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lunedì 31 agosto 2020

Egitto, mani sulla primula rossa della Fratellanza


Al Cairo nel fine settimana i servizi di sicurezza egiziani hanno messo le mani sulla “primula rossa” della Fratellanza Musulmana finora sfuggita agli arresti. E’ Mahmoud Ezzat, 76 anni, che nel gruppo aveva rimpiazzato Mohammed Badie dopo la sua cattura avvenuta nelle settimane seguenti la grande repressione dell’estate 2013. Sebbene Ezzat fosse noto, e nonostante il radicato sistema di controllo e spionaggio incrementato negli anni dal generale al Sisi, l’ultimo leader della Confraternita è rimasto a lungo latitante. Si era ventilata una sua fuga all’estero, si pensava in Turchia, dove alcuni Fratelli musulmani ripararono nelle prime fasi dell’escalation militare golpista, godendo della protezione del governo dell’Akp. L’uomo viveva blindato in pieno centro della capitale, in una zona esclusiva, vicino all’Università Americana, probabilmente aiutato da un manipolo di fedelissimi. Oppure il regime sapeva e l'ha tenuto nel mirino, valutando quando catturarlo. Durante l’irruzione nell’appartamento-rifugio gli agenti della Sicurezza Nazionale hanno trovato pc e telefoni mobili con cui l’uomo teneva contatti con membri della Brotherhood presenti in altri Paesi. Sulla sua testa pesano due condanne a morte per terrorismo, le stesse che avevano colpito altri capi dell’organizzazione (Morsi, Badie) che comunque erano state tramutate in ergastolo. Molte di queste sentenze sono state emanate in totale mancanza di prove, come ribadivano gli avvocati dei diritti che hanno difeso gli imputati prima d’essere essi stessi arrestati, nel clima di caccia all’oppositore lanciato dal 2014 dall’insediato presidente Sisi. Un clima che prosegue, s’è espanso andando a colpire qualsiasi cittadino si occupi di vicende interne oppure a esprimere non solo critiche ma anche semplici dubbi sull’operato governativo. Il ministero dell’Interno egiziano comunica che durante la perquisizione nell’appartamento di Ezzat sarebbero stati trovati documenti di un “piano distruttivo” predisposto dal medesimo. Chi studia i movimenti politici islamici egiziani afferma che durante tutta la militanza, iniziata negli anni Sessanta, Ezzat, ormai anziano, ha sempre sostenuto la giustezza d’una pratica non violenta. Anche davanti alla recrudescenza delle dure misure nasseriane, e dopo quando una parte dell’islamismo decideva di eliminare il presidente Sadat.  

domenica 30 agosto 2020

India, governo infiltrato dai musulmani


Lo scoop lanciato da un’emittente televisiva indiana (Sudarshan tv) vicina alle posizioni estreme dell’hindutva e del suo gruppo maggiormente organizzato - Rashtriya Swayamsevak Sangh - condiziona nelle ultime settimane le discussioni e i commenti di molti analisti: l’Intelligence di Delhi e lo stesso governo Modi, sarebbero oggetto d’una cospirazione islamica incentrata  sull’infiltrazione. Non potendo battere il partito di governo, Bharatiya Janata Party, negli ultimi anni tanto forte nelle urne e per le strade, i musulmani penserebbero di conquistarlo dall’interno. E’ una teoria priva di prove, più propaganda che servizio giornalistico - del resto il caporedattore nonché amministratore delegato della tv, tal Suresh Chavhanke, è stato già condannato per faziosità e incitamento alla violenza collettiva - ma tiene comunque banco nel dibattito pubblico. Anche perché storicamente non solamente accesi nazionalisti ma gli stessi indiani liberal rammentano come all’epoca del generale Zia-ul-Haq (che nel 1977 prese il potere con un golpe in Pakistan diventando l’anno seguente presidente), la nazione confinante, storica avversaria di Delhi, adottò una strategia volta a indebolire i vicini. Con attentati compiuti da agenti dei servizi (la chiacchieratissima Inter-Service Intelligence) e da formazioni fondamentaliste islamiche finanziate e addestrate da Jalalabad. Dunque, uno spettro passato esiste.

Con tanto di riferimenti a posizioni moderate, aperte alla presenza di elementi non hindu nel Bjp, come quella dell’esponente e fondatore del partito, Atal Bihar Vajpayee, che fu primo ministro nel 1996, nel 1998 e per l’intero mandato dal 1999 al 2004. Pur col rilancio dei sospetti di cospirazioni esterne d’ispirazione confessionale (una riguardava influenze e complotti Vaticani) furono gli avvenimenti del 2002 nello Stato del Gujarat a accendere il clima nel Paese e orientare il Bjp verso una totale appartenenza ‘arancione’. In quel febbraio un treno di pellegrini hindu fermo nella stazione di Godhra prese fuoco, morirono 59 persone. Precedentemente c’era stata una colluttazione fra hindu e musulmani e quest’ultimi vennero accusati d’aver incendiato il vagone ferroviario. Una successiva indagine della magistratura dimostrò che le cause erano endogene: era stato un fornello acceso per riscaldare del cibo a sviluppare le fiamme nella carrozza. Ma nella cittadina e poi nell’intera regione del Gujarat la comunità hindu attaccò i musulmani, uccidendo e bruciandone abitazioni. Le vittime furono migliaia. Il premier di quello Stato indiano era Narendra Modi che non mosse un dito per fermare le violenze anti islamiche. Vajpayee avrebbe voluto rimuovere Modi, però la componente più fondamentalista interna ai vertici del Bjp, che cresceva a dismisura, glielo impedì.

La svolta intrapresa dal partito, sempre più hindu e anti minoranze, porterà Modi ai vertici interni e, dal 2014, a conquistare il governo. Eppure fra consiglieri e ispiratori del suo corso politico c’è stato chi sul fronte estero gli ha indicato la via di accomodamenti col mondo arabo, specie dalle parti del Golfo, monarchie piene di petrodollari, fonti energetiche di cui l’economia indiana necessita e orientamenti securitari nella realpolitik islamica. I canali si sono aperti verso i Saud. Comunque il fronte interno e la politica estera, che spesso si condizionano, possono mantenere approcci distinti. Lo Stato-continente già in flessione economica nel corso del 2019 vive una palese difficoltà con una caduta del Pil a percentuali che non registrava da quarant’anni. 5.1 dicono gli analisti, cifra che farebbe sorridere qualsiasi occidentale, ma per l’India che correva e rincorreva la Cina la frenata è evidente. Ancor più dallo scorso marzo a seguito della pandemia, dura nel colpire (3.5 il dato degli infettati che pone l’India al terzo posto nella graduatoria mondiale del Covid-19). Da qui chiusure che proseguono o riprenderanno negli Stati che avevano liberato le persone, non gli affari rimasti in ribasso. Perciò la ricerca di problemi, di capri espiatori reali o presunti, con nuovi temi che richiamano vecchi fantasmi, può risultare utile.

venerdì 28 agosto 2020

L’Afghanistan seppellito nell’acqua


Mentre Abdullah, nominato presidente della Commissione dei Colloqui inter afghani, si dice fiducioso nell’inizio degli incontri fra la delegazione del suo governo e quella talebana (però 320 turbanti prigionieri attendono ancora d’essere scarcerati), nel nord del Paese la città di Charikar è diventata un cimitero. Una terribile inondazione ha sradicato case e quasi ogni altra presenza della località pedemontana incavata sotto l’Hindu Kush. Finora si contano centocinquanta vittime e oltre duecento feriti, alla stregua d’un attentato jihadista. Flussi d’acqua piovana rombanti come torrenti e grandi come fiumi si sono riversati in piena notte nelle case, cogliendo le famiglie nel sonno. Crolli, fughe, annegamenti, schiacciamenti. Un quadro macabro. Alle difficoltà esistenziali in una zona impervia, al virus pandemico che colpisce anche nelle aree rurali, s’aggiunge quest’ulteriore disastro con famiglie che dipendono unicamente da soccorsi governativi (finora si sono mossi alcuni reparti dell’esercito) e futuri aiuti internazionali. Anche combattenti talebani della provincia di Parwan si sono resi disponibili ai soccorsi, tranne poi scoprire che alcuni di loro hanno attaccato un avamposto militare crollato, con conseguente conflitto a fuoco e vittime pure civili. Tragedia nella tragedia, che la dice lunga sulla pacificazione attesa coi suddetti colloqui... Sebbene a fine agosto fenomeni metereologici avversi siano comuni in quelle zone, testimoni anziani sopravvissuti hanno dichiarato alla televisione nazionale, che ieri s’è collegata dall’area disastrata, di non ricordare inondazioni tanto drammatiche. Le case sono state smembrate, spaccate dalla furia delle acque, aperte in due come fossero fette d’una torta tranciata da gigantesche pale. C’è da dire che alcuni edifici distrutti erano stati costruiti di recente in zone golenali o alluvionali, che sarebbero dovute restare inedificabili. Ma le speculazioni avvenute per il basso costo dei terreni da parte di società e l’avidità di singoli hanno incentivato un simile sciagurato approccio al territorio, autolesionista verso se stessi. Questione, comunque, che non è prassi esclusivamente afghana.

martedì 25 agosto 2020

Nuova Turchia, attori e progetti


Un paio d’anni fa s’era tolto lo sfizio di sfidare Erdoğan dicendogli: “Non sei il padrone dello Stato. Sei solamente un viaggiatore, mentre i Lupi grigi, i nazionalisti e i patrioti tutti, a qualunque stirpe appartengano, sono i gestori dell’albergo”. Poiché il soggetto è, nel bene e nel male, un uomo pubblico - al secolo Alaattin Çakıcı, boss della mafia turca - la stampa nazionale riportò l’avvertimento e in quell’occasione neppure ci fu una condanna, com’era accaduto per un precedente episodio. Ma per chi ha accumulato 36 anni di reclusione, dieci mesi in più sono scampoli, e poi il boss di Trebisonda non è solo un boss. Vanta d’essere un Lupo grigio, amico personale di Devlet Bahçeli, che lo visitava quand’era piantonato in ospedale e ha provato a incontrarlo anche in prigione. Dove, comunque, Çakıcı non è più. Nell’aprile scorso per motivi di pandemia, come parecchi reclusi turchi d’ampia stoffa criminale, ha beneficiato di un’uscita di prevenzione. Soluzione inapplicata a oppositori e perseguitati dal regime dell’Akp. Il curriculum di Çakıcı è ricco, oltre che di condanne d’ogni sorta, fra cui una quarantina d’omicidi, anche di collaborazioni col Mıt turco. Non in tempi recenti, a metà anni Novanta, quando proseguiva la repressione della sinistra e imperversava la guerra civile col Pkk. Insomma il padrino del Mar Nero vanta servizi per quel genere di vatan, noto come ‘Stato profondo’ contro cui Erdoğan e il suo staff si scagliarono a inizio mandato (caso Ergenekon e simili), per poi riconsiderare in tempi recenti e nei vari aggiustamenti delle alleanze, idee, tattiche, uomini, volti. Dovendo sopportare anche quelli trucidi alla Çakıcı, sguinzagliato quale cane da guardia di quell’ultradestra presente nell’area criminale dal manovratore Bahçeli. Gli interventi di alcuni studiosi (Posch, Karaveli, Aydintaşbaş) pubblicati nell’interessante numero della rivista Limes dal titolo “Il turco alle porte” aiutano a comprendere aspetti che normalmente sfuggono alla cronaca e all’analisi sui multiformi risvolti della politica turca, recente e passata.
Così l’immagine d’antan offerta dal leader dei nazionalisti, non solo quella personale in cui mostra più degli attuali 72 anni ma l’entità d’un partito tutto rivolto al passato oscuro fatto di assassini politici, trame, golpe, nostalgie fascistoidi, non funge da semplice aggregato alla politica del governo presidenzialista. Ne determina la svolta, ben più che autoritaria. I trentatrè voti nazionalisti (l’Akp ne disponeva 315) che nel 2017 servirono al passaggio parlamentare per apportare le modifiche presidenzialiste pesarono come piombo, lo stesso dicasi per la successiva consultazione popolare, vinta col 51,4%. Da quel momento Erdoğan si prendeva la gloria, le interviste televisive, occupava la scena internazionale, ma Bahçeli dettava l’agenda attorno a questioni come quella kurda, esasperando la repressione, e rilanciava l’onore dell’esercito kemalista con la nomina a ministro della Difesa di Hulusi Akar. Militare molto “atlantista” con una carriera in ascesa in varie operazioni della Nato, anche quelle nei Balcani (Bosnia, Kosovo) territori che l’asse panislamico della politica turca osserva sempre con sentimento. Certo, nella notte del tentato golpe dei militari “gülenisti”, Akar s’era guadagnato la considerazione del presidente col rifiuto di firmare una dichiarazione di legge marziale sottopostagli dai golpisti. Un aneddoto lo dà riluttante anche quando gli fu stretta una cintura attorno al collo. Ma la sua investitura a ministro è giunta dopo due anni e su spinta del sempre più decisivo Bahçeli. Dunque, come la prassi del do ut des insegna, l’ultradestra - protagonista per tutti gli anni Settanta e Ottanta della politica turca, quindi emarginata dalle versioni liberista e para-riformista d’un neo kemalismo e dall’islamismo pur ultraconservatore della prim’ora (con Erbakan) e quello d’avvìo dell’Akp - rientra a pieno titolo nella nuova fase del Paese. E riceve il massimo dall’appoggio dalle mire personali del potere erdoğaniano.
Nel progetto di rilancio della Turchia quale potenza regionale, con una visione anche più allargata, molto si gioca sul versante estero. Qui Erdoğan ha dato fondo a ogni sorta d’affondo sul confine siriano, poi dallo scorso inverno in terra e in mare libici, e sui tavoli internazionali dove la sua “diplomazia militare” sta pagando dal punto di vista politico, geostrategico e in un futuro, che è già presente, economico. Ma tanta muscolarità s’è resa possibile perché le Forze Armate approvano e assecondano. I corpi di terra, aria e acqua, depurati dalle infiltrazioni dei Fetö, sono con lui. Compresa una riattivata rete di ultranazionalisti, emarginata dieci anni addietro, cui appartengono gli ex ammiragli Gürdeniz e Yaycı, padri del piano denominato “Patria blu”. E’ una componente se non proprio militante, vicina al nazionalismo di Bahçeli che indica la strada da seguire per una Nuova Turchia. Per plasmare questo terreno, gli ambienti che girano attorno ai due alleati di governo non hanno dovuto compiere forzature l’uno sull’altro. Fra i tratti caratteristici del presidente turco c’è l’adeguamento ai nuovi scenari che lo porta a compiere quei ‘giri di walzer’ capaci di spiazzare chi pensa di collocarlo in un unico schema. Nelle iniziali mosse da premier lui denunciava il nazionalismo, seppure nei trascorsi giovanili c’era stato un acceso anticomunismo che non lo farebbe distinguere da certi attuali teorici dell’ultradestra. E negli ultimi tempi vari politici, islamisti e non, rivangano grandezze passate e miti nazionali. Il comune conservatorismo adotta l’islamismo senza farne l’unica arma, le metafore su “cupole-elmetti e minareti-fucili” sono sostituite da “popolo mai piegato, bandiera non ammainata, preghiera sempre presente”. Così la nuova ideologia basata sul culto statale, sulla forza della leadership, sulla minaccia dei nemici interni ed esterni cementa la presa su una maggioranza che può ricavare consensi anche fra coloro che hanno cercato di sgambettare il regime col voto amministrativo del 2019. La partita della Yeni Türkyie è aperta. I potenziali avversari devono mostrare un progetto e un’identità capaci di scontrarsi con gli accattivanti sogni d’una nuova gloria nazionale. Che usa ogni arma e ogni alleanza.   

domenica 23 agosto 2020

Cipro, passaporti dorati


Ci sono alcuni nomi che scottano nei ‘Cyprus Papers’ che hanno iniziato a circolare in queste ore diffusi dall’emittente Al Jazeera. Denaro in cambio di passaporti locali (greco-ciprioti) con cui riciclatori di fondi illeciti, manager o pseudo tali, corruttori e corrotti ottenevano dal chiacchierato membro dell’Unione Europea il documento necessario per continuare a viaggiare, “lavorare”, mantenere i contatti per ogni genere di affari. Un investimento miliardario per l’economia cipriota, che dal 2013 ha incamerato sette miliardi di euro. A conferma di quanto il traffico rendesse e di quanto gli acquirenti della ‘carta d’oro’ fossero numerosi. Non è un caso che il “Programma d’Investimento” come veniva definito il commercio di passaporti, inizi in quell’anno che rappresentò per la Repubblica cipriota (la parte settentrionale dell’isola è dal 1974 sotto il controllo della Turchia con la denominazione di Repubblica turca di Cipro nord) un possibile fallimento statale. Diverse banche dell’isola - già sospettate di lavaggio di denaro della criminalità internazionale, primi fra tutti i clan mafiosi russi - avevano assunto dimensioni spropositate. Talune si esposero con crediti verso la Grecia che viveva la fase acuta della sua crisi finanziaria, cosicché gli istituti ciprioti subirono ingenti perdita. In quell’occasione Bruxelles varò un piano di salvataggio con un prestito di dieci miliardi di euro, a fronte d’un aggiustamento fiscale governativo di circa sei miliardi.

Nonostante i travagli e il salvagente europeo Cipro continuava la sua politica borderline con ogni sorta d’affarismo. Quello dei passaporti dorati, è solo uno degli esempi della sua finanza creativa e fuorilegge. Fra i “donatori” spuntano fuori i primi nomi eccellenti: l’ucraino Mykola Zlochevsky padrone del gigante energetico Burisma. Nell’autunno scorso entrato in alcune indagini dei procuratori del suo Paese che coinvolgevano anche Hunter Biden, figlio del neo candidato alla Casa Bianca Joe, attorno a un presunto commercio internazionale illecito di gas, di cui però non s’è saputo più nulla. Zlochevsky comperò un passaporto cipriota nel 2017 quand’era sotto inchiesta. Nello scorso giugno i procuratori ucraini hanno affermato d’essere stati oggetto di un’offerta di sei milioni di dollari da parte del manager per far cadere le indagini. L’interessato e l’holding smentiscono. Gigante energetico per gigante e tycoon per tycoon l’altro nominativo che spicca nell’inchiesta è quello di Nikolay Gornovskiy, già direttore dell’azienda statale russa per l’energia Gazprom, che richiese il passaporto cipriota un anno fa quand’era già ricercato in patria per abuso di potere. Quindi, a scalare, altri incriminati o già condannati: il russo Ali Beglov per estorsione, il cinese Zhang Keqiang che riceve il documento pur se condannato per operazioni fraudolente. E ancora in Asia il vietnamita Pham Nhat Vu, reo di tangenti in accordi telefonici. Tutti aggregati alla Repubblica di Cipro.

Nella primavera 2019 il Parlamento cipriota introduce regole più severe riguardo all’ottenimento della cittadinanza soprattutto per chi è investigato, ricercato e condannato a livello internazionale. Nel luglio seguente viene approvata la possibilità in casi simili di cancellare la cittadinanza concessa, ma non passa la proposta di rendere pubblici i nominativi di chi incorre nel provvedimento. A seguito delle norme più restrittive i responsabili di crimini possono essere perseguiti per un periodo fino a dieci anni successivi dall’acquisto del passaporto. Ora le carte cipriote stanno portando a galla personaggi su cui la politica locale (e anche europea, visto che dal 2004 il Paese è membro dell’Unione) ha chiuso gli occhi in cambio d’un mercimonio tutt’altro che morale. Accanto ai soggetti già citati le iniziative di elementi come il venezuelano Gonzalez Dellan, l’ucraino Oleg Bakhmatiuk hanno tutte un comune denominatore: riciclaggio. Che nei termini investigativi internazionali fa rima con le varie illegalità delle mafie mondiali: soprattutto narcotraffico e contrabbando di armamenti, tratta di uomini e donne, fino alle vendite energetiche sottobanco. In relazione a simili piani, l’evasione fiscale è il reato più “innocente”… E’ vero che nella lista risultano anche truffatori internazionali, coinvolti in reati volti all’arricchimento personale (frode, appropriazioni indebita e simili), ma la deriva scandalosa è che per anni ad aiutare e coprire tutto ciò ci fossero le banche e le Istituzioni cipriote. Con la Ue distratta. O complice? Del resto, se su alcuni dei misfatti in questione si volesse investigare su altri “Stati” membri - due a caso: Malta o Lussemburgo – quanti illeciti e delitti si scoprirebbero?

mercoledì 19 agosto 2020

Kabul, una vendetta dietro la strage degli innocenti


In un reportage svolto a Kabul, Luc Mathieu, inviato del giornale Liberation, raccoglie testimonianze e dichiarazioni di ufficiali dei Servizi per spiegare l’atroce attentato all’ospedale “Cento letti” dell’Ong Médecins sans frontières dello scorso 12 maggio. Una carneficina risultata a lungo inspiegabile pur davanti al cinismo dei maggiori indiziati: jihadisti del Khorasan e talebani. Ventiquattro vittime, fra cui madri, neonati, partorienti, ostetriche. Nessuno aveva rivendicato il folle gesto, i taliban accusati direttamente dal presidente Ghani, smentivano sdegnosamente, sostenevano: “Non attacchiamo maternità e funerali”. Dei tre attentatori visti penetrare solo uno era stato ritrovato morto, crivellato dai colpi degli uomini della National Directorate of Security, e dei cecchini dei reparti speciali della Nato, accorsi anch’essi a reprimere un assalto durato oltre cinque ore, poiché il commando s’era barricato all’interno della struttura. Invece degli altri due partecipanti all’azione non s’è saputo più nulla. Dalle ricostruzioni dei presenti raccolte dal quotidiano parigino, gli  assalitori vestivano divise della polizia, mentre il loro compare indossava il tipico shalwar kamiz, “di colore blu” ricorda con certezza chi è rimasto fortunatamente illeso.
Accanto alle notizie sul commando: l’attacco, che ha avuto luogo in una fase difficile per il Daesh afghano, colpito nel mese precedente dall’arresto del leader Aslam Ferooqi, e sugli aiuti interni: logistico dalla Rete di Haqqani, un nucleo talebano dissidente sin dall’epoca del fondatore Jalaluddin, protettivo del gruppo Lashkar-e Taiba (l’Esercito dei giusti) di stanza a Kunar che è l’ala militare del pakistano Markaz al-Dawa Wal, c’è un’altra importante scoperta nell’inchiesta giornalistica. L’infame assalto all’ospedale del quartiere di Dasht-e Barchi, area povera della capitale abitata prevalentemente dalla comunità hazara, sarebbe avvenuto per vendetta. Per rispondere a un’operazione antiterroristica contro cellule dello Stato Islamico compiuta dalle forze della sicurezza afghana nella provincia di Kabul a inizio maggio. Nell’occasione due donne incinte legate a qualche miliziano erano rimaste uccise, da lì la scelta di seguire la via più orrenda: applicare la legge del taglione. Il racconto degli scampati, rifugiatisi in reparti dotati di porte blindate, percorre momenti di dolore per quanto hanno visto e perduto fra affetti e amicizie. Parte delle rivelazioni provengano dall’Intelligence afghana, dunque potrebbero risultare interessate, ma la fondatezza della ricostruzione è stata verificata anche col contributo di analisti che studiano il fenomeno del Daesh e anche per costoro la crudele ipotesi risulta ammissibile.  

Sentenza Hariri, i lampanti misteri d’un Paese sospeso


Quindici anni, un colpevole, neppure così certo. E non perché all’epoca fosse appena maggiorenne, ma perché Salim Jamil Ayyash membro di Hezbollah, non può aver compiuto da solo l’attentato di San Valentino che fece saltare in aria sulle Corniche beirutine il premier Rafiq Hariri, l’ex ministro Fleihan, gli uomini della scorta e chi, per sua sfortuna, transitava nei pressi dell’hotel St. George. Eppure il Tribunale Internazionale dell’Aja decide che Ayyash è l’unico colpevole, gli altri indiziati (Hassan Mehri, Hussein Oneissi, Assad Sabra, come lui membri del Partito di Dio) non possono essere condannati, nonostante gli indizi lasciati dai loro telefoni cellulari che segnalavano una morbosa attenzione sugli spostamenti del primo ministro. E’ vero che quel Tribunale può giudicare le persone non i complotti politici e le trame internazionali, ma la condanna d’un singolo posto come capro espiatorio in un attentato eclatante, che a detta di tutti i politologi è un intrigo a più mani, risulta quantomeno limitante. Così tutto resta in sospeso nel Paese che da tempo si riserva una realtà solo parzialmente ammantata di misteri, poiché quel che accade nella sua vita sociale, finanziaria, politica, istituzionale, militare e paramilitare è assolutamente palese, ma volutamente è letto come indefinito o indefinibile.

Questo perché il domani può diventare peggiore del presente e gli stessi richiami che si danno i partiti sul futuro, messo nelle loro sigle, è una maschera a una realtà che un simile approdo può solo sognarlo. Così se il terribile attentato ad Hariri padre ha comunque definito un passaggio del Libano che viveva ancora nel 2005 lo spettro dell’occupazione straniera (in quel caso delle truppe di Asad ritiratesi ai primi di marzo dalla valle della Beqaa), i famelici fantasmi dei potenti vicini si ripresentarono sedici mesi dopo, coi bombardamenti dell’aviazione israeliana e gli scarponi di Tsahal nuovamente sul suolo patrio. E’ la contraddizione che vive il piccolo paese levantino, schiacciato da ingerenze straniere, sia quelle indesiderate, sia quelle ricercate sotto forma di aiuti. E la rinascita della nazione intrapresa dalla politica liberista di Rafiq Hariri a suon di petrodollari sauditi - fronte sunnita di un’emancipazione senza sviluppo, cui sorrideva anche un pezzo della comunità maronita (la più conservatrice continua a farsi carezzare dal colonialismo di ritorno francese) e gli ondivaghi drusi - non è riuscita a risollevare le sorti della gente. I prosecutori del progetto di Hariri, si sono persi per via per incapacità, subordinazione, vizi e beghe personali e di clan, mostrando tutti i limiti di un’economia improduttiva, basata su servizi, bolle edilizie e balle di benessere vendute a risparmiatori poi rapinati dalle banche dove passano diversi affari delle petromonarchie.

L’altro Libano, quello controllato dalla lunga mano iraniana attraverso il discusso Partito di Dio, dopo aver conseguito successi militari contro l’invasione israeliana del 2006 e aver venduto il ruolo patriottico della propria militanza, è stato gradualmente risucchiato dalla sudditanza alle strategie geopolitiche di Teheran, a sua volta rese difficili dall’aria in Medio Oriente, dai soffocamenti dell’embargo statunitense, dalle “primavere” trasformatesi in “inverni” per le necessità di popolazioni locali che hanno ripreso a soffrire, per le guerre civili e jihadiste, come in Siria, per le repressioni come in Egitto e Turchia. Il piccolo Libano, oppresso dalle abiezioni d’una classe dirigente autoreferenziale e mafiosa, un po’ su tutti i fronti confessionali, colpe mostrate come l’unica via per rendere possibile una stentata sopravvivenza, si ritrova a portare in groppa quel che altri decidono debba accadere in quella terra. Si tratti di milioni di persone lì destinate non solo per questioni di confine, o d’inette gestioni di spazi destinati a stipare problemi, denaro (che la gente non vede), nitrato di ammonio la cui presenza ha deflagrato sulle carni di uomini e donne che, quando sopravvivono, possono solo apprendere ciò che gli è accaduto attorno. Deflgrazione dopo deflagrazione, pirica, finanziaria, giudiziaria. Senza poter decide nulla. Il Paese sospeso continua a essere appeso a un filo, quello del solito denaro estero.

sabato 15 agosto 2020

La vocazione mediterranea della patria turca


Quando Erdoğan sperimentava i primi anni di potere d’un rilanciato schieramento islamico con la sigla dell’Akp, l’ammiraglio Cem Gürdeniz parlava di “Mavi vatan” che significa “Patria blu” e riporta il sentimento turco al momento della grande punizione, quella sancita dal trattato di Sèvres dell’agosto 1920. Allora l’Impero Ottomano, sconfitto nel primo conflitto mondiale, divenne solo un pezzo di Anatolia, perdendo a ovest le aree di Edirne e Smirne, a est territori a vantaggio dell’Armenia, d’un ipotetico stato kurdo peraltro mai nato, e zone meridionali dove francesi e britannici stabilivano il proprio protettorato. E’ vero che tra anni dopo, a porre fine al sanguinoso conflitto greco-turco, la nazione kemalista si ritrovò padrona dei territori occidentali e orientali, mentre a sud nascevano gli Stati siriano e iracheno, ma da quel momento l’influenza sul ‘mare bianco’ d’ottomana memoria diventava solo un ricordo storico, sia per la perdita definitiva dei territori dell’Africa mediterranea orientale (Tunisia alla Francia, Tripolitania, Cirenaica, Dodecanneso all’Italia) sia per la politica di Atatürk concentrata sulla ricostruzione interna.

Nel 2006 Gürdeniz, che non nasconde il suo viscerale nazionalismo, era direttore del Piano di divisione del quartier generale delle forze navali turche, e rispolverava la nostalgica proiezione marina della Turchia un tempo imperiale. La visione del presente geopolitico fra l’allora premier Erdoğan e gli apparati della difesa appariva assai diversa. E’ di quel periodo il presunto “piano Sledgehammer”, un progetto di golpe per abbattere il governo che non fu mai effettuato, e che nel 2010 condusse alla sbarra il Gotha di esercito, marina, aviazione di uno dei più forti membri della Nato. Dopo ventuno mesi d’indagini la Corte criminale di Istanbul produsse 325 condanne su 365 graduati turchi indagati. Le pene che dovevano essere esemplari scesero a fasi di reclusione, sebbene in qualche caso lunghe vent’anni. Per altri ufficiali anziani si passò alla collocazione a riposo. Il dibattimento del processo fu un vero scontro fra i legali di parte governativa e i difensori dei militari. Quest’ultimi sostennero che molte registrazioni portate come prove erano manipolate, ma di fatto la lobby kemalista in seno alle Forze Armate uscì con le ossa rotte ed Erdoğan potè rimpiazzare un gran numero di ufficiali con nuovi elementi compiacenti alla linea politica dell’Akp. Fra coloro che si collocarono a riposo, o vennero ‘invogliati’ a farlo dopo la dura diatriba giudiziaria, con tanto di carcerazione, c’era anche l’ammiraglio Gürdeniz.

Lui studiò, scrisse e si riciclò brillantemente quale editorialista sulle testate Aydınlık Dailiy e Yacht Magazine, quindi divenne direttore del Forum marittimo dell’Università Koç di Istanbul. Le sue posizioni patriottico-marinare non sono cambiate, lo conferma un’intervista concessa al quotidiano Hürriyet Daily poco più d’un anno fa (cfr. https://www.hurriyetdailynews.com/blue-homeland-shows-turkey-has-become-a-maritime-power-141624), ma è l’uomo del destino turco, nel corso di molteplici mandati e nuove cariche, ad aver adattato i suoi piani e i volti alleati. Fra il 2010 e 2012 al fianco di Erdoğan c’era il ministro degli Esteri Davutoğlu, il professore dell’Università di Beykent che la rivista Foreign Policy definiva “il cervello che sta dietro al risveglio globale della Turchia”. Un pezzo forte della geopolitica di Ankara dell’epoca teorizzava la linea “zero problemi coi vicini”. Invece fra questioni interne, guerra civile siriana su più fronti, presenza in Libia via terra e via mare, più le recenti diatribe sulle Zone economiche esclusive nell’Egeo i problemi presi di petto dal presidente turco sono decine. La sua diplomazia continua a cercare il gesto estremo e ora mutua anche la “Patria blu” dall’ammiraglio ultranazionalista. In essa Erdoğan colloca interessi commerciali e supremazia politica, con l’ausilio di navi scandaglio e fregate d’assalto, più radar, missili, droni da vendere o usare, anche solo per dissuadere. Pur di occupare spazi vitali. Anche quelli su cui l'Occidente mostra disinteresse.

mercoledì 12 agosto 2020

Colloqui inter afghani – Roshan: “Riscattare i taliban è un tradimento nazionale”


Il sourplace del rilascio dei detenuti talebani si scioglie in uno sprint. Il presidente Ghani, da acceso oppositore dell’accordo sottoscritto in febbraio a Doha fra le delegazioni statunitense e dei rappresentanti della Shura di Quetta per rilasciare cinquemila prigionieri, è diventato nei mesi seguenti un mediatore. L’ha fatto per rientrare nel giro che conta, che l’aveva riproposto come capo d’uno Stato esistente sulla carta più che sul territorio, per poi escluderlo dalle trattative su come amministrare l’area dell’Hindukush sfinito da quarant’anni di guerra. L’ultimo atto dei colloqui inter afghani ha visto Ghani convocare nella scorsa settimana la Loya Jirga e far passare, col benestare di capi tribali e notabili, la decisione di rilasciare gli ultimi quattrocento reclusi della lista talebana. Nella parata gli ha fatto eco il nemico-compare Abdullah Abdullah, insignito mesi addietro della carica di capo dell’Alto Consiglio per la conciliazione nazionale, dopo che aveva minacciato azioni contro il Ghani vincitore, a suo dire truffaldino, nelle elezioni dello scorso settembre. La coppia di eterni rivali che dal 2014, minacciando contrasti, si spartisce i fondi degli aiuti internazionali, dice d’esser pronta a dialogare con quei talebani che finora non ha voluto incontrarli. Però negli ultimi tempi anche gli studenti coranici hanno cambiato registro, si mostrano flessibili perché sanno di poter guadagnare tanto. Dunque nei prossimi giorni Doha potrà vedere il faccia a faccia fra i nemici di lungo corso: quel che resta dei Signori della guerra governativi sponsorizzati dagli statunitensi e quel che conta della galassia talebana, benedetta sempre da Washington. Come tutti sanno il passo della “riconciliazione” è frutto delle politiche del Pentagono che, con o senza Trump, vuole stabilire nuove regole sul controllo di quei territori. E dopo il ventennio di fallimenti dell’Enduring freedom, dell’Isaf mission, del Resolute support ha deciso d’imbarcare i talebani nelle prossime giunte.
A quale prezzo l’ha scritto su un cartello esposto nel corso del dibattito nella Loya Jirga la senatrice di Farah Belquis Roshan, da anni in prima linea per sostenere i diritti delle donne e delle popolazioni più umili.  Riscattare i taliban è un tradimento nazionale” diceva quel cartello, esposto mentre Ghani interveniva nell’assemblea e seguito da una serie di domande che l’attivista politica poneva al presidente. Lui non rispondeva e subito dopo, com’era accaduto in altre circostanze, Roshan era accompagnata fuori dall’assise dal personale della sicurezza. La contestazione della senatrice ha un ampio carattere politico, ma nello specifico quest’ultime scarcerazioni, barattate dal governo con la copertura della Loya Jirga, riguardano individui che poco hanno a che fare con la sfera militare dei turbanti, e coinvolgono soggetti implicati in azioni criminali contro cittadini afghani per ragioni di traffico di stupefacenti, violenze private verso donne e uomini, seppure col benestare talebano. Comunque Doha ospiterà un’ennesima seduta di trattative, la richiesta della cricca di Kabul è che i liberati non tornino sui campi di battaglia, quella degli uomini della Shura di Quetta è che valori islamici, ruolo dei capi religiosi siano garantiti nelle Istituzioni. E alla fine tutti si riempiono la bocca di “democrazia” per l’Afghanistan da ricostruire.

Cristina Cattafesta, il sorriso della lotta solidale

 

E’ andata via in punta di piedi, non dicendo nulla del dolore personale. Cristina Cattafesta sapeva fare suo l’altrui dolore, occupandosi dei problemi piccoli e grandi degli oppressi che aveva incrociato in alcuni angoli del mondo, ma era una donna schiva, non amava apparire. Una donna speciale, come ce ne sono molte, però lei al femminismo, alla militanza, all’attivismo internazionale riusciva ad aggiungere realismo e umanità, ironia e disincanto, coraggio e serietà in un impegno lontano dai riflettori. Anche per le tante notizie che forniva, sgradevoli al mainstream.   E’ stata fondatrice e animatrice del Cisda, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, una ong piccola e tosta financheggiatrice di quelle donne che quotidianamente rischiano la vita, si tratti delle note Malalai Joya, Selay Ghaffar, Samia Walid e delle migliaia di attiviste Rawa sconosciute per ragioni d’incolumità, ma determinatissime nei sentimenti politici e amorevoli per il proprio genere in una terra martoriata. Alle compagne con cui ha lavorato per anni su progetti magnifici - finanziamenti per orfanotrofi, scuole d’istruzione primaria e professionale, case rifugio per donne abusate, minuti ma utilissimi ospedali, allevamenti di capre e coltivazioni di zafferano in terra d’oppio - Cristina infondeva stimoli e consigli con quell’argenteo afflato che lo stesso attivismo sembra aver smarrito. Usando un metodo indispensabile perché quei sogni diventassero realtà: creare un lavoro collettivo. Fuori da gerarchie e ruoli da primattrici che scavano solchi egoistici anziché riunire le forze per raggiungere uno scopo. Cristina aveva il dono dell’ascolto e lo divulgava alle colleghe che la circondavano e a quanti, oltre il genere, si ritrovavano a collaborare con un’associazione tutta femminista. Così il Cisda è cresciuto felicemente e proficuamente, ha realizzato cose concrete nell’ostico territorio dell’Hindukush, ha creato legami lunghi migliaia di chilometri, ha portato nelle città dove le attiviste italiane lavorano le testimonianze e la presenza delle compagne afghane. Negli ultimi anni il cuore del Cisda si è aperto anche alla questione kurda con delegazioni in loco finché sono state praticabili di fronte alla crescente repressione turca. Due anni or sono, durante una di queste, Cristina aveva provato sulla pelle la galera del regime di Ankara, fermata e poi arrestata mentre svolgeva la funzione di osservatrice in un seggio elettorale. Momenti concitati e difficoltosi, fortunatamente superati con l’intervento della diplomazia nazionale, momenti da cui lei aveva trovato ulteriore impulso e rinnovato impegno interno e internazionale. In questo struggente giorno di lutto, il pregevole lascito del suo percorso d’una vita piena e altruista è illuminato da una ferrea forza d’animo racchiusa nel suo solare sorriso. Un sorriso impossibile da dimenticare.