buono per una réclame pubblicitaria: “far dialogare la gente del mare con quella del deserto”. Nei fatti, oltre alla presenza ancora di pregiudizi tribali, le stesse aree costiere un tempo sviluppate attorno al turismo hanno visto decrescere una normalità di vita e incentivato le fughe migratorie, in maniera non diversa dagli arretrati villaggi dell’entroterra. Per non farsi mancare nulla gli esperti costituzionali affrontano anche il primo articolo della Costituzione, presente dal 1959, che recita: “La Tunisia è uno Stato libero e sovrano, la sua religione è l’Islam” la cui interpretazione già da anni è oggetto di discussione se l’Islam sia religione dello Stato o della Tunisia. Per alcuni questione di lana caprina, ma altri la pensano diversamente. Ora si ventila che la task force di Belaïd per arginare derive interpretative del fondamentalismo islamico potrebbe far sparire l’articolo 1 dalla nuova Costituzione. Eppure questo quadruplo salto giro, mai visto su nessuna pedana ginnica, potrebbe essere stoppato proprio dal presidente che, quando non lo era, dichiarava “Se lo Stato non ha religione, l’Umma ne ha una, l’Islam, e spetta allo Stato farla rispettare”. Per continuare a fare l’uomo forte avrà bisogno anche d’un Islam politico in crisi, ma tuttora presente fra una buona parte dei dodici milioni di concittadini.

mercoledì 22 giugno 2022

Trema l’Afghanistan orientale


6.1 poi corretto in 5.9 della scala Richter nelle province orientali afghane di Paktika e Khost hanno fatto, per ora, un migliaio di morti e altrettanti feriti accertati. La terra ha tremato stamane con un epicentro a 46 chilometri dalla città di Khost, verso il confine pakistano. A perdere la vita soprattutto gente dei villaggi, dove le abitazioni non sono certo di cemento ma di pietre e fango, e questo conferma la potenza del sisma. Dall’area di Paktika giungono notizie che gli iniziali aiuti ai fratturati di varia natura vengono portati dagli stessi sopravvissuti, armati di vanghe, pertiche, funi. Dalla capitale sono partiti alcuni elicotteri per soccorrere i feriti più gravi che rischiano di morire per emorragie esterne e interne.  Le prime immagini diffuse da Tolo tv, mostrano cumuli di macerie e abitanti che cercano di aiutarsi fra loro. Le scosse di assestamento sono state percepite chiaramente nella stessa Kabul, dove si valutano possibili lesioni delle vecchie case. Ma quel che preoccupa il governo, oltre all’intervento di soccorso con mezzi adeguati, è quale sistemazione fornire alle migliaia di sfollati, viste le carenze d’ogni genere che affliggono il Paese. La rete medica internazionale che da decenni presta servizio in varie province afghane, da Médecins  sans Frontières a Emergency, ha messo in allarme le proprie strutture ospedaliere per interventi chirurgici d’urgenza. Del resto questi sono gli unici presidi medici presenti sul territorio nel quale in vent’anni i governi filoccidentali e le missioni Nato, hanno costruito basi militari e nient’altro. Esponenti dell’Emirato, il primo Ministro Akhund, e il coordinatore delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, Alakbarov, hanno espresso condoglianze alle famiglie delle vittime, ma esse attendono soprattutto un supporto  concreto, che sicuramente ritarderà perché le comunicazioni via terra sono terrificanti causa i conflitti del passato e l’abbandono attuale. E’ dallo scorso autunno che l’intera popolazione afghana è sottoposta allo stress di carenze alimentari dettate principalmente dall’embargo anti talebano imposto dall’amministrazione Biden, che ha anche bloccato i fondi di 9.5 miliardi di depositi nelle banche statunitensi. Bisognerà vedere se la Cooperazione Islamica, che nei mesi scorsi s’era mobilitata per l’allarme alimentare, offrirà un sostegno anche per l’emergenza sismica e post terremoto.

martedì 21 giugno 2022

Giovani indiani in lotta contro le nuove Forze Armate

Ieri il Bharat Bandh, lo sciopero dell’intero Paese indiano, ha semiparalizzato la circolazione dei treni: oltre seicento cancellazioni. Nei giorni precedenti in alcune località i treni erano andati a fuoco sotto la rabbiosa protesta giovanile contro il cosiddetto “programma Agnipath” un nuovo coniglio uscito dal cappello del mago Modi. Il premier prima di lasciare l’incarico – accadrà alle elezioni del prossimo anno alle quali non potrà ripresentarsi – ha deciso di alimentare le tensioni nel Paese. Dopo quella sociale scatenata dalla legge di riforma agraria, contro cui erano insorti i contadini, peraltro vittoriosi con tanto di ritiro delle misure, e quella sulla cittadinanza da offrire ai profughi, purché non di religione musulmana, tuttora in vigore, il governo ha introdotto un nuovo sistema di reclutamento militare. Riguarda i tre corpi: esercito, marina, aviazione sottorganico da tre anni, visto che l’ultimo inserimento risale al 2019. La pandemia di Coronavirus ha bloccato per un triennio i reclutamenti, mentre i congedi a riposo non si sono fermati, perciò le Forze Armate necessitano di forze fresche. Così si aprono i cancelli delle caserme per giovani, uomini e donne, dai 17 anni e mezzo ai 23. In un Paese strapopolato, afflitto peraltro dalla crisi economica post pandemia, vestire la divisa continua a essere il sogno di molti. Però con questo piano la sicurezza “lavorativa” non rimane quella d’un tempo, quando l’arruolamento durava un minimo di quindici anni e garantiva una pensione. In Agnipath, le reclute chiamate Agniveers, servono per un quadriennio, dopo il quale potranno effettuare domanda ed essere inquadrate in un corpo, ma verrà scelto solo un 25% del totale, per gli altri addio a posto fisso e pensione. I quattro anni di servizio non daranno diritto a quiescenza, saranno liquidati in maniera forfettaria con 11,7 lakh rupie (poco più di 14.000 euro). E arrivederci. I corpi militari già da qualche tempo avevano ridotto i reclutamenti: da 71.800 del 2015 a 53.400 del 2018, nel 2019 per far fronte alla piaga della disoccupazione il ministro delle Difesa aveva riaperto le porte, aggregando 80.572 soldati. Ora si fa marcia indietro, e soprattutto si cambiano le regole, dunque chi dedica un quadriennio alla leva non è detto che potrà rimanere a servire lo Stato. Molti ragazzi indiani non ci stanno e da una settimana (la legge è stata presentata in parlamento il 14 giugno scorso) hanno avviato una protesta che ha assunto toni sempre più duri. Il 16 e 17 giugno scorsi le proteste correvano dal Bihar all’Uttar Pradesh con danneggiamenti pesanti ai mezzi di trasporto pubblici e privati, arresti (rispettivamente di 325 e 250 manifestanti) e anche un morto colpito dal fuoco della polizia accorsa a sedare le violenze. Che, dopo tre giorni di cortei più o meno pacifici, possono riprendere nelle prossime ore. Il malcontento coinvolge i gruppi d’opposizione - il Partito del Congresso chiede il ritiro del piano, il Partito Samajwadi lo definisce negligente e fatale, il Partito Comunista sostiene che lo ‘schema’ non rende un servizio alla nazione. Anche un’ala del movimento hindu è critica, un suo organo di stampa ha tuonato contro questa sorta d’impiego contrattuale che svilisce il codice d’onore cui il militare è legato, tutto viene finalizzato al semplice risparmio economico. Dubbiosi o fortemente contrari generali e ufficiali in pensione che hanno dichiarato alla stampa: “speriamo non ci siano conflitti, un uomo in servizio a tempo determinato non può dare la sua vita”.

domenica 19 giugno 2022

Kabul amara anche per i sikh

 

Se dopo lo sbandamento e il riassetto di tarda estate 2021 e l’autunno segnato dall’allarme alimentare Kabul era rimasta divisa fra le proteste di gruppi femminili, le speranze disattese di molti desiderosi di fuga, le ronde talebane che un po’ intimorivano, un po’ promettevano nuovi scenari tutti traditi, la primavera ha riportato bombe, morte e instabilità. In tre mesi cento persone sono state assassinate tramite attentati, che proseguono tuttora. Nel mirino non solo la copiosa minoranza sciita degli hazara, ieri una bomba ha colpito l’area del gurdwara, luogo di culto della comunità sikh nella capitale afghana situato a Karte Parwan, un quartiere di nord-ovest. Alcuni miliziani hanno superato la vigilanza, aprendo le porte blindate del tempio dove si sono scatenati i resti del commando. Durante l’assalto una bomba posta in un’auto parcheggiata nei pressi esplodeva e la deflagrazione seminava panico, ferendo alcuni passanti. Il caso, o la non precisa informazione degli assalitori, ha messo in atto l’agguato mezz’ora prima che iniziassero le preghiere e questo ha sensibilmente ridotto il numero delle vittime che sono state due, con alcuni feriti. La testimonianza d’un medico ospedaliero riferisce la presenza dei cadaveri di sei operai giunti dal luogo dell’attentato, di cui però finora nessun comunicato ufficiale ha dato notizia. Egualmente non c’è traccia di rivendicazione, seppure la tivù locale ha ipotizzato la mano dell’Isis-Khorasan. Il gruppo dei sikh nel ventennio di guerra incrementata dalle missioni Nato s’è sensibilmente ridotto, resta a Kabul un nucleo simbolico (meno di duecento persone, qualche anno fa erano oltre duemila) che s’occupa delle funzioni nel tempio. E’ la diversità di culto uno dei motivi che guida gli attacchi sanguinari del fondamentalismo sunnita, sia quello talebano attualmente al potere, sia quello che gli si oppone dei dissidenti dell’Isis-K. 

 

Fra le due componenti da un quadriennio è in atto una sfida indiretta che si sviluppa in alcune province, ma soprattutto in quella mediaticamente più rilevante della capitale. Dimostrare, attraverso agguati, di potersi muovere militarmente ovunque e perciò controllare il territorio è lo scopo degli attentatori. I talebani l’hanno fatto per anni durante i governi Karzai e Ghani, mettendo in mostra la propria capacità di penetrazione nei luoghi blindati, o presunti tali, di Kabul. I miliziani del Khorasan ne seguono le orme. Ora i primi, investiti del ruolo di governanti, dovrebbero impedire le offese esplosive, rivolte prevalentemente a innocui cittadini, ma non ci riescono. Le offensive risultano più semplici dei contenimenti. Giocano a favore l’effetto sorpresa e soprattutto le infiltrazioni, tutte mosse ben conosciute dai turbanti che su questa via hanno accresciuto nel recente passato organizzazione e credibilità. C’è da notare che l’Isis afghana non è in grado di controllare alcun distretto, eppure la sequela di agguati non cenna a diminuire e, oltre a seminare incertezza fra gli abitanti, palesa lo smacco all’attuale Emirato, colpito nella sua promozione della sicurezza nazionale. Formale e ossequioso verso i familiari delle vittime il comunicato diffuso a nome del governo dal portavoce talebano Zabihullah Mujahid, “Esprimiamo condoglianze e assicuriamo misure che porteranno all’identificazione e punizione di chi ha perpetrato il crimine”. Ma sono parole di circostanza, già sentite, che addirittura somigliano a quelle diffuse dal vecchio ceto politico - Karzai, Abdullah - attivi in questi frangenti nell’intervenire e parlare d’instabilità di questo governo che non dà spazio ad altri soggetti.

venerdì 17 giugno 2022

Volodymyr, il culturista

Sempre più tonico, oltre che tronfio, il premier guerrafondaio del popolo ucraino Volodymyr Zelensky, incontra i potenti del mondo occidentale in T-shirt attillata e bicipiti gonfi. Nei centoquattordici giorni di guerra che il suo esercito combatte contro l’invasore russo, il primo cittadino di Kiev accanto ai proclami lanciati via etere, cavo o in presenza davanti a chi va fargli visita, prospettandogli ogni sorta d’aiuto, trascorrerà il suo temo - così immaginiamo - a esercitarsi con manubri e bilanciere in una ‘palestra di guerra’ messa su nel rifugio istituzionale. E’ che dalle prime apparizioni, non tanto quelle sugli schermi in cui impersonava il “Servitore del popolo”, ma le successive del febbraio scorso che lo facevano militante-servitore-militare, abbigliato in verde mimetico, sfoggiava possanza muscolare mostrandosi in maglietta anche in pieno inverno. E’ vero che le riprese si facevano al chiuso, che il metano moscovita ancora circolava verso sud e riscaldava certi ambienti, almeno quelli istituzionali, ma i curatori d’immagine cui s’accompagna da tempo già gli suggerivano la divisa del combattente nella versione rassicurante del bel ragazzone tutto  cuore, coraggio e muscoli. Le prime due virtù si conservano intonse, la muscolosa mascolinità sembra accresciuta. Forse, accanto a truccatori, suggeritori, gost-writer, il buon Volodymyr godrà delle tabelle d’un personal trainer periodicamente attento a indicargli serie e ripetizioni per aumentare la massa di biceps et triceps. E con essi la solidità della sua immagine di statista di strada, uomo col fisicaccio, ben diverso dagli abatini, giovani e meno, interlocutori nei pellegrinaggi al suo cospetto. Nel mito americano e hollywoodiano probabilmente alla base dell’immaginario di Vol  dal momento della folgorazione per la finzione scenica e la politica, e la politica vissuta quale finzione scenica, tutto sta procedendo secondo i piani. Purtroppo il popolo che rappresenta gli si affida nella deriva guerrafondaia senza sbocchi. Un risultato, comunque, lo consegue. Avere sbriciolato il mito macho del russo più russo: Vladimir Putin. Le cui cavalcate, l’hiza guruma, i tiri d’hockey ghiaccio e quelli al piattello sono robetta da ex atleta che vive di ricordi. Sul fisico – che sempre conta – il Vladimiro ucraino batte quello russo due bicipitoni a zero. E avanti con applausi e armi.

martedì 14 giugno 2022

India, case abbattute alla maniera israeliana

Strascichi polemici a non finire sulle dure proteste della Umma islamica contro il governo di Narendra Modi e il suo partito. Ai quali l’ala dura del Bharatiya Janata Party risponde, lì dove governa anche localmente come nell’Uttar Pradesh, alla maniera israeliana: abbattendo case musulmane. L’agenzia Reuters riferisce una diretta volontà d’attuare tale repressione del premier locale, Yogi Adityanath, il monaco oltranzista in predicato di diventare la futura guida del Paese e del partito di maggioranza. Dopo che le ruspe hanno fatto il proprio lavoro, sono state diffuse note dell’amministrazione riguardo a presunte illegalità nell’edificazione di quell’edificio appartenente a un’attivista islamica. Stranamente la ‘punizione’ è giunta solo dopo i cortei di protesta antigovernativi dei giorni scorsi. Il clima d’odio, ampiamente ingigantito in questa fase, non si è fatto mancare nuovi richiami al ‘genocidio dei musulmani’ lanciato da figure di primo piano del Bjp e un ritorno addirittura di demonizzazioni dei “fedeli musulmani portatori di Coronavirus”, una costante delle cronache indiane nei primi mesi del 2020. Sulla dura presa di posizione di varie nazioni islamiche, con in testa gli Emirati Arabi Uniti, intervengono i media indiani. C’è chi fa notare come negli anni scorsi le petromonarchie non s’erano mai interessate a vicende riguardanti le minoranze confessionali in India. Erano concentrate su affari miliardari con gli Esecutivi che si sono succeduti a Delhi, e non entravano nel merito a questioni interne a quello Stato. L’avvento del Bjp ha accresciuto retorica e violenza anti islamica. E nell’ultimo quadriennio le tensioni hanno raggiunto un’acme mai visto prima. 

 

E’ aumentata anche l’attenzione di organismi internazionali che s’occupano di diritti, sebbene taluni analisti dell’ambiente hindu ritengono che quei leader pensino questo: al di là dell’attuale indignazione, i Paesi del Golfo punteranno al sodo, ai soliti affari e non insisteranno più di tanto nelle critiche a Modi. Costoro credono che s’attuerà un comportamento simile a quello rivolto al partner cinese, che non viene certo boicottato per la persecuzioni agli uiguri nello Xinjiang. Tali considerazioni nascono anche dalla valutazione di andamenti recenti che per il 2021-22 mostrano la Confederazione della Cooperazione del Golfo e l’India in un intreccio affaristico quasi doppio rispetto al biennio precedente: 155 miliardi di dollari anziché 87. In cima alle merci scambiate forniture di petrolio e gas che raggiungono il 60% di tutte le importazioni energetiche di Delhi. Per non parlare della forza lavoro indiana nelle nazioni citate, che supera gli 8 milioni di migranti, ognuno dei quali ha dalle sei alle dieci bocche da sfamare. Nelle vicende mercantili la parte del leone la fanno gli Emirati Arabi Uniti, seguiti da Arabia Saudita e Qatar. Le immagini dei calorosi abbracci fra Modi e l’emiro bin Zayed hanno fatto il giro del mondo proprio nelle occasioni in cui la violenza dell’hindutva s’abbatteva sui cittadini islamici di tante località indiane. Allora si commentava l’incongruenza del premier indiano, di come non riuscisse a contenere il fanatismo di casa. Di fatto si sminuiva la sua doppiezza, la protezione offerta ai mazzieri razzisti, l’aiuto per la scalata ai vertici del partito offerto a tanti fondamentalisti, personaggi come Adityanath, ufficialmente suo vice, e Napur Sharma, portavoce del Bharatiya Janata Party. Fra l’altro proprio la recente politica estera di Modi ha trovato nel suo vicino ovest due partner geopolitici strategici negli Emirati Arabi e in Israele, sulla scia degli ‘Accordi di Abramo’ dettati dalla Casa Bianca nella versione trumpiana,  conservati e carezzati dall’attuale amministrazione Biden.

lunedì 13 giugno 2022

Migranti afghani, botte di frontiera o bastonature di casa

Quattro milioni che non compaiono nei rapporti delle agenzie Onu, perché verso l’Iran anche le statistiche attuano filtri. Ma gli afghani che fuggono a ovest - non solo dal 15 agosto 2021 - risultano quattro milioni. Il loro Occidente sta subito dopo la provincia di Herat, quando la strada del distretto di Kohsan s’approssima al confine, vigilato più da guardie di frontiera che da Guardiani della Rivoluzione. E’ in quei territori che staziona un’infinità di afghani, a cercar riparo da bombe e violenze, sebbene nessuno li rassicuri che altre vessazioni,  individuali o di gruppo, possano accadere lungo tali percorsi. Le cifre diffuse dagli organi internazionali riguardo alle migrazioni sono sempre quantificabili per difetto, erano 272 milioni nel 2020; l’anno scorso, pur davanti ai blocchi della pandemia di Covid, avranno superato i 300 milioni, come se l’intera popolazione degli Stati Uniti se ne andasse altrove. E non per un giro turistico… Alcune storie afghane conosciute sono diventate, per la gioia dei protagonisti beneficiari d’un lieto fine, addirittura documentari. Di altre, della maggior parte, si sa pochissimo. Per molti già sopravvivere è tanto. Riuscire a lavorare e metter da parte un gruzzolo è un livello ancor più gratificante. Rassicurante no. Perché nel caso degli afghani, specie quelli di etnìa hazara, la partenza quasi mai è legata a un ritorno, il fondamentalismo sunnita è pericoloso anche quando non assume i contorni sanguinari dell’Isis Khorasan.

In realtà il fondamentalismo confessionale è pericoloso ovunque. Ne sanno qualcosa i musulmani indiani, perseguitati dagli hindu, e così via per diverse minoranze. In altre epoche, addirittura sotto taluni imperi, si riusciva a vivere, pur pagando tributi pecuniari. Andare in Iran per un hazara significa sperare che la comune fede sciita garantisca quantomeno un approccio differente. La disillusione arriva presto. Quando per non restare in un raggio di chilometri ristretto dalla frontiera, magari varcata di soppiatto per evitare il respingimento, il fuggitivo raggiunge certi punti dove stazionano i trasportatori di uomini. Il prezzo per un passaggio non è mai contrattabile, è imposto. Prendere o vagare a piedi. Per raggiungere la capitale, oltre un migliaio di chilometri, la cifra non è esosa: cinquanta dollari. Il problema è averli… Chi ha minimamente programmato il viaggio, una riserva minima la possiede, è che s’esaurisce velocemente. Testimonianze precedenti alla pandemia hanno descritto condizioni di accoglienze minime, comunque esistenti. Oggi tutto s’è fatto complicato, le stesse bonyad umanitarie non dispongono di fondi a sufficienza. Come in uno specchio anche in Iran, dove la crisi economica picchia duro dai tempi dell’incrudimento dell’embargo americano, i governi elargiscono più fondi alle Forze Armate che all’assistenza. Con la differenza che quanto specularmente accade nelle nazioni occidentali: più armamenti minor sostegno umanitario (eccezion fatta che per profughi e migranti ucraini), poggia su Pil statali decisamente corposi. Il rifugiato afghano che cerca sussistenza in proprio fuori dal campo d’accoglienza, e riesce ad avere la dritta giusta può finire nientemeno che a fare l’inserviente in un ristorante. Paga bassa, ma un pasto, almeno uno, assicurato. Ma si contano sulle dita d’una mano. 

 

Se i giovani iraniani di città solitamente scolarizzati e dunque proiettati verso occupazioni più qualificate non rappresentano una concorrenza, dalle province interne arrivano soggetti poveri che proponendosi per il medesimo lavoro vengono favoriti in base alla nazionalità. La fede sciita non basta. Eppure piuttosto che restare sotto i diktat talebani su vestiario, barbe, preghiere quotidiane, si fugge via. In ogni caso c’è il rovescio della medaglia. Sono cresciuti gli episodi di respingimenti alla frontiera e di violenze ufficiali, quelle poliziesche, non del razzismo di strada. Rifugiati afghani che denunciano bastonature durante i controlli meditano di tornare indietro. Fra le fustigazioni dei gendarmi iraniani e quelle dei vigilanti della morale in terra afghana, la sostanza resta impressa nei lividi sulla pelle. E le strisce rossastre non differiscono a est e a ovest. Della vicenda si sono occupati anche i portavoce dei rispettivi ministeri degli Esteri in un palleggiamento di buone intenzioni finora verbali. Elogiando l’inclusività nel territorio iraniano d’un numero importante di cittadini afghani, gli uffici migratori di Teheran fanno notare come fra 780.000 di loro, quasi 600.000 hanno un nuovo passaporto. Certo, 2.600.000 risultano privi di documento. Non possederlo comporta indicibili difficoltà per ottenere un lavoro legale, e si può tirare a campare solo sotto iper sfruttamento. Per tacere dell’ottenimento d’un conto bancario, della locazione d’appartamento, finanche il possesso d’una carta Sim per il cellulare… Per l’assistenza sanitaria occorre appoggiarsi alle strutture dei campi profughi, bisognose anch’esse di fondi, questione già citata, e di crescente difficoltà sempre per la crisi economica e il malefico embargo. Comunque Pakistan e Iran sono le nazioni-rifugio d’una copiosa quantità di afghani fuoriusciti. Invece l’Unione Europea e gli Stati Uniti, al di là d’essersi tuffati anima e corpo nell’emergenza Ucraina, hanno limitato gli ingressi ai soli ‘corridoi umanitari’ quasi sempre inaccessibili ai più.

giovedì 9 giugno 2022

India, donne contro


Donne contrapposte a donne, inesorabilmente. L’ultima fiammata del peggior comunalismo che in India ha scatenato la rivolta dei fedeli islamici alle provocazioni orchestrate dal partito del premier Modi, per bocca della portavoce ufficiale Napur Sharma, non tendono a placarsi. E portano in strada donne musulmane infuriate contro di lei. L’ultima provocazione al vetriolo riguardava una presunta ‘pedofilia’ del profeta Maometto che avrebbe preso in sposa (la sua terza sposa) una bambina. E’ un vecchio ritornello, assolutamente imponderabile per mancanza di dati storici oggettivi, ma ottimo per scatenare il finimondo, come in questo caso. Il Gotha del Bharatiya Janata Party ha ignorato il problema finché ha potuto. Modi vestendo i panni dello statista coinvolto nella difficile navigazione geopolitica dei tempi che corrono. Ma quando l’indignato Qatar, maggior fornitore di metano a quel gigante senza energia che è l’India, ha iniziato a prospettare restrizioni e altre nazioni del Golfo, piccole ma solventissime grazie ai petrodollari, a minacciare un boicottaggio delle merci di Delhi, l’Esecutivo hindu s’è svegliato punendo i suoi membri rissaioli: la portavoce Shama e il giornalista Jindal. I politici islamici locali, che da anni hanno sotto gli occhi la deriva polarizzante del confessionalismo hindu, sostengono come la mossa sia fittizia, una sceneggiata per placare lo sdegno e il furore di strada, che non cambierà l’indirizzo d’un partito apertamente orientato al fanatismo religioso. Nelle elezioni del prossimo anno, quando Modi non potrà più ricandidarsi ai vertici nazionali per i raggiunti due mandati, i pronostici danno per certa la doppietta, nel partito e al governo, del monaco Yogi Adityanath, un fondamentalista assoluto. Eppure quest’ascesa - come la collocazione nei posti chiave della direzione, della comunicazione e della propaganda nel Bjp di elementi fanatici - è frutto proprio delle scelte dell’attuale premier che per approccio, apparenze, comportamenti dà l’impressione d’un moderatismo sopra le parti. 

 

Vuole mostrarsi ‘padre’ dell’intera popolazione indiana, compresi i 230 milioni della minoranza islamica e i 70 milioni di quella cristiana. Non è così. Per sua volontà il partito ha guardato sempre più alle formazioni violente, fasciste, intolleranti della destra hindu. A gruppi come Rashtriya Swayamsevak Sangh l’organizzazione paramilitare con quasi un secolo di vita, che fa vanto dell’hindutva, ideologia razzista che semina odio contro chiunque non si proclami hindu e non orienti questa fede alla sopraffazione di altre religioni. Del resto la stessa guida dell’India liberata dal colonialismo britannico, il Mahatma Gandhi, fu punito con la morte da un adepto del RSS per aver continuato a sostenere come la nascente nazione, pur davanti a una copiosa maggioranza hindu, dovesse accettare ogni confessione.  In queste ore una parte del Bjp continua a considerare un’eroina Napur Sharma, ed è infuriata per la censura subìta, considerando il ‘politicamente corretto’ una sciocchezza. Son tanti come lei a pensare che occorra sempre e comunque attaccare il nemico musulmano, finanche con calunnie, falsità, provocazioni. Accusano Modi - l’imperatore del cuore hindu - di aver abbandonato la missione volta a recuperare l’intero spazio geopolitico e teologico al credo hindu, estromettendo i ‘corpi estranei’. Ma c’è chi sostiene sia un gioco delle parti. Gli osservatori del percorso intrapreso dal partito di maggioranza sanno che i due volti, estremista e apparentemente pacato, sono un tutt’uno. Il primo incarnato pure da figure istituzionali, punta a esasperare la conflittualità interna pungolando gli islamici sul versante religioso. La Umma interna e mondiale risultano  particolarmente sensibili al tema e non riescono a controllare i facinorosi che rispondono con violenza alle provocazioni. Negli anni passati gli scontri interreligiosi sono serviti a governo e magistratura di Delhi per reprimere i musulmani e punirli con norme ancor più umilianti ed escludenti. L’esempio del Citizenship Amendment Act, approvato a fine 2020, è solo l’ultimo capitolo.  

martedì 7 giugno 2022

India, islamofobia alle stelle


Rispettare i simboli religiosi, azzerare i discorsi d’odio” dice un comunicato del ministro degli Esteri emiratino che ha costretto il governo indiano a prendere provvedimenti contro due membri del Bharatiya Janata Party. I questi giorni alcuni Paesi musulmani avevano ritirato il proprio ambasciatore da New Delhi e un numero crescente di nazioni islamiche s’univa al coro delle proteste contro Nupur Sharma e Naveen Kumar Jindal. Entrambi avevano spinto l’islamofobia di cui il raggruppamento del premier Modi trasuda, oltre i confini d’un fondamentalismo ben radicato fra gli hindu. Obiettivo il profeta Maometto. Così i vertici di Delhi sono stati costretti a muoversi, sospendendo la prima ed espellendo il secondo. Fra le monarchie del Golfo attive a sostegno delle proteste ci sono fornitrici di prodotti indispensabili all’economia industriale indiana, su tutti il Qatar col suo gas. E in una fase in cui il prezzo del prodotto è schizzato alle stelle per la destabilizzazione mondiale causata dal conflitto in Ucraina, inimicarsi certi fornitori può costare caro, in tutti i sensi, alla nazione indiana. Proprio il ministro degli Esteri qatariota bin Saad Al-Muraiki ha rimarcato la tendenza del partito hindu a lasciar correre “gli incitamenti all’odio religioso che offende i due miliardi di fedeli della Umma islamica”. Una prassi insostenibile afferma. “Sono proprio gli incitamenti all’odio provenienti dai politici del Bjp ad aver incrementato nell’ultimo decennio la polarizzazione del Paese a danno della coesistenza”. Il caso s’è ampliato in pochissimo tempo, dopo Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, Pakistan, molte nazioni musulmane, comprese Indonesia e l’Iran, si sono unite alle contestazioni vissute sul doppio terreno diplomatico e di strada. Fra le piazze più bollenti quella del nemico storico pakistano che, peraltro, raccoglie gruppi fondamentalisti (in questo caso islamici) presenti anche legalmente sulla scena nazionale, come i Tehreek Labbaik. Con la presa di posizione dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, in queste ore l’inquietudine è cresciuta. A un suo comunicato dalla sede di Jeddah che fa esplicito riferimento alle pratiche contro i musulmani del governo indiano, ha risposto per le rime il ministro degli Esteri di Delhi bollando l’OIC di “mentalità ristretta”. Altra benzina sul fuoco. L’impennata ideologico-teologica confligge apertamente coi reciproci affari che fra India e i Paesi della Cooperazione del Golfo nel biennio della piena pandemia 2020-2021 ha sfiorato la quota non indifferente di 100 miliardi di dollari. Per non parlare dei trasferimenti di lavoratori indiani e delle loro preziose rimesse. Eppure non sono stati solo i cartelli della faziosa militante Napur a finire sotto le scarpe dei manifestanti islamici, l’emittente Al Jazeera ha mostrato come in vari mercati kuwaitiani sono state accatastate pile di thè e altri prodotti del gigante asiatico, rimasti invenduti in segno di disgusto verso l’islamofobia di governo. Tranne tamponare goffamente e in extremis le blasfemìe ‘dal sen fuggite’ di membri di partito e addirittura ministri, i vertici del Bjp paiono sordi anche ai richiami di alleati potenti come gli statunitensi. In un recente viaggio in Oriente il Segretario di Stato Blinken, che sollevava il tema degli assalti a persone e negozi della comunità islamica indiana, si sentiva rispondere ufficialmente che la questione non era vera, e lui risultava disinformato.