Al Cairo nel fine
settimana i servizi di sicurezza egiziani hanno messo le mani sulla “primula
rossa” della Fratellanza Musulmana finora sfuggita agli arresti. E’ Mahmoud
Ezzat, 76 anni, che nel gruppo aveva rimpiazzato Mohammed Badie dopo la sua cattura
avvenuta nelle settimane seguenti la grande repressione dell’estate 2013. Sebbene
Ezzat fosse noto, e nonostante il radicato sistema di controllo e spionaggio
incrementato negli anni dal generale al Sisi, l’ultimo leader della
Confraternita è rimasto a lungo latitante. Si era ventilata una sua fuga all’estero,
si pensava in Turchia, dove alcuni Fratelli musulmani ripararono nelle prime
fasi dell’escalation militare golpista, godendo della protezione del governo
dell’Akp. L’uomo viveva blindato in pieno centro della capitale, in una zona
esclusiva, vicino all’Università Americana, probabilmente aiutato da un
manipolo di fedelissimi. Oppure il regime sapeva e l'ha tenuto nel mirino, valutando quando catturarlo. Durante l’irruzione nell’appartamento-rifugio gli
agenti della Sicurezza Nazionale hanno trovato pc e telefoni mobili con cui
l’uomo teneva contatti con membri della Brotherhood presenti in altri Paesi. Sulla
sua testa pesano due condanne a morte per terrorismo, le stesse che avevano
colpito altri capi dell’organizzazione (Morsi, Badie) che comunque erano state
tramutate in ergastolo. Molte di queste sentenze sono state emanate in totale
mancanza di prove, come ribadivano gli avvocati dei diritti che hanno difeso
gli imputati prima d’essere essi stessi arrestati, nel clima di caccia
all’oppositore lanciato dal 2014 dall’insediato presidente Sisi. Un clima che
prosegue, s’è espanso andando a colpire qualsiasi cittadino si occupi di
vicende interne oppure a esprimere non solo critiche ma anche semplici dubbi
sull’operato governativo. Il ministero dell’Interno egiziano comunica che durante
la perquisizione nell’appartamento di Ezzat sarebbero stati trovati documenti
di un “piano distruttivo” predisposto dal medesimo. Chi studia i movimenti
politici islamici egiziani afferma che durante tutta la militanza, iniziata
negli anni Sessanta, Ezzat, ormai anziano, ha sempre sostenuto la giustezza
d’una pratica non violenta. Anche davanti alla recrudescenza delle dure misure nasseriane,
e dopo quando una parte dell’islamismo decideva di eliminare il presidente Sadat.
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lunedì 31 agosto 2020
domenica 30 agosto 2020
India, governo infiltrato dai musulmani
Lo scoop lanciato da un’emittente televisiva indiana (Sudarshan tv) vicina alle posizioni
estreme dell’hindutva e del suo gruppo
maggiormente organizzato - Rashtriya Swayamsevak Sangh - condiziona nelle
ultime settimane le discussioni e i commenti di molti analisti: l’Intelligence
di Delhi e lo stesso governo Modi, sarebbero oggetto d’una cospirazione
islamica incentrata sull’infiltrazione.
Non potendo battere il partito di governo, Bharatiya Janata Party, negli ultimi
anni tanto forte nelle urne e per le strade, i musulmani penserebbero di
conquistarlo dall’interno. E’ una teoria priva di prove, più propaganda che
servizio giornalistico - del resto il caporedattore nonché amministratore delegato della tv, tal Suresh Chavhanke, è stato già condannato per faziosità e incitamento alla violenza collettiva - ma tiene comunque banco nel dibattito pubblico. Anche
perché storicamente non solamente accesi nazionalisti ma gli stessi indiani
liberal rammentano come all’epoca del generale Zia-ul-Haq (che nel 1977 prese
il potere con un golpe in Pakistan diventando l’anno seguente presidente), la
nazione confinante, storica avversaria di Delhi, adottò una strategia volta a
indebolire i vicini. Con attentati compiuti da agenti dei servizi (la
chiacchieratissima Inter-Service Intelligence) e da formazioni fondamentaliste
islamiche finanziate e addestrate da Jalalabad. Dunque, uno spettro passato esiste.
Con tanto di riferimenti a posizioni moderate, aperte alla
presenza di elementi non hindu nel Bjp, come quella dell’esponente e fondatore
del partito, Atal Bihar Vajpayee, che fu primo ministro nel 1996, nel 1998 e
per l’intero mandato dal 1999 al 2004. Pur col rilancio dei sospetti di
cospirazioni esterne d’ispirazione confessionale (una riguardava influenze e
complotti Vaticani) furono gli avvenimenti del 2002 nello Stato del Gujarat a
accendere il clima nel Paese e orientare il Bjp verso una totale appartenenza ‘arancione’.
In quel febbraio un treno di pellegrini hindu fermo nella stazione di Godhra
prese fuoco, morirono 59 persone. Precedentemente c’era stata una colluttazione
fra hindu e musulmani e quest’ultimi vennero accusati d’aver incendiato il
vagone ferroviario. Una successiva indagine della magistratura dimostrò che le
cause erano endogene: era stato un fornello acceso per riscaldare del cibo a
sviluppare le fiamme nella carrozza. Ma nella cittadina e poi nell’intera regione
del Gujarat la comunità hindu attaccò i musulmani, uccidendo e bruciandone
abitazioni. Le vittime furono migliaia. Il premier di quello Stato indiano era
Narendra Modi che non mosse un dito per fermare le violenze anti islamiche. Vajpayee
avrebbe voluto rimuovere Modi, però la componente più fondamentalista interna
ai vertici del Bjp, che cresceva a dismisura, glielo impedì.
La svolta intrapresa dal partito, sempre più hindu e
anti minoranze, porterà Modi ai vertici interni e, dal 2014, a conquistare il
governo. Eppure fra consiglieri e ispiratori del suo corso politico c’è stato
chi sul fronte estero gli ha indicato la via di accomodamenti col mondo arabo,
specie dalle parti del Golfo, monarchie piene di petrodollari, fonti
energetiche di cui l’economia indiana necessita e orientamenti securitari nella
realpolitik islamica. I canali si sono aperti verso i Saud. Comunque il fronte
interno e la politica estera, che spesso si condizionano, possono mantenere
approcci distinti. Lo Stato-continente già in flessione economica nel corso del
2019 vive una palese difficoltà con una caduta del Pil a percentuali che non
registrava da quarant’anni. 5.1 dicono gli analisti, cifra che farebbe
sorridere qualsiasi occidentale, ma per l’India che correva e rincorreva la
Cina la frenata è evidente. Ancor più dallo scorso marzo a seguito della
pandemia, dura nel colpire (3.5 il dato degli infettati che pone l’India al
terzo posto nella graduatoria mondiale del Covid-19). Da qui chiusure che
proseguono o riprenderanno negli Stati che avevano liberato le persone, non gli
affari rimasti in ribasso. Perciò la ricerca di problemi, di capri espiatori reali o presunti,
con nuovi temi che richiamano vecchi fantasmi, può risultare utile.
venerdì 28 agosto 2020
L’Afghanistan seppellito nell’acqua
Mentre Abdullah,
nominato presidente della Commissione dei Colloqui inter afghani, si dice
fiducioso nell’inizio degli incontri fra la delegazione del suo governo e
quella talebana (però 320 turbanti prigionieri attendono ancora d’essere
scarcerati), nel nord del Paese la città di Charikar è diventata un cimitero.
Una terribile inondazione ha sradicato case e quasi ogni altra presenza della
località pedemontana incavata sotto l’Hindu Kush. Finora si contano
centocinquanta vittime e oltre duecento feriti, alla stregua d’un attentato
jihadista. Flussi d’acqua piovana rombanti come torrenti e grandi come fiumi si
sono riversati in piena notte nelle case, cogliendo le famiglie nel sonno. Crolli,
fughe, annegamenti, schiacciamenti. Un quadro macabro. Alle difficoltà
esistenziali in una zona impervia, al virus pandemico che colpisce anche nelle
aree rurali, s’aggiunge quest’ulteriore disastro con famiglie che dipendono
unicamente da soccorsi governativi (finora si sono mossi alcuni reparti dell’esercito)
e futuri aiuti internazionali. Anche combattenti talebani della provincia di
Parwan si sono resi disponibili ai soccorsi, tranne poi scoprire che alcuni di
loro hanno attaccato un avamposto militare crollato, con conseguente conflitto
a fuoco e vittime pure civili. Tragedia nella tragedia, che la dice lunga sulla
pacificazione attesa coi suddetti colloqui... Sebbene a fine agosto fenomeni
metereologici avversi siano comuni in quelle zone, testimoni anziani
sopravvissuti hanno dichiarato alla televisione nazionale, che ieri s’è
collegata dall’area disastrata, di non ricordare inondazioni tanto drammatiche.
Le case sono state smembrate, spaccate dalla furia delle acque, aperte in due
come fossero fette d’una torta tranciata da gigantesche pale. C’è da dire che
alcuni edifici distrutti erano stati costruiti di recente in zone golenali o
alluvionali, che sarebbero dovute restare inedificabili. Ma le speculazioni
avvenute per il basso costo dei terreni da parte di società e l’avidità di
singoli hanno incentivato un simile sciagurato approccio al territorio,
autolesionista verso se stessi. Questione, comunque, che non è prassi
esclusivamente afghana.
martedì 25 agosto 2020
Nuova Turchia, attori e progetti
Un paio d’anni fa s’era tolto lo sfizio di sfidare Erdoğan
dicendogli: “Non sei il padrone dello
Stato. Sei solamente un viaggiatore, mentre i Lupi grigi, i nazionalisti e i
patrioti tutti, a qualunque stirpe appartengano, sono i gestori dell’albergo”.
Poiché il soggetto è, nel bene e nel male, un uomo pubblico - al secolo
Alaattin Çakıcı, boss della mafia turca - la stampa nazionale riportò
l’avvertimento e in quell’occasione neppure ci fu una condanna, com’era
accaduto per un precedente episodio. Ma per chi ha accumulato 36 anni di
reclusione, dieci mesi in più sono scampoli, e poi il boss di Trebisonda non è
solo un boss. Vanta d’essere un Lupo grigio, amico personale di Devlet Bahçeli,
che lo visitava quand’era piantonato in ospedale e ha provato a incontrarlo
anche in prigione. Dove, comunque, Çakıcı non è più. Nell’aprile scorso per
motivi di pandemia, come parecchi reclusi turchi d’ampia stoffa criminale, ha beneficiato
di un’uscita di prevenzione. Soluzione inapplicata a oppositori e perseguitati
dal regime dell’Akp. Il curriculum di Çakıcı è ricco, oltre che di condanne
d’ogni sorta, fra cui una quarantina d’omicidi, anche di collaborazioni col Mıt
turco. Non in tempi recenti, a metà anni Novanta, quando proseguiva la
repressione della sinistra e imperversava la guerra civile col Pkk. Insomma il
padrino del Mar Nero vanta servizi per quel genere di vatan, noto come ‘Stato profondo’ contro cui Erdoğan e il suo staff
si scagliarono a inizio mandato (caso Ergenekon e simili), per poi
riconsiderare in tempi recenti e nei vari aggiustamenti delle alleanze, idee, tattiche,
uomini, volti. Dovendo sopportare anche quelli trucidi alla Çakıcı,
sguinzagliato quale cane da guardia di quell’ultradestra presente nell’area
criminale dal manovratore Bahçeli. Gli interventi di alcuni studiosi (Posch, Karaveli,
Aydintaşbaş) pubblicati nell’interessante numero della rivista Limes dal titolo “Il turco alle porte”
aiutano a comprendere aspetti che normalmente sfuggono alla cronaca e
all’analisi sui multiformi risvolti della politica turca, recente e passata.
Così l’immagine d’antan offerta dal leader dei nazionalisti, non
solo quella personale in cui mostra più degli attuali 72 anni ma l’entità d’un
partito tutto rivolto al passato oscuro fatto di assassini politici, trame,
golpe, nostalgie fascistoidi, non funge da semplice aggregato alla politica del
governo presidenzialista. Ne determina la svolta, ben più che autoritaria. I trentatrè
voti nazionalisti (l’Akp ne disponeva 315) che nel 2017 servirono al passaggio
parlamentare per apportare le modifiche presidenzialiste pesarono come piombo,
lo stesso dicasi per la successiva consultazione popolare, vinta col 51,4%. Da
quel momento Erdoğan si prendeva la gloria, le interviste televisive, occupava
la scena internazionale, ma Bahçeli dettava l’agenda attorno a questioni come
quella kurda, esasperando la repressione, e rilanciava l’onore dell’esercito
kemalista con la nomina a ministro della Difesa di Hulusi Akar. Militare molto
“atlantista” con una carriera in ascesa in varie operazioni della Nato, anche
quelle nei Balcani (Bosnia, Kosovo) territori che l’asse panislamico della
politica turca osserva sempre con sentimento. Certo, nella notte del tentato
golpe dei militari “gülenisti”, Akar s’era guadagnato la considerazione del
presidente col rifiuto di firmare una dichiarazione di legge marziale
sottopostagli dai golpisti. Un aneddoto lo dà riluttante anche quando gli fu
stretta una cintura attorno al collo. Ma la sua investitura a ministro è giunta
dopo due anni e su spinta del sempre più decisivo Bahçeli. Dunque, come la
prassi del do ut des insegna,
l’ultradestra - protagonista per tutti gli anni Settanta e Ottanta della
politica turca, quindi emarginata dalle versioni liberista e para-riformista
d’un neo kemalismo e dall’islamismo pur ultraconservatore della prim’ora (con
Erbakan) e quello d’avvìo dell’Akp - rientra a pieno titolo nella nuova fase
del Paese. E riceve il massimo dall’appoggio dalle mire personali del potere
erdoğaniano.
Nel progetto di rilancio della Turchia quale potenza regionale,
con una visione anche più allargata, molto si gioca sul versante estero. Qui
Erdoğan ha dato fondo a ogni sorta d’affondo sul confine siriano, poi dallo
scorso inverno in terra e in mare libici, e sui tavoli internazionali dove la
sua “diplomazia militare” sta pagando dal punto di vista politico,
geostrategico e in un futuro, che è già presente, economico. Ma tanta
muscolarità s’è resa possibile perché le Forze Armate approvano e assecondano.
I corpi di terra, aria e acqua, depurati dalle infiltrazioni dei Fetö, sono con
lui. Compresa una riattivata rete di ultranazionalisti, emarginata dieci anni
addietro, cui appartengono gli ex ammiragli Gürdeniz e Yaycı, padri del piano
denominato “Patria blu”. E’ una componente se non proprio militante, vicina al
nazionalismo di Bahçeli che indica la strada da seguire per una Nuova Turchia. Per
plasmare questo terreno, gli ambienti che girano attorno ai due alleati di
governo non hanno dovuto compiere forzature l’uno sull’altro. Fra i tratti
caratteristici del presidente turco c’è l’adeguamento ai nuovi scenari che lo porta
a compiere quei ‘giri di walzer’ capaci di spiazzare chi pensa di collocarlo in
un unico schema. Nelle iniziali mosse da premier lui denunciava il
nazionalismo, seppure nei trascorsi giovanili c’era stato un acceso anticomunismo
che non lo farebbe distinguere da certi attuali teorici dell’ultradestra. E
negli ultimi tempi vari politici, islamisti e non, rivangano grandezze passate
e miti nazionali. Il comune conservatorismo adotta l’islamismo senza farne
l’unica arma, le metafore su “cupole-elmetti
e minareti-fucili” sono sostituite da “popolo
mai piegato, bandiera non ammainata, preghiera sempre presente”. Così la
nuova ideologia basata sul culto statale, sulla forza della leadership, sulla
minaccia dei nemici interni ed esterni cementa la presa su una maggioranza che
può ricavare consensi anche fra coloro che hanno cercato di sgambettare il
regime col voto amministrativo del 2019. La partita della Yeni Türkyie è aperta. I potenziali avversari devono mostrare un
progetto e un’identità capaci di scontrarsi con gli accattivanti sogni d’una
nuova gloria nazionale. Che usa ogni arma e ogni alleanza.
domenica 23 agosto 2020
Cipro, passaporti dorati
Ci sono alcuni nomi che scottano nei ‘Cyprus Papers’ che hanno
iniziato a circolare in queste ore diffusi dall’emittente Al Jazeera. Denaro in cambio di passaporti locali (greco-ciprioti) con
cui riciclatori di fondi illeciti, manager o pseudo tali, corruttori e corrotti
ottenevano dal chiacchierato membro dell’Unione Europea il documento necessario
per continuare a viaggiare, “lavorare”, mantenere i contatti per ogni genere di
affari. Un investimento miliardario per l’economia cipriota, che dal 2013 ha
incamerato sette miliardi di euro. A conferma di quanto il traffico rendesse e di
quanto gli acquirenti della ‘carta d’oro’ fossero numerosi. Non è un caso che
il “Programma d’Investimento” come veniva definito il commercio di passaporti,
inizi in quell’anno che rappresentò per la Repubblica cipriota (la parte settentrionale
dell’isola è dal 1974 sotto il controllo della Turchia con la denominazione di
Repubblica turca di Cipro nord) un possibile fallimento statale. Diverse banche
dell’isola - già sospettate di lavaggio di denaro della criminalità
internazionale, primi fra tutti i clan mafiosi russi - avevano assunto
dimensioni spropositate. Talune si esposero con crediti verso la Grecia che
viveva la fase acuta della sua crisi finanziaria, cosicché gli istituti
ciprioti subirono ingenti perdita. In quell’occasione Bruxelles varò un piano
di salvataggio con un prestito di dieci miliardi di euro, a fronte d’un
aggiustamento fiscale governativo di circa sei miliardi.
Nonostante i travagli e il salvagente europeo Cipro continuava la sua
politica borderline con ogni sorta d’affarismo. Quello dei passaporti dorati, è
solo uno degli esempi della sua finanza creativa e fuorilegge. Fra i “donatori”
spuntano fuori i primi nomi eccellenti: l’ucraino Mykola Zlochevsky padrone del
gigante energetico Burisma. Nell’autunno scorso entrato in alcune indagini dei
procuratori del suo Paese che coinvolgevano anche Hunter Biden, figlio del neo
candidato alla Casa Bianca Joe, attorno a un presunto commercio internazionale
illecito di gas, di cui però non s’è saputo più nulla. Zlochevsky comperò un
passaporto cipriota nel 2017 quand’era sotto inchiesta. Nello scorso giugno i
procuratori ucraini hanno affermato d’essere stati oggetto di un’offerta di sei
milioni di dollari da parte del manager per far cadere le indagini.
L’interessato e l’holding smentiscono. Gigante energetico per gigante e tycoon
per tycoon l’altro nominativo che spicca nell’inchiesta è quello di Nikolay
Gornovskiy, già direttore dell’azienda statale russa per l’energia Gazprom, che
richiese il passaporto cipriota un anno fa quand’era già ricercato in patria
per abuso di potere. Quindi, a scalare, altri incriminati o già condannati: il
russo Ali Beglov per estorsione, il cinese Zhang Keqiang che riceve il
documento pur se condannato per operazioni fraudolente. E ancora in Asia il
vietnamita Pham Nhat Vu, reo di tangenti in accordi telefonici. Tutti aggregati
alla Repubblica di Cipro.
Nella primavera 2019 il Parlamento cipriota introduce regole più
severe riguardo all’ottenimento della cittadinanza soprattutto per chi è
investigato, ricercato e condannato a livello internazionale. Nel luglio
seguente viene approvata la possibilità in casi simili di cancellare la
cittadinanza concessa, ma non passa la proposta di rendere pubblici i
nominativi di chi incorre nel provvedimento. A seguito delle norme più
restrittive i responsabili di crimini possono essere perseguiti per un periodo
fino a dieci anni successivi dall’acquisto del passaporto. Ora le carte
cipriote stanno portando a galla personaggi su cui la politica locale (e anche
europea, visto che dal 2004 il Paese è membro dell’Unione) ha chiuso gli occhi
in cambio d’un mercimonio tutt’altro che morale. Accanto ai soggetti già citati
le iniziative di elementi come il venezuelano Gonzalez Dellan, l’ucraino Oleg
Bakhmatiuk hanno tutte un comune denominatore: riciclaggio. Che nei termini
investigativi internazionali fa rima con le varie illegalità delle mafie
mondiali: soprattutto narcotraffico e contrabbando di armamenti, tratta di uomini e
donne, fino alle vendite energetiche sottobanco. In relazione a simili piani,
l’evasione fiscale è il reato più “innocente”… E’ vero che nella lista
risultano anche truffatori internazionali, coinvolti in reati volti all’arricchimento
personale (frode, appropriazioni indebita e simili), ma la deriva scandalosa è
che per anni ad aiutare e coprire tutto ciò ci fossero le banche e le
Istituzioni cipriote. Con la Ue distratta. O complice? Del resto, se su alcuni
dei misfatti in questione si volesse investigare su altri “Stati” membri - due
a caso: Malta o Lussemburgo – quanti illeciti e delitti si scoprirebbero?
mercoledì 19 agosto 2020
Kabul, una vendetta dietro la strage degli innocenti
In un reportage svolto a Kabul, Luc Mathieu, inviato del
giornale Liberation, raccoglie
testimonianze e dichiarazioni di ufficiali dei Servizi per spiegare l’atroce
attentato all’ospedale “Cento letti” dell’Ong Médecins sans frontières dello scorso 12 maggio. Una carneficina
risultata a lungo inspiegabile pur davanti al cinismo dei maggiori indiziati:
jihadisti del Khorasan e talebani. Ventiquattro vittime, fra cui madri,
neonati, partorienti, ostetriche. Nessuno aveva rivendicato il folle gesto, i
taliban accusati direttamente dal presidente Ghani, smentivano sdegnosamente,
sostenevano: “Non attacchiamo maternità e
funerali”. Dei tre attentatori visti penetrare solo uno era stato ritrovato
morto, crivellato dai colpi degli uomini della National Directorate of Security,
e dei cecchini dei reparti speciali della Nato, accorsi anch’essi a reprimere
un assalto durato oltre cinque ore, poiché il commando s’era barricato
all’interno della struttura. Invece degli altri due partecipanti all’azione non
s’è saputo più nulla. Dalle ricostruzioni dei presenti raccolte dal quotidiano
parigino, gli assalitori vestivano
divise della polizia, mentre il loro compare indossava il tipico shalwar kamiz, “di colore blu” ricorda con certezza chi è rimasto fortunatamente illeso.
Accanto alle notizie sul commando: l’attacco, che ha
avuto luogo in una fase difficile per il Daesh afghano, colpito nel mese
precedente dall’arresto del leader Aslam Ferooqi, e sugli aiuti interni:
logistico dalla Rete di Haqqani, un nucleo talebano dissidente sin dall’epoca
del fondatore Jalaluddin, protettivo del gruppo Lashkar-e Taiba (l’Esercito dei
giusti) di stanza a Kunar che è l’ala militare del pakistano Markaz al-Dawa
Wal, c’è un’altra importante scoperta nell’inchiesta giornalistica. L’infame
assalto all’ospedale del quartiere di Dasht-e Barchi, area povera della
capitale abitata prevalentemente dalla comunità hazara, sarebbe avvenuto per
vendetta. Per rispondere a un’operazione antiterroristica contro cellule dello
Stato Islamico compiuta dalle forze della sicurezza afghana nella provincia di
Kabul a inizio maggio. Nell’occasione due donne incinte legate a qualche
miliziano erano rimaste uccise, da lì la scelta di seguire la via più orrenda: applicare
la legge del taglione. Il racconto degli scampati, rifugiatisi in reparti
dotati di porte blindate, percorre momenti di dolore per quanto hanno visto e
perduto fra affetti e amicizie. Parte delle rivelazioni provengano
dall’Intelligence afghana, dunque potrebbero risultare interessate, ma la fondatezza
della ricostruzione è stata verificata anche col contributo di analisti che
studiano il fenomeno del Daesh e anche per costoro la crudele ipotesi risulta
ammissibile.
Sentenza Hariri, i lampanti misteri d’un Paese sospeso
Quindici anni, un colpevole, neppure così certo. E
non perché all’epoca fosse appena maggiorenne, ma perché Salim Jamil Ayyash
membro di Hezbollah, non può aver compiuto da solo l’attentato di San Valentino
che fece saltare in aria sulle Corniche beirutine il premier Rafiq Hariri, l’ex
ministro Fleihan, gli uomini della scorta e chi, per sua sfortuna, transitava
nei pressi dell’hotel St. George. Eppure il Tribunale Internazionale dell’Aja
decide che Ayyash è l’unico colpevole, gli altri indiziati (Hassan Mehri,
Hussein Oneissi, Assad Sabra, come lui membri del Partito di Dio) non possono
essere condannati, nonostante gli indizi lasciati dai loro telefoni cellulari
che segnalavano una morbosa attenzione sugli spostamenti del primo ministro. E’
vero che quel Tribunale può giudicare le persone non i complotti politici e le
trame internazionali, ma la condanna d’un singolo posto come capro espiatorio
in un attentato eclatante, che a detta di tutti i politologi è un intrigo a più
mani, risulta quantomeno limitante. Così tutto resta in sospeso nel Paese che
da tempo si riserva una realtà solo parzialmente ammantata di misteri, poiché
quel che accade nella sua vita sociale, finanziaria, politica, istituzionale, militare
e paramilitare è assolutamente palese, ma volutamente è letto come indefinito o
indefinibile.
Questo perché il domani può diventare peggiore del presente e
gli stessi richiami che si danno i partiti sul futuro, messo nelle loro sigle,
è una maschera a una realtà che un simile approdo può solo sognarlo. Così se il
terribile attentato ad Hariri padre ha comunque definito un passaggio del
Libano che viveva ancora nel 2005 lo spettro dell’occupazione straniera (in
quel caso delle truppe di Asad ritiratesi ai primi di marzo dalla valle della
Beqaa), i famelici fantasmi dei potenti vicini si ripresentarono sedici mesi
dopo, coi bombardamenti dell’aviazione israeliana e gli scarponi di Tsahal
nuovamente sul suolo patrio. E’ la contraddizione che vive il piccolo paese
levantino, schiacciato da ingerenze straniere, sia quelle indesiderate, sia
quelle ricercate sotto forma di aiuti. E la rinascita della nazione intrapresa
dalla politica liberista di Rafiq Hariri a suon di petrodollari sauditi -
fronte sunnita di un’emancipazione senza sviluppo, cui sorrideva anche un pezzo
della comunità maronita (la più conservatrice continua a farsi carezzare dal
colonialismo di ritorno francese) e gli ondivaghi drusi - non è riuscita a
risollevare le sorti della gente. I prosecutori del progetto di Hariri, si sono
persi per via per incapacità, subordinazione, vizi e beghe personali e di clan,
mostrando tutti i limiti di un’economia improduttiva, basata su servizi, bolle edilizie
e balle di benessere vendute a risparmiatori poi rapinati dalle banche dove
passano diversi affari delle petromonarchie.
L’altro Libano, quello controllato dalla lunga mano iraniana
attraverso il discusso Partito di Dio, dopo aver conseguito successi militari
contro l’invasione israeliana del 2006 e aver venduto il ruolo patriottico
della propria militanza, è stato gradualmente risucchiato dalla sudditanza alle
strategie geopolitiche di Teheran, a sua volta rese difficili dall’aria in
Medio Oriente, dai soffocamenti dell’embargo statunitense, dalle “primavere”
trasformatesi in “inverni” per le necessità di popolazioni locali che hanno
ripreso a soffrire, per le guerre civili e jihadiste, come in Siria, per le
repressioni come in Egitto e Turchia. Il piccolo Libano, oppresso dalle
abiezioni d’una classe dirigente autoreferenziale e mafiosa, un po’ su tutti i
fronti confessionali, colpe mostrate come l’unica via per rendere possibile una
stentata sopravvivenza, si ritrova a portare in groppa quel che altri decidono
debba accadere in quella terra. Si tratti di milioni di persone lì destinate
non solo per questioni di confine, o d’inette gestioni di spazi destinati a
stipare problemi, denaro (che la gente non vede), nitrato di ammonio la cui
presenza ha deflagrato sulle carni di uomini e donne che, quando sopravvivono,
possono solo apprendere ciò che gli è accaduto attorno. Deflgrazione dopo
deflagrazione, pirica, finanziaria, giudiziaria. Senza poter decide nulla. Il
Paese sospeso continua a essere appeso a un filo, quello del solito denaro estero.
sabato 15 agosto 2020
La vocazione mediterranea della patria turca
Quando Erdoğan sperimentava i primi anni di potere
d’un rilanciato schieramento islamico con la sigla dell’Akp, l’ammiraglio Cem
Gürdeniz parlava di “Mavi vatan” che
significa “Patria blu” e riporta il
sentimento turco al momento della grande punizione, quella sancita dal trattato
di Sèvres dell’agosto 1920. Allora l’Impero Ottomano, sconfitto nel primo
conflitto mondiale, divenne solo un pezzo di Anatolia, perdendo a ovest le aree
di Edirne e Smirne, a est territori a vantaggio dell’Armenia, d’un ipotetico
stato kurdo peraltro mai nato, e zone meridionali dove francesi e britannici
stabilivano il proprio protettorato. E’ vero che tra anni dopo, a porre fine al
sanguinoso conflitto greco-turco, la nazione kemalista si ritrovò padrona dei
territori occidentali e orientali, mentre a sud nascevano gli Stati siriano e
iracheno, ma da quel momento l’influenza sul ‘mare bianco’ d’ottomana memoria
diventava solo un ricordo storico, sia per la perdita definitiva dei territori
dell’Africa mediterranea orientale (Tunisia alla Francia, Tripolitania,
Cirenaica, Dodecanneso all’Italia) sia per la politica di Atatürk concentrata
sulla ricostruzione interna.
Nel 2006 Gürdeniz, che non nasconde il suo viscerale nazionalismo,
era direttore del Piano di divisione del quartier generale delle forze navali
turche, e rispolverava la nostalgica proiezione marina della Turchia un tempo
imperiale. La visione del presente geopolitico fra l’allora premier Erdoğan e
gli apparati della difesa appariva assai diversa. E’ di quel periodo il
presunto “piano Sledgehammer”, un progetto di golpe per abbattere il governo
che non fu mai effettuato, e che nel 2010 condusse alla sbarra il Gotha di
esercito, marina, aviazione di uno dei più forti membri della Nato. Dopo
ventuno mesi d’indagini la Corte criminale di Istanbul produsse 325 condanne su
365 graduati turchi indagati. Le pene che dovevano essere esemplari scesero a fasi di reclusione, sebbene in qualche caso lunghe vent’anni. Per altri
ufficiali anziani si passò alla collocazione a riposo. Il dibattimento del
processo fu un vero scontro fra i legali di parte governativa e i difensori dei
militari. Quest’ultimi sostennero che molte registrazioni portate come prove
erano manipolate, ma di fatto la lobby kemalista in seno alle Forze Armate uscì
con le ossa rotte ed Erdoğan potè rimpiazzare un gran numero di ufficiali con
nuovi elementi compiacenti alla linea politica dell’Akp. Fra coloro che si collocarono
a riposo, o vennero ‘invogliati’ a farlo dopo la dura diatriba giudiziaria, con tanto di carcerazione, c’era
anche l’ammiraglio Gürdeniz.
Lui studiò, scrisse e si riciclò brillantemente quale editorialista
sulle testate Aydınlık Dailiy e Yacht
Magazine, quindi divenne direttore del Forum marittimo dell’Università Koç
di Istanbul. Le sue posizioni patriottico-marinare non sono cambiate, lo
conferma un’intervista concessa al quotidiano Hürriyet Daily poco più d’un anno fa (cfr. https://www.hurriyetdailynews.com/blue-homeland-shows-turkey-has-become-a-maritime-power-141624),
ma è l’uomo del destino turco, nel corso di molteplici mandati e nuove cariche,
ad aver adattato i suoi piani e i volti alleati. Fra il 2010 e 2012 al fianco
di Erdoğan c’era il ministro degli Esteri Davutoğlu, il professore
dell’Università di Beykent che la rivista Foreign
Policy definiva “il cervello che sta
dietro al risveglio globale della Turchia”. Un pezzo forte della
geopolitica di Ankara dell’epoca teorizzava la linea “zero problemi coi
vicini”. Invece fra questioni interne, guerra civile siriana su più fronti,
presenza in Libia via terra e via mare, più le recenti diatribe sulle Zone
economiche esclusive nell’Egeo i problemi presi di petto dal presidente turco
sono decine. La sua diplomazia continua a cercare il gesto estremo e ora mutua
anche la “Patria blu” dall’ammiraglio ultranazionalista. In essa Erdoğan colloca interessi
commerciali e supremazia politica, con l’ausilio di navi scandaglio e fregate
d’assalto, più radar, missili, droni da vendere o usare, anche solo per dissuadere.
Pur di occupare spazi vitali. Anche quelli su cui l'Occidente mostra disinteresse.
mercoledì 12 agosto 2020
Colloqui inter afghani – Roshan: “Riscattare i taliban è un tradimento nazionale”
Il sourplace del rilascio dei detenuti talebani si scioglie in uno
sprint. Il presidente Ghani, da acceso oppositore dell’accordo sottoscritto in
febbraio a Doha fra le delegazioni statunitense e dei rappresentanti della
Shura di Quetta per rilasciare cinquemila prigionieri, è diventato nei mesi seguenti
un mediatore. L’ha fatto per rientrare nel giro che conta, che l’aveva
riproposto come capo d’uno Stato esistente sulla carta più che sul territorio,
per poi escluderlo dalle trattative su come amministrare l’area dell’Hindukush
sfinito da quarant’anni di guerra. L’ultimo atto dei colloqui inter afghani ha
visto Ghani convocare nella scorsa settimana la Loya Jirga e far passare, col
benestare di capi tribali e notabili, la decisione di rilasciare gli ultimi
quattrocento reclusi della lista talebana. Nella parata gli ha fatto eco il
nemico-compare Abdullah Abdullah, insignito mesi addietro della carica di capo
dell’Alto Consiglio per la conciliazione nazionale, dopo che aveva minacciato
azioni contro il Ghani vincitore, a suo dire truffaldino, nelle elezioni dello
scorso settembre. La coppia di eterni rivali che dal 2014, minacciando
contrasti, si spartisce i fondi degli aiuti internazionali, dice d’esser pronta
a dialogare con quei talebani che finora non ha voluto incontrarli. Però negli
ultimi tempi anche gli studenti coranici hanno cambiato registro, si mostrano
flessibili perché sanno di poter guadagnare tanto. Dunque nei prossimi giorni
Doha potrà vedere il faccia a faccia fra i nemici di lungo corso: quel che
resta dei Signori della guerra governativi sponsorizzati dagli statunitensi e
quel che conta della galassia talebana, benedetta sempre da Washington. Come
tutti sanno il passo della “riconciliazione” è frutto delle politiche del
Pentagono che, con o senza Trump, vuole stabilire nuove regole sul controllo di
quei territori. E dopo il ventennio di fallimenti dell’Enduring freedom, dell’Isaf
mission, del Resolute support ha
deciso d’imbarcare i talebani nelle prossime giunte.
A quale prezzo l’ha scritto su un cartello esposto
nel corso del dibattito nella Loya Jirga la senatrice di Farah Belquis Roshan,
da anni in prima linea per sostenere i diritti delle donne e delle popolazioni
più umili. “Riscattare i taliban è un tradimento nazionale” diceva quel
cartello, esposto mentre Ghani interveniva nell’assemblea e seguito da una
serie di domande che l’attivista politica poneva al presidente. Lui non
rispondeva e subito dopo, com’era accaduto in altre circostanze, Roshan era
accompagnata fuori dall’assise dal personale della sicurezza. La contestazione
della senatrice ha un ampio carattere politico, ma nello specifico quest’ultime
scarcerazioni, barattate dal governo con la copertura della Loya Jirga,
riguardano individui che poco hanno a che fare con la sfera militare dei
turbanti, e coinvolgono soggetti implicati in azioni criminali contro cittadini
afghani per ragioni di traffico di stupefacenti, violenze private verso donne e
uomini, seppure col benestare talebano. Comunque Doha ospiterà un’ennesima
seduta di trattative, la richiesta della cricca di Kabul è che i liberati non
tornino sui campi di battaglia, quella degli uomini della Shura di Quetta è che
valori islamici, ruolo dei capi religiosi siano garantiti nelle Istituzioni. E
alla fine tutti si riempiono la bocca di “democrazia” per l’Afghanistan da
ricostruire.
Cristina Cattafesta, il sorriso della lotta solidale
E’ andata via in punta di piedi, non dicendo nulla del
dolore personale. Cristina Cattafesta sapeva fare suo l’altrui dolore,
occupandosi dei problemi piccoli e grandi degli oppressi che aveva incrociato
in alcuni angoli del mondo, ma era una donna schiva, non amava apparire. Una
donna speciale, come ce ne sono molte, però lei al femminismo, alla militanza,
all’attivismo internazionale riusciva ad aggiungere realismo e umanità, ironia
e disincanto, coraggio e serietà in un impegno lontano dai riflettori. Anche
per le tante notizie che forniva, sgradevoli al mainstream. E’
stata fondatrice e animatrice del Cisda, Coordinamento Italiano Sostegno Donne
Afghane, una ong piccola e tosta financheggiatrice di quelle donne che
quotidianamente rischiano la vita, si tratti delle note Malalai Joya, Selay
Ghaffar, Samia Walid e delle migliaia di attiviste Rawa sconosciute per ragioni
d’incolumità, ma determinatissime nei sentimenti politici e amorevoli per il
proprio genere in una terra martoriata. Alle compagne con cui ha lavorato per
anni su progetti magnifici - finanziamenti per orfanotrofi, scuole d’istruzione
primaria e professionale, case rifugio per donne abusate, minuti ma utilissimi
ospedali, allevamenti di capre e coltivazioni di zafferano in terra d’oppio -
Cristina infondeva stimoli e consigli con quell’argenteo afflato che lo stesso
attivismo sembra aver smarrito. Usando un metodo indispensabile perché quei
sogni diventassero realtà: creare un lavoro collettivo. Fuori da gerarchie e
ruoli da primattrici che scavano solchi egoistici anziché riunire le forze per
raggiungere uno scopo. Cristina aveva il dono dell’ascolto e lo divulgava alle
colleghe che la circondavano e a quanti, oltre il genere, si ritrovavano a
collaborare con un’associazione tutta femminista. Così il Cisda è cresciuto
felicemente e proficuamente, ha realizzato cose concrete nell’ostico territorio
dell’Hindukush, ha creato legami lunghi migliaia di chilometri, ha portato
nelle città dove le attiviste italiane lavorano le testimonianze e la presenza
delle compagne afghane. Negli ultimi anni il cuore del Cisda si è aperto anche
alla questione kurda con delegazioni in loco finché sono state praticabili di
fronte alla crescente repressione turca. Due anni or sono, durante una di
queste, Cristina aveva provato sulla pelle la galera del regime di Ankara,
fermata e poi arrestata mentre svolgeva la funzione di osservatrice in un
seggio elettorale. Momenti concitati e difficoltosi, fortunatamente superati
con l’intervento della diplomazia nazionale, momenti da cui lei aveva trovato ulteriore
impulso e rinnovato impegno interno e internazionale. In questo struggente
giorno di lutto, il pregevole lascito del suo percorso d’una vita piena e
altruista è illuminato da una ferrea forza d’animo racchiusa nel suo solare
sorriso. Un sorriso impossibile da dimenticare.