C’è un fragile cuore filo governativo nell’Afghanistan del
presente, quello certificato dal presidente Ghani e dal vice Abdullah che
sembrano non contare nulla nell’Afghanistan del futuro. E poi diremo perché. E’
il cuore che appare bianco nelle carte del controllo del territorio, mappe da
sempre cangianti e negli ultimi anni a favore dei taliban. Non sono neppure
province intere, ma frazioni di provincia quelle sotto la giurisdizione del
maggiore fallimento statunitense nel Paese occupato: l’Afghan National Army,
un’armata Brancaleone di grandi numeri incapace di combattere senza il supporto
dei marines. Sono aree che costoro controllano, e non si sa per quanto, nei
governatorati di Ghowr, Daykondi, Bamian, Samangan e Balkh. Nella stessa super
blindata Kabul, gli attentati, e dunque la presenza jihadista, esistono e si
ripetono. Poi ci sono le roccaforti talebane vecchie e nuove: Helmnd, Ghazni,
Kunar, Kunduz, Sar-e Pul e ora anche l’ex feudo Nato di Farah. Perciò le zone
contese, un buon 40% dei territori, sono in tali condizioni da un triennio, e
questo spiega benissimo perché le delegazioni diplomatico-militari statunitensi
stiano da mesi a Doha a trattare coi turbanti. Perché l’Afghanistan dei
desideri non esiste, né reggono più i governi-fantoccio. Sono andati avanti per
otto anni col volto di Karzai, comunque radicato col suo clan per quanto
divisivo dei Popalzay, ma con l’uomo della Banca Mondiale il bluff è imploso.
Così il rude cuore dell’America trumpiana, pur nascondendo sotto
il tappeto una parte polverosa della realtà, batte imponendo la trattativa col
soggetto intrattabile agli occhi di quell’Afghanistan smarrito e debole che sempre
spera in un futuro. Sono mesi che gli strateghi della Cia e i diplomatici alla
Khalilzad, spezzano il capello in quattro per un piano che giunto al traguardo
prevederà due punti sostanziali: il ritorno nei luoghi di potere (governo,
parlamento) del fanatismo talib che s’aggiungerà al fondamentalismo tuttora presente
in quelle Istituzioni. In cambio della promessa dei talebani ortodossi
dialoganti a Doha di non fornire basi e aiuti al combattentismo stile Qaeda, di
cui essi stessi sono stati parte. Va in porto una vecchia norma: se non puoi
battere un nemico, fattelo amico. Altre vicende, pur dibattute come il ritiro
delle truppe statunitensi, rimarranno nel vago poiché la decina di basi aeree,
funzionali alle strategie geo militari del Pentagono in quella fascia
dell’Oriente, non prevede smobilitazione. Del resto è l’unico risultato utile
ottenuto in diciotto anni di campagna afghana. Le stesse elezioni presidenziali,
rinviate da oltre un anno per ragioni di sicurezza, e che non piacciono a
nessun interlocutore, risulterebbero parziali proprio per le enormi limitazioni
territoriali cui l’organizzazione
elettorale va incontro. Il furbetto Abdullah ha annunciato il personale
disimpegno dalle consultazioni di fine settembre, adducendo un sostegno al
piano di pacificazione e facendo intendere che il tavolo degli accordi, giunto
alla nona sessione, non tiene in nessun conto quella scadenza.
Un percorso peraltro sempre rissoso, contestato e
contestabile, per brogli presunti o realizzati, come Abdullah medesimo ebbe a vivere
con Ghani nell’estate del 2014. Si rischiò uno scontro armato fra la fazione
tajika che sosteneva il primo e i pashtun sodali del secondo, divenuto presidente
per volere della Casa Bianca. Nel modello di Paese nuovo, che l’Occidente
americano ed europeo hanno forzatamente proposto con l’occupazione mascherata
da ‘missione di pace’, tanto per restare sulla
questione delle etnìe non c’è mai stata alcuna pianificazione o proposta
di cooperazione. Anzi, l’annoso
tribalismo etnico utilizzato dai Signori della guerra assieme all’uso della
fede quale strumento divisivo e offensivo, sono stati avallati un anno via
l’altro dai governi locali che dovevano cambiare il volto del Paese. Così i
seminatori di sopraffazione e morte hanno avuto vita facile. Anziché essere
perseguiti per i crimini commessi negli anni Novanta, sono addirittura stati promossi
vicepresidenti. In compagnìa di altri boss della politica armata si sono
arricchiti accaparrandosi aiuti internazionali; purtroppo organismi mondiali
fra cui strutture dell’Onu hanno permesso che attraverso la politica locale tutto
ciò accadesse a danno delle comunità che s’impoverivano. Oggi i manovratori
seduti ai tavoli di Doha e Mosca, garantendo i propri affari e spartendoli coi
gaglioffi vecchi e nuovi della politica afghana (ex warlords, ex e neo taliban)
preparano l’ennesima ribalta a svantaggio della popolazione. La chiamano
pacificazione, ma ennesimi venti di guerra si preannunciano per i deboli di
sempre, bambini e donne in prima fila.